tag:blogger.com,1999:blog-17116138986793620672024-02-22T09:45:55.271+01:00Il blog di Pietro CongedoStoria locale e ricordiFrancesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comBlogger84125tag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-14678406452125374022017-01-02T17:42:00.001+01:002018-03-08T09:12:05.446+01:00GALATINESI ILLUSTRI DEI SECOLI XIX E XX<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjS2NdP-KMF_ctN7i1Gx_h7uc7Ob2_nt1sKZVMLhJM4hkUAzIjOJAfi8mILPDOjZRjRAMvzdQpV71Neu4Eh_r1UfPoNyZZBWtmdZJFD_4uxxJWdh0qDOe9Uz48NYNHir2yzIha7VVTByUV1/s1600/piazza.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><span style="font-family: inherit;"><img border="0" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjS2NdP-KMF_ctN7i1Gx_h7uc7Ob2_nt1sKZVMLhJM4hkUAzIjOJAfi8mILPDOjZRjRAMvzdQpV71Neu4Eh_r1UfPoNyZZBWtmdZJFD_4uxxJWdh0qDOe9Uz48NYNHir2yzIha7VVTByUV1/s400/piazza.jpg" width="400" /></span></a></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 115%;"><b><br /></b></span>
</span><br />
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<a href="https://drive.google.com/open?id=0B7c5iGPmE5vbeW80UGd2b1JPRkE" target="_blank">
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<h2>
<span style="font-family: inherit;"><b style="font-family: "times new roman", serif;">Passato e presente di Galatina</b><span style="font-family: "times new roman" , serif;"> </span></span></h2>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> </span><span style="font-family: inherit;">L’Umanista Antonio De Ferraris (1444 – 1525), detto il Galateo in quanto nato a Galatone, nella sua opera “De situ Japygiae” afferma che Galatina nel ‘500 era un paese dal bel profilo urbanistico divenuto grande emporio ortofrutticolo, in quanto situato al centro (in umbilico) della penisola salentina. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Detto paese il 24 agosto 1792 ottenne il titolo di “città” da parte del re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, al quale erano stati presentati (come per legge) tre esemplari del libro “Baldassare Papadia, Memorie storiche della citta di Galatina nella Japigia, Napoli, MDCCXCII”. </span></div>
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<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel presente scritto vengono presentati Orazio Congedo, Giustiniano Gorgoni, Vito Vallone, Ippolito De Maria, Sante De Paolis, Beniamino De Maria, Domenico Galluccio e Donato Moro, ossia otto personaggi illustri, appartenenti alle generazioni di galatinesi che nei secoli XIX e XX , operando saggiamente assicurarono alla propria patria un notevole sviluppo agricolo–industriale, servizi idonei a rendere serena la vita degli abitanti e una rappresentanza qualificata in seno a tutti i consessi nazionali, ossia quelli che sono i requisiti essenziali di una vera URBS.</span></div>
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<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lo sviluppo agricolo-industriale di Galatina ebbe una crescita esponenziale a partire dagli ultimi decenni dell’800, quando per il commercio fu possibile avvalersi delle Ferrovie dello Stato, la cui tratta Lecce – Gallipoli venne inaugurata nel 1881.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Fu allora che alla miriade di palmenti per la lavorazione delle uve sparsi nell’abitato, si aggiunsero i grandi stabilimenti vinicoli costruiti nei pressi della stazione ferroviaria, tra i quali c’era quello della S.A. Fratelli Folonari, che all’epoca era il più grande d’Europa ed era stato costruito su suolo donato dal Comune. Lo stesso fu poi acquistato dalla S.A, Distillerie Italiane, diventata nel 1939 Società Italiana Spiriti (S.I.S.), e fu per i galatinesi “la distilleria”, presso la quale, oltre a numerosi operai, lavoravano anche impiegati forniti di diploma o di laurea.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dalla stazione ferroviaria di Galatina durante tutto l’anno partivano per varie destinazioni vagoni cisterna pieni di vino o di alcool. Dalla stessa in primavera venivano spediti in Germania, vagoni di patate “sieglinde”, dette “patate di Galatina”, le quali erano prodotte in grande quantità sia dagli agricoltori galatinesi che da quelli dei paesi vicini. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intorno al 1950 numerosi viticoltori, riuniti in cooperativa, costituirono la “Cantina Sociale di Galatina” in viale Ionio, a ridosso della ferrovia, che lavorava annualmente oltre 50mila quintali di uve.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dopo la prima guerra mondiale a Noha, frazione di Galatina, per iniziativa di Giuseppe Galluccio sorse la S.A.L.P.A. (Società Anonima per la Lavorazione dei Prodotti Agricoli), la quale lavorava sia le uve che altri prodotti, tra cui le mele cotogne per la fabbricazione della cotognata. La S.A.L.P.A. produceva anche il “brandy Galluccio”.</span></div>
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<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A Galatina, accanto alle industrie alimentari, prosperava anche la concia delle pelli, per la quale già nel 1855 esistevano 25 botteghe artigiane. Sorse poi, alla metà del ‘900, lo stabilimento conciario dei Fratelli Marrocco, che con le sue 10 vasche modernamente attrezzate era uno dei più importanti della Puglia.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Altra fiorente industria galatinese era quella della prima lavorazione dei tabacchi orientali (Xanta Yakà, Perustitza ed Erzegovina) e nelle sedici Concessioni speciali (dette comunemente “fabbriche”) nel solo 1938 furono lavorati 50mila quintali di prodotto, impiegando operaie (dette tabacchine) per un totale di 350mila giornate lavorative.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Infine nel 1956 entrò in funzione per iniziativa di Giovanni Fedele un cementificio che fu denominato appunto “Fedelcementi”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per quanto riguarda i servizi bisogna innanzitutto considerare che l’antichissimo Ospedale S. Caterina, continuamente ingrandito e potenziato, divenne uno dei più completi ed efficienti nosocomi del Salento e nel 1966 fu trasferito in una nuova e grandiosa sede.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Inoltre aumentarono gli istituti scolastici cittadini, in quanto all’antico glorioso Liceo-Ginnasio “P. Colonna” vennero aggiunti l’Istituto Tecnico Commerciale nel 1947-48 e nei decenni successivi gli Istituti professionali maschile e femminile, l’Istituto Magistrale e il Liceo Scientifico. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In citta c’erano già sia la Pretura che gli Uffici del Registro e delle Imposte dirette. </span></div>
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<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La rappresentanza galatinese in Parlamento nazionale e nel Consiglio provinciale non mancò mai nel XX secolo. Infatti, mentre nei primi due decenni l’ing. Antonio Vallone era stato deputato repubblicano nel Regno d’Italia in due legislature, il 2 giugno 1946 con la proclamazione della Repubblica entrarono a far parte dell’Assemblea Costituente Beniamino De Maria e Luigi Vallone di Antonio.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quindi Galatina ha dato alla Nazione due Padri Costituenti, onore questo che possono vantare solo pochissime città italiane.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Inoltre gli stessi De Maria e Vallone nelle elezioni del 18 aprile 1948 entrarono a far parte della Camera dei Deputati e in seguito Beniamino De Maria venne rieletto deputato per altre cinque legislature, mentre il notaio Mario Finizzi fu eletto senatore nel 1968.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’avv. Alberto Bardoscia fece più volte parte del Consiglio Provinciale, per il quale in tempi diversi e per una sola volta vennero eletti Biagio Chirenti e Donato Moro. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1949, quando era sindaco Luigi Vallone, venne istituita la cosiddetta “Mostra Mercato” che aveva luogo negli ultimi giorni del mese di giugno in concomitanza della festa patronale dei SS. Pietro e Paolo. Sede della stessa fu per alcuni anni l’edificio scolastico di piazza Fortunato Cesari, ma in seguito fu realizzato in via Ippolito De Maria il Quartiere Fieristico, che divenne sede di importanti eventi commerciali organizzati dal cosiddetto “Ente Fiera di Galatina e del Salento”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Qualche autore nel 1956, in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento della “Fedelcementi” affermò solennemente che era iniziata per Galatina l’era dell’Industria moderna. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma in effetti alla fine del ‘900, mentre si sviluppava l’industria del cemento si andavano riducendo o addirittura cessavano alcune attività e produzioni.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
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<span style="font-family: inherit;">Infatti:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>la patata sieglinde, non veniva più coltivata per l’esportazione a Galatina e dintorni, ma era prodotta in abbondanza nei Comuni di Alliste e Racale, i quali hanno poi addirittura ottenuto per la stessa la denominazione di origine protetta “patata di Galatina”; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>la produzione di uve si era da tempo ridotta al punto che erano stati definitivamente chiusi gli stabilimenti vinicoli vicini alla stazione ferroviaria, insieme alla distilleria della S.I.S., alla Cantina Sociale Cooperativa e alla S.A.L.P.A. , mentre i due moderni stabilimenti, “Valle dell’Asso” e “Santi Dimitri” vinificavano solo uve prodotte in vigneti degli stessi proprietari;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>da tempo erano anche cessate definitivamente sia la produzione che la prima lavorazione dei tabacchi orientali;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>attualmente in territorio galatinese si producono quasi esclusivamente angurie, cavoli, rape e cicorie, quindi non si può neppure dire che vi sia un “grande emporio ortofrutticolo”, come scriveva il Galateo nel ‘500. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Da decenni l’Ufficio del Registro e quello delle Imposte Dirette sono stati soppressi, ma non sono stati rimpiazzati da un ufficio dell’Agenzia delle Entrate, perciò i galatinesi devono recarsi a Lecce o a Maglie per il disbrigo delle pratiche fiscali.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Tribunale e l’Ufficio del Giudice di Pace, che a suo tempo avevano rimpiazzato la Pretura, sono stati soppressi per effetto del D. Lgs. 155/2012, quindi i galatinesi devono recarsi a Lecce per ogni problema o pratica di carattere giudiziario. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel quartiere fieristico Fiera Campionaria da molti anni non è più effettuata, mentre nel febbraio 2016 il Tribunale civile di Lecce ha dichiarato fallito l’Ente Fiera di Galatina e del Salento.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La Fondazione Agnelli, che dal 2008 si occupa delle scuole italiane col suo progetto “Eduscopio.it / confronto scelgo studio”, per 2016, riferendosi alle scuole secondarie superiori, da cui provengono gli studenti di Lecce e Provincia che conseguono i migliori risultati all’università, ha appurato che per nessun tipo di scuola Galatina è al primo posto. Infatti il Liceo Classico “P. Colonna” è il 2° di dieci, il Liceo Scientifico “A. Vallone” è il 5° di tredici, il Liceo Scienze Umane “P. Colonna” è il 2° di sette, il Liceo Linguistico “A. Vallone è il 5° di sei, l’Istituto Tecnico-economico “M. La Porta è l’8° di nove.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> L’Ospedale di Galatina, fondato nel 1401 da Raimondello Del Balzo Orsini, nel corso della sua plurisecolare esistenza ha avuto non pochi periodi di crisi, che però ha sempre superato, diventando nella seconda metà del ‘900 (come già accennato) il più importante del Salento. Invece attualmente lo stesso si trova in un irreversibile stato di crisi, in quanto la Regione Puglia lo ha declassato ad “ospedale di base”, collocandolo quindi al minimo livello previsto per i nosocomi regionali. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel recente riordino poi dei presidi di base, il Santa Caterina Novella, mentre ha ottenuto l’attivazione della lungodegenza e il raddoppio della geriatria, ha perduto del tutto l’area chirurgica. Quindi le sale operatorie che a suo tempo ospitarono per decenni il prof. Vincenzo Carrozzini, vero genio del bisturi, sono state chiuse per sempre.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il giornalista, che sul n. 20 / 9 dicembre 2016 del quindicinale “il galatino” ha dato la notizia dell’attuale stato del “Santa Caterina Novella”, ha aggiunto “Questo è il risultato riservato a chi, a livello regionale, conta nulla”, riferendosi chiaramente al fatto che la rappresentanza galatinese in seno ai pubblici consessi, già abbondantemente presente e qualificata nel secolo XX, è da tempo del tutto scomparsa. Peraltro nelle penultime elezioni per il Consiglio provinciale, il tentativo di eleggervi un galatinese è fallito miseramente per la velleità dei candidati che si presentarono in ventitré.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Attualmente c’è da preoccuparsi seriamente anche delle modalità di elezione degli amministratori comunali, in quanto le recenti dimissioni da sindaco Cosimo Montagna hanno provocato il terzo consecutivo scioglimento anticipato del Consiglio Comunale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> E’ evidente che bisogna eleggere persone capaci ed oneste, escludendo i portatori di interessi particolari e soprattutto coloro che in passato hanno procurato danni che tutti i cittadini pagheranno in un trentennio. </span></div>
<span style="font-family: inherit; line-height: 115%;"><br /></span>
<br />
<h2>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"><b>ORAZIO CONGEDO</b></span></span></h2>
<br />
<h3>
<span style="font-family: inherit;"><b style="font-family: inherit;">Grande benefattore galatinese</b></span></h3>
<span style="font-family: inherit; text-align: justify;">“Raro esempio di amore del prossimo” e “Padre amorevolissimo delle orfanelle”: sono questi gli appellativi indelebilmente incisi nel marmo, con i quali il 14 luglio 1886 la Congregazione di Carità di Galatina, che gestiva l’Ospedale e l’Orfanotrofio della Città, ha trasmesso ai posteri il ricordo di Orazio Congedo, nato a Galatina il 27 agosto 1793 da Giuseppe e Francesca Congedo.</span><br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli, dopo aver frequentato le Scuole Pie di Campi e completato gli studi secondari nel Collegio dei Gesuiti di Lecce, s’iscrisse all’Università di Napoli, dove si laureò poi in Giurisprudenza. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Giovanissimo, in qualità di avvocato, si dedicò gratuitamente all’assistenza legale dei contadini che trovavano difficoltà nell’affrancamento dei propri campi dai vincoli della feudalità, abolita dai re napoleonidi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, nel 1° quindicennio dell’800.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 12 luglio 1834, per espressa decisione del Governo Borbonico, i beni dell’ex Università degli studi di Castro, rappresentati dalle proprietà degli ex conventi di Andrano, Marittima e Poggiardo e dalla somma di ducati 2880,70 in Titoli di Debito Pubblico, furono consegnati alla Commissione Amministrativa delle Scuole di Galatina, costituita dal sindaco Diego Mongiò, dai deputati Giuseppe Papadia e Giacinto Leuzzi e da Orazio Congedo, in qualità d’invigilatore. E’ evidente che l’opera di quest’ultimo era essenziale nello svolgimento dei molteplici compiti di detta Commissione, che andavano dall’amministrazione del patrimonio all’impianto e gestione delle scuole, dal reperimento e l’assunzione dei docenti alla vigilanza sull’andamento didattico–disciplinare delle scolaresche. Purtroppo, nonostante il generoso impegno del Nostro, il funzionamento delle scuole, iniziato nel 1836, per circa 18 anni andò avanti stentatamente per mancanza di metodo, di cura e di continuità didattica, dovuta alla irreperibilità di buoni maestri . </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per questo le Autorità municipali, verosimilmente sollecitate dall’invigilatore Orazio Congedo, presto si convinsero dell’opportunità di affidare la direzione e l’insegnamento delle scuole a Religiosi dediti all’istruzione e all’educazione della gioventù.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le trattative con i Padri delle Scuole Pie, presso i quali, come già detto, il Nostro aveva compiuto i suoi primi studi, furono già intavolate nel 1839, ma non ebbero seguito, perché il Municipio, mentre da un lato aveva per le scuole le necessarie risorse finanziarie, dall’altro non disponeva di un edificio con annessa chiesa aperta al pubblico, come richiesto dagli Scolopi. Solo nel 1850 ci fu finalmente la possibilità di disporre di un siffatto stabile, perciò nell’ottobre del 1853, previo regio assenso del 26 agosto dello stesso anno, furono aperte al pubblico le Scuole Pie a Galatina.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il carattere generoso e mite e la solida preparazione culturale, maturata sia con lo studio del diritto che con quello di lettere e filosofia, portavano Orazio Congedo a dire ai giovani studenti: </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">“… A nulla approda ammaestrar l’intelletto, lasciando da parte il cuore; anzi l’educazione del cuore e l’istruzione, specchiando in sé l’unità indivisibile dello spirito, ove procedano discongiunte, offendono qualunque manifestazione dello spirito in ordine al pensiero e all’opera”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Negli anni quaranta dell’800 il Nostro aderì alla “Carboneria”, partecipando alla fondazione della “vendita carbonara dei Bruti”, ma presto se ne distaccò, non intendendo compromettere con la cospirazione politica i propri amici. Si dedicò, quindi, a tempo pieno alle opere di carità, sull’esempio dell’amato fratello Gaetano, insieme al quale fece dono agli abitanti della borgata di Noha dell’orologio pubblico di piazza S. Michele e della cosiddetta “trozza”, pozzo artesiano profondo circa 90 metri, dotato di un grandioso puteale in pietra leccese: su un lato di questo campeggia lo stemma della famiglia Congedo, mentre sul lato opposto è incisa l’iscrizione “HAURIAR NON EXAURIAR” (disseto, non mi esaurisco), a significare che i donatori avevano inteso alleviare la scarsezza di acqua nell’abitato della borgata, situato in zona rocciosa e quindi privo di pozzi alimentati dalla falda acquifera superficiale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il governo del neonato Regno d’Italia, nell’intento di organizzare con criteri unitari la pubblica assistenza e beneficenza, emanò il 3 agosto 1862 la “legge sull’amministrazione delle Opere Pie”, che istituiva in ogni Comune la Congregazione di Carità (C.d.C.). Scopo di questa era l’amministrazione dei beni destinati a favore dei poveri e la distribuzione dei soccorsi. Essa, quindi a Galatina era preposta alla gestione dell’Ospedale, dell’Orfanotrofio e dell’erigendo Monte dei Pegni, per il quale Gaetano Congedo nel 1859 aveva disposto un lascito di 1.000 ducati. La C. d. C. fu operativa dal 1° gennaio 1863 sotto la presidenza di Orazio Congedo, la cui elezione fu accolta con grande soddisfazione dai galatinesi, che di lui apprezzavano il carattere mite, la religiosità, la solida formazione culturale e soprattutto la totale disponibilità a pubbliche e private elargizioni a beneficio dei bisognosi. A tal proposito Egli, a quanti gli proponevano di aumentare e migliorare il proprio patrimonio, era solito rispondere: “…ma non sapete che le mie rendite sono dei poveri e che non ho il diritto di spenderle per me?”</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Orazio Congedo come pubblico amministratore operò con grande saggezza, avendo cura di evitare tutte le occasioni che avrebbero potuto creare pericolose controversie. Contrario ad ogni forma di spreco, fu molto impegnato a migliorare le risorse delle Opere Pie, a cui era preposto. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli, molto attento nel ridurre i disagi della permanenza degli infermi nell’ospedale e delle orfanelle nell’istituto “Madonna della Purità”, già nei primi tempi di presidenza fece adottare provvedimenti significativi, anche se apparentemente di poco conto, come per esempio:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’aggiunta del suono dei quarti d’ora all’orologio interno del nosocomio;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’installazione “ne’cessi de’saloni degl’infermi di vasi inodori e di doccioni”;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’acquisto di una bagnarola in rame e della stufa per riscaldarne l’acqua, necessarie per l’igiene e la cura e degli ammalati;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’acquisto di una portantina per il trasporto degli infermi;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’edificazione accanto al pozzo dell’Orfanotrofio di un locale idoneo sia per installarvi le “pile”, in cui lavare i panni, sia per costruirvi un “novello focolare” al fine di rendere meno penose le operazioni del bucato.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Più volte confermato nell’incarico di presidente della C. d. C., il Nostro fece approvare per l’Orfanotrofio lo “statuto organico”, che rispetto ai precedenti regolamenti conteneva:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il riferimento alla donazione fatta da lui stesso affinché fosse aumentato di tre unità il numero delle orfane ospitate;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il riconoscimento ad ogni orfana del diritto a due terzi (e non come prima ad un solo terzo) del frutto del lavoro effettuato dalla stessa dopo il compimento del 15° anno di età, al fine di potersi formare una dote di lire ottantacinque per quando sarebbe passata a marito;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il dichiarato dovere degli amministratori a salvaguardare “il danaro del povero”.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli promosse anche per l’Ospedale, per il quale non esisteva un documento che ne regolasse dettagliatamente il funzionamento, l’approvazione dello “statuto organico”, determinando con questo anche il superamento del carattere promiscuo dell’Istituto. Infatti, mentre in passato avevano sempre goduto dell’hospitalitas sia gli anziani indigenti che gl’infermi bisognosi di cure, invece l’art.2 dello “statuto organico” disponeva testualmente che il nosocomio aveva lo scopo:“1° di accogliere e curare gli infermi poveri;2° Di somministrare gratuitamente medicinali agli altri ammalati poveri del Comune; 3° Di sussidiarli ancora con razioni di vitto a domicilio quando il bisogno richiede.”</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’ex casa Scalfo, sede dell’Orfanotrofio, a parte due saloni, aggiunti a partire dal 1863 per iniziativa della Superiora delle Figlie della Carità, era rimasta pressoché inalterata per oltre 75 anni. Ma dopo il 1873, sempre su proposta di Orazio Congedo, andò assumendo sia nelle dimensioni che nell’aspetto la grandiosità architettonica che tuttora è possibile constatare.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’ampliamento, progettato dall’arch. Fedele Sambati, fu dato in appalto per le opere murarie al costruttore Marino Mangia, al quale furono poi corrisposte in totale lire 10.381. Questa e le altre somme, necessarie al completamento dell’opera, erano state ricavate esclusivamente dalla vendita del prodotto degli oliveti di proprietà dell’Istituto, sebbene nella seconda metà del XIX secolo, a causa della crisi degli affitti, frequentemente venivano alienati non pochi poderi. Ma il ricavato di tali vendite veniva investito dalla C. d. C. in Rendita Pubblica, poiché il presidente Congedo sosteneva con fermezza che il relativo importo faceva parte del patrimonio dell’Istituto, i cui frutti erano destinati al sostentamento delle orfane. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’art.6 dello Statuto dell’Ospedale prevedeva fra l’altro che non potevano esservi ricoverati ammalati cronici. Tuttavia da tempo le Figlie della Carità avevano ricoverato e sostenuto con proprie economie cinque di tali infermi. Questo comportamento esemplare delle Suore indusse Orazio Congedo a programmare la donazione al Nosocomio di una rendita annua di lire 1.000, che egli possedeva nel Gran Libro del Debito Pubblico, affinché si provvedesse in perpetuo alla cura di cinque ammalati cronici. Secondo il Codice Civile per tale elargizione era necessario un atto notarile del donante, da farsi però dopo l’accettazione del donatario (cioè dell’ ospedale), anche questa fatta con atto pubblico.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In occasione della riunione della C. d. C. del 13 giugno 1880 il Nostro informò i convenuti del proprio proposito, ottenendone unanimi complimenti e sinceri ringraziamenti. La notizia fu regolarmente verbalizzata, ma ciò non significava che fosse già avvenuta la donazione, per la quale erano necessari i due sopraccitati atti pubblici. Ma non fu dello stesso parere un Ispettore del Registro, il quale, letto il verbale, ingiunse all’Ospedale il pagamento della tassa di registro, della doppia tassa per mancata denunzia della donazione, nonché della penalità per mora.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’assurda presa di posizione dell’Ispettore provocò un’interminabile vertenza, nella quale a vario titolo furono coinvolti l’Intendente di Finanza della Provincia, il Ministro Guardasigilli, il Ministro delle Finanze e anche la Deputazione Provinciale di Terra d’Otranto.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Con l’intervento del Guardasigilli la donazione in questione fu regolarmente stipulata il 22 giugno 1882, ma la controversia con gli Uffici Finanziari per la cancellazione delle penalità durò quasi fino alla fine del 1883.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Però successivamente la stessa donazione non fu immediatamente utile agli ammalati cronici, perché si rese necessaria la modifica dell’art. 6 dello Statuto, il cui 3°comma vietava il ricovero nell’Ospedale degli affetti di malattie croniche o contagiose o da sifilide. Per ovviare a questo inconveniente il Comune doveva ottenere dall’ Autorità Tutoria detta modifica. Purtroppo, dopo uno scambio epistolare tra la Prefettura e il Comune e tra quest’ultimo e la C.d. C., durato fino a tutto il 1884, ciò non avvenne. In seguito per oltre tre anni e mezzo nulla fu fatto, mentre in successione ben 4 assessori fungevano da sindaco. Il 14 luglio 1888 Raffaele Papadia, sindaco in carica dal gennaio 1886, tornò sull’argomento, ma soltanto dopo un ulteriore scambio epistolare durato altri nove mesi, con delibera approvata il 31 maggio 1889 dal Consiglio Comunale (quando era sindaco Pasquale Micheli), e poi confermata dalla Giunta Provinciale Amministrativa, si pervenne alla seguente modifica statutaria: “Nell’Ospedale saranno soltanto ammessi gli infermi di malattie acute e non contagiose, né sifilitiche. Non di meno si terranno in perpetuo e senza interruzione cinque poveri affetti da malattie croniche ai sensi della donazione del fu Orazio Congedo, rogata dal notaio Pietro Garrisi il 22 giugno 1882.”</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Trascorsero dunque ben nove anni prima che le risorse della donazione Congedo fossero utilizzate a favore dei poveri ammalati cronici. Purtroppo ciò avvenne quando il generoso Donatore era morto da circa tre anni, il 13 luglio 1886, dopo aver trascorso i suoi ultimi sei anni di vita nell’amarezza, provocatagli dalla gretta incomprensione di pubblici funzionari, dalle lungaggini della burocrazia e dalle omissioni degli amministratori comunali, che in successione avevano ostacolato la solidarietà verso gl’indigenti, che era stata l’habitus della sua lunga vita. Orazio Congedo fu rimpianto da tutti i galatinesi e onorato con lapide nel vecchio Ospedale e nell’Orfanotrofio e con l’intitolazione della strada che, partendo dall’angolo nord-est di piazza S. Pietro, s’inoltra verso est nel centro storico. Al n.29 di questa c’è il grande palazzo (gravemente manomesso e lottizzato), nel quale il Nostro nacque e visse per 93 anni.</span></div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<br />
<h2>
<span style="font-family: inherit; line-height: 18.4px;"><b>GIUSTINIANO GORGONI</b></span></h2>
<br />
<h3>
<span style="font-family: inherit;"><b>Il gentiluomo che salvò il Ginnasio – Convitto di Galatina</b></span></h3>
<span style="font-family: inherit; text-align: justify;">Michele Montinari, intorno al 1895, da alunno di prima elementare, conobbe “…un vecchietto vestito di nero, con un soprabito pure nero e il bastone dal pomo dorato…” e “…dal conversare lento e dimesso… ”, il quale spesso ispezionava la scuola.</span><br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli comprese poi che quel distinto gentiluomo era il Sopraintendente all’istruzione di Galatina, cioè l’avvocato Giustiniano Gorgoni. Questi, nato a Galatina il 24 agosto 1825 dall’avvocato Filippo Gorgoni e da Rosina Calò, apparteneva ad un’illustre famiglia, che fra gli altri aveva espresso un prelato Agostino Tommaso Gorgoni (1712 – 1790), vescovo di Castro, e un sindaco, Francesco Gorgoni (fratello dell’avv. Filippo), primo cittadino di Galatina dal 1827 al 1830.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Non si sa se Giustiniano Gorgoni abbia esercitato l’avvocatura, tuttavia egli si autodefinisce ‘avvocato’ nel frontespizio della propria opera principale, il “Vocabolario agronomico…”, e come ‘avvocato’ o ‘legale’ è inserito negli elenchi dei componenti il Consiglio Comunale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma non mancano autori che in maniera impropria lo hanno considerato ‘agronomo’.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli partecipò attivamente alla redazione del quindicinale RIFORMA, legato al movimento risorgimentale e pubblicato a Lecce dal gennaio 1862 all’aprile 1863.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 27 maggio 1861, nella prima consultazione per l’elezione del Consiglio Provinciale Giustiniano Gorgoni riportò 92 voti su 210 votanti, ma fu eletto Nicola Bardoscia che aveva ottenuto 112 voti. Questa sconfitta non lo scoraggiò e, ricandidatosi più volte, nella tornata del 21 luglio 1881 divenne finalmente consigliere provinciale con 214 voti, insieme all’altro candidato, Antonio Carrozzini che aveva riportato 170 voti.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto con il rinnovo del Consiglio Comunale (C. C.), avvenuto il 3 marzo 1876, egli vi era stato eletto e il successivo 22 settembre 1877 venne nominato Assessore. In questa carica fu poi riconfermato a partire dal 9 ottobre 1878, ottenendo la delega alla Pubblica Istruzione. Proprio in questo periodo Giustiniano Gorgoni entrò nella storia del Ginnasio Convitto “P. Colonna”.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’Amministrazione Comunale di Galatina, che, dopo l’uscita di scena degli Scolopi era la sola responsabile della gestione di detto Istituto, non riusciva a contenerne la inarrestabile decadenza, iniziata dopo la morte del direttore-rettore Sebastiano Serrao (1870), ex scolopio. In particolare il Convitto, chiuso per l’a. s. 1876-77, non venne riaperto nel successivo a. s. 1877- 78, mentre gli iscritti alle cinque classi del Ginnasio, che complessivamente erano 25 nel 1877-78, scesero addirittura a 22 nel 1879-80.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Questo stato di cose era fra l’altro determinato dalla mancanza di continuità didattica nell’insegnamento, dovuta alla grande difficoltà a trovare docenti “patentati” ed al mancato pareggiamento dell’Istituto, per cui gli alunni dovevano sostenere annualmente presso un istituto governativo gli esami per il passaggio alla classe successiva. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nella seduta del C.C. che ebbe luogo l’11 aprile 1878 andò in discussione la riapertura del Convitto e Giustiniano Gorgoni in un appassionato intervento ne sostenne la necessità, enumerando i vantaggi che si sarebbero ottenuti e concluse dichiarando: “…il Ginnasio non potrà aver vita e fiorire se non apre il venturo anno scolastico unitamente al Convitto”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli in altra occasione espresse lo stesso concetto dicendo: “… il Ginnasio non può sussistere senza il Convitto …(che) è come il piantonaio (ovvero il vivaio – N.d.A.) in cui l’agricoltore alleva gli alberetti che poi traspone nei suoi campi…” </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma per riaprire il Convitto era indispensabile un cospicuo contributo del Comune, disapprovato dalla Deputazione Provinciale, la quale peraltro riteneva che il Convitto fosse un privilegio riservato alle famiglie agiate.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I rilievi dell’organo di controllo alle spese comunali furono discussi in C.C. il 19 marzo 1879 e Giustiniano Gorgoni, partendo dal principio che “…l’istruzione ginnasiale o deve apprestarsi completa o è meglio si sopprima affatto…”, propose l’alienazione dei beni posseduti dal Ginnasio in Paesi del Capo di Leuca, motivandola nel modo seguente: mentre “…la rendita delle proprietà stabili nel giro di un decennio si (era) per ogni dove pressoché raddoppiata…”, invece era rimasta stazionaria fra le sette e le ottomila lire, “…quella che si (ritraeva) dal patrimonio delle Scuole…”, poiché questo era prevalentemente costituito da beni che, non potendo essere bene amministrati perché lontani da Galatina, erano soggetti al degrado o addirittura improduttivi. Dalla loro vendita all’asta si poteva invece ricavare una somma che, investita in Rendita Pubblica, avrebbe potuto dare un utile netto di circa sedicimila lire, la quale avrebbe consentito alle Scuole di reggersi con i mezzi propri, senza aver bisogno di sussidi del Comune.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nella seduta del successivo 3 aprile 1879 la suddetta proposta fu approvata a larga maggioranza e fu anche discusso ed accolto l’o.d.g., presentato dal medesimo Giustiniano Gorgoni, che dava facoltà al Sindaco e alla Giunta d’iniziare presso le Autorità Scolastiche le pratiche necessarie per il pareggio del Ginnasio di Galatina alle Scuole Governative. Nella presentazione dello stesso o.d.g. il Nostro aveva fra l’altro sostenuto che detto pareggio:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>fosse “… un beneficio che lo Stato (accordava) al Comune, il quale senza rinunziare alla pienezza dei suoi diritti, metteva le Scuole sotto la protezione del Governo”, assicurando così “… al Ginnasio una vita più serena e più lunga, sottraendolo alle oscillazioni, alle quali potrebbe trascinarlo il variare delle amministrazioni locali…”; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>avrebbe permesso di contare sull’aiuto delle Autorità scolastiche per la ricerca di professori, per la composizione di controversie ecc.;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>avrebbe richiamato un maggior numero di alunni sia mediante “…il commodo di subire gli esami presso le scuola ove si studia” sia col diritto di ottenere sussidi distribuiti dallo Stato ad incremento dell’Istruzione.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 14 maggio 1882, il dare a censo (censuazione) zone del giardino del Ginnasio per la costruzione di abitazioni private, che secondo il sindaco Giacomo Viva avrebbe fruttato almeno 1200 lire, laddove l’affitto rendeva appena 300, non incontrò il favore del Consiglio, il quale approvò invece l’alienazione degli stessi suoli edificatori, proposta da Giustiniano Gorgoni. Questi sosteneva che la censuazione avrebbe creato difficoltà non solo a causa della riscossione periodica dei canoni, ma soprattutto perché un eventuale mancato rinnovo periodico di titoli, dovuto a trascuratezza, avrebbe comportato la perdita degli stessi; invece, optando per la vendita ed investendo il ricavato in Rendita Pubblica, si sarebbe ottenuto tranquillamente e senza rischi un reddito pari a quello della censuazione.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per effetto dei sopra esposti provvedimenti, consigliati dal Nostro, ed approvati sia dal C.C. che dalla Deputazione Provinciale, le Scuole di Galatina non ebbero più problemi economici ed ottennero il pareggiamento alle Scuole governative con il D.M. 21 gennaio 1881. Inoltre sotto la guida del direttore-rettore Sac. Carlo Tarentini, assunto nel dicembre 1883 su segnalazione del Provveditore agli Studi Rebecchini, mentre nel 1883-84 si erano già avuti 55 alunni di ginnasio, di cui 16 in convitto, nel 1889-90 si ebbero 108 studenti, di cui 38 convittori. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nell’Amministrazione Municipale Giustiniano Gorgoni oltre ad avere la delega per la Pubblica Istruzione era anche Assessore al Bilancio e come tale fu molto impegnato a riequilibrare la disastrosa situazione delle finanze comunali. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per esempio, al fine di avere approvato dalla Deputazione Provinciale il bilancio di previsione per l’esercizio 1879, riuscì a far accettare al C. C. la diminuzione delle spese per l’illuminazione pubblica, la riduzione degli stipendi agli impiegati comunali, il ridimensionamento dell’assistenza pubblica e l’aumento dell’addizionale sui tributi diretti di focatico, bestiame, esercizi e rivendite. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nella tornata dell’8 ottobre 1881 egli propose al C.C. una riforma ‘rivoluzionaria’ del sistema tributario comunale, consistente nell’introduzione a partire dal 1882 della “tassa unica di famiglia” in sostituzione delle tante imposte in vigore, rimanendo inalterata la previsione d’entrata. Tale proposta venne approvata prima dal Consiglio e poi dalla Deputazione Provinciale, la quale stabilì per detta tassa un minimo di £ 3 ed un massimo di £ 300.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Giustiniano Gorgoni prendeva anche parte attiva alla vita politica ed amministrativa di Cutrofiano, nel cui territorio aveva numerose proprietà. In particolare egli sostenne l’iniziativa popolare tendente ad onorare con una lapide la memoria di ‘Vincenzo Colì’, morto a Dogali il 26 gennaio 1887. Infatti scrisse l’epigrafe da incidere sul marmo e tenne un discorso il 30 ottobre 1887 in occasione della cerimonia commemorativa, rivelandosi molto critico nel confronti della politica coloniale del Governo Crispi. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">E’ del 1858 la pubblicazione del suo opuscolo “L’Oidium Tuckeri e lo zolfo ossia le malattie della vigna ed i mezzi per combatterle”, con il quale intendeva combattere pregiudizi e diffidenze e far accettare ai viticoltori un moderno sistema di prevenzione e cura di malattie della vite.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1896 dalla Tipografia Editrice Salentina F.lli Spacciante di Lecce venne pubblicata la maggiore opera di Giustiniano Gorgoni, il cui titolo completo è: “Vocabolario agronomico con la scelta di voci di arti e mestieri attinenti all’agricoltura e col raffronto delle parole e dei modi di dire del dialetto della provincia di Lecce”. E’ evidente che non si tratta di un libro di ‘scienza agraria’. Con esso il Nostro intese offrire a tutti coloro che devono espletare pratiche agricole e ai giovani i significati esatti delle parole nel loro uso corrente nel mondo contadino, in modo da poter parlare e scrivere conoscendo il significato delle parole, l’uso degli attrezzi e di quant’altro attiene all’agricoltura. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 17 luglio 1897 il nuovo C.C. con 25 voti su 25 votanti elesse: sindaco il dott. Mario Micheli, assessori effettivi Antonio Vallone, Giustiniano Gorgoni, Raffaele Torricelli, Lucrezio Luigi e assessori supplenti Alessandro Bardoscia e Ruggero Consenti.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Nostro all’età di 72 anni tornò dunque in Consiglio ed anche in Giunta, ma con delega diversa da quelle avute in precedenza. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Giustiniano Gorgoni morì il 10 marzo 1902 e il sindaco Micheli nel dargli l’ultimo addio ricordò fra l’altro che: </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>“Tra i suoi ideali tenne il primo posto la diffusione della cultura fra la gioventù che Egli si sforzò di rendere studiosa, sia che con l’esempio di abnegazione rarissima gratuitamente insegnasse lingua e letteratura francese nel nostro Istituto, sia che si dedicasse alla pubblicazione del suo pregiato dizionario inteso a diffondere la lingua fra le classi agricole! ”;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>“La sua aspirazione più viva fu il benessere materiale e civile della sua patria, e a tale scopo nelle pubbliche amministrazioni di cui fece parte, la sua voce indicò sempre quale era la via da tenere! ”.</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lo stesso Sindaco concluse dicendo: “Oh amico! Per volgere di tempo non si cancellerà giammai dal nostro pensiero la tua figura virtuosa e gentile, e tu col tuo spirito eletto sarai sempre fra noi ad ispirarci, coll’esempio della tua vita, il forte amore pel miglioramento della patria nostra! ”.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<h2>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"><b>VITO VALLONE</b></span></span></h2>
<h3>
<span style="font-family: inherit;"><b style="font-family: inherit;">Illustre medico nonché solerte e fattivo amministratore</b></span></h3>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Il 15 gennaio 1863, il dott. Filippo Mandorino, che all’epoca era l’unico medico dell’Ospedale di Galatina, rinunziò al servizio di chirurgia, conservando soltanto quello di medicina. Perciò la neo-eletta Congregazione di Carità, presieduta da Orazio Congedo e preposta alla gestione del Nosocomio, assunse per detto servizio il dott. Luigi Santoro, che “godeva della reputazione di chirurgo”. Questi prestò servizio per circa 25 anni, infatti si dimise quasi alle fine del 1887.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La stessa Congregazione il 22 dicembre 1887 conferì l’incarico di chirurgo al dott. Vito Vallone, figlio di Giuseppe e Angela Siciliani, nato a Galatina il 9 gennaio 1856, il quale, dopo essersi laureato in medicina e chirurgia nell’Università Napoli, aveva molto viaggiato, partecipando anche all’estero a congressi e corsi di perfezionamento di medicina e soprattutto di chirurgia.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli poi, rinunciando ad importanti offerte di lavoro, accettò di essere medico condotto nella propria Città e per ben 42 anni con costanza inaudita fu al servizio degli ammalati, specialmente dei più poveri. Assunto come chirurgo nell’Ospedale cittadino, vi prestò la propria opera per ben 27 anni con passione e competenze notevoli, distinguendosi particolarmente nel trattamento chirurgico delle ernie, che all’epoca era una novità. Pertanto, ci fu nel Nosocomio un notevole afflusso di pazienti paganti che per l’85% erano di sesso maschile e spesso provenivano da paesi lontani. Così l’Istituto galatinese, che disponeva solo di risorse patrimoniali e per effetto del regolamento de1 1869 era finalizzato a curare ed assistere gratuitamente infermi poveri, a partire dal 1° gennaio 1888 con l’accoglienza e la cura di infermi abbienti, che pagavano sia l’intevento chirurgico che la degenza, cominciò ad avere nuove entrate utili al suo funzionamento. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Vito Vallone rinunziò all’incarico di chirurgo ospedaliero nel 1914, ma non fu facile sostituirlo. Infatti il Presidente pro tempore della Congregazione di Carità il 13 gennaio 1916, in una lettera indirizzata al R. Prefetto di Lecce, faceva presente di non essere ancora riuscito a trovare un dottore specializzato in chirurgia, “… data la tenuità dello stipendio, stabilito dalla pianta organica in lire 250, e di conseguenza era stato costretto a dare incarico al Direttore dell’Ospedale perché in ogni caso di operazioni difficili di ernia invitasse il dott. Vito Vallone, “chirurgo onorario dell’Ospedale”, che era disposto a prestare gratuitamente la propria opera.”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’attività amministrativa di Vito Vallone ebbe inizio dopo le elezioni per il rinnovo del Consiglio Comunale, che ebbero luogo il 22 luglio 1895 e furono vinte dalla lista di cui faceva parte l’ing. Antonio Vallone, fratello del Nostro. La nuova Amministrazione, presieduta dal sindaco dott. Mario Micheli, intraprese con sollecitudine iniziative tendenti a completare il totale riordino del Ginnasio-Convitto, istituto del quale gli amministratori precedenti avevano già avviato la trasformazione in Opera Pia di Pubblica Assistenza e Beneficenza.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Già nel corso del 1895 fu rinnovata la Commissione di Vigilanza del Convitto, istituita nel 1881 per collaborare col Rettore per il buon andamento dell’istituzione. A far parte di essa furono eletti: Vito Vallone, Alessandro Bardoscia fu Giovanni, Luigi Palma e Nicola Calò.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 2 maggio 1896 fu avanzata dal Comune al Governo formale richiesta per ottenere che il Ginnasio - Convitto fosse riconosciuto Opera Pia. Richiesta questa che trovò pieno accoglimento con l’emanazione da parte del Re Umberto I del Decreto 3 marzo 1898. Lo stesso sovrano con Decreto 27 aprile 1899 approvò il relativo Statuto Organico, il cui art. 5 al 1° comma stabiliva testualmente: “Il Ginnasio è amministrato da una Commissione composta di un presidente e quattro membri eletti dal Consiglio Comunale nella sessione d’autunno.”</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Detta Commissione fu quindi eletta con delibera consiliare n.50 / 7agosto 1899 nelle persone di: Vallone dott. Vito (presidente), Bardoscia Alessandro fu Giovanni, Palma dott. Luigi, Galluccio avv. Emilio e De Paolis dott. Antonio (membri).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Essa iniziò la propria attività il successivo 20 settembre, potendo contare su una favorevole situazione economica, poiché l’esercizio finanziario1898 dell’Istituto si era concluso con un attivo di lire 11194,20. Situazione questa alla quale avevano senza dubbio contribuito Vallone, Bardoscia e Palma, che dal 1896 al 1899 erano stati preposti, come già detto, alla Vigilanza del Convitto soprattutto per evitare gli sprechi.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Fra i provvedimenti della Commissione Amministrativa (C. A.) dell’Opera Pia Istituto ‘Pietro Colonna’ (in forma ridotta: Pio Istituto ‘P. Colonna’), sotto la guida di Vito Vallone (confermato alla presidenza dopo un quadriennio) val la pena ricordare i seguenti:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>la nomina a vice-censore del Convitto conferita a Ippolito De Maria il 27settembre 1899;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’aver risolto in circa cinque anni, a partire dal 1900, l’annoso problema di riordinare l’esazione di canoni e censi da tantissimi debitori sparsi in vari Comuni del Capo di Leuca, la quale per vari motivi dal 1834 era stata sempre un vero tormentone per gli amministratori del patrimonio dell’ex Università di Castro, assegnato nel 1834 alle Scuole di Galatina;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il rinnovo per un sessennio al sacerdote Rocco Catterina di Molina (Trento) della nomina a direttore-rettore del Ginnasio Convitto (4 agosto 1900);</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’assunzione il 17 ottobre 1901 come segretario della C.A. di Donato Nicolaci che, avendo assicurato notevole efficienza ai servizi del Convitto, dopo 5 anni fu confermato a vita;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’aver risolto nell’arco di tempo compreso tra il 15 settembre 1801 e l’8 febbraio 1904 il problema delle prestazioni perpetue dell’Istituto a favore dei parroci di Andrano, Cerfignano, Cocumola, Depressa, Diso, Marittima, Spongano e Vitigliano, ai quali dal 1834 dovevano essere corrisposti annualmente supplementi di congrua, per un importo complessivo di lire 1.593,75; la soluzione trovata consisteva nell’aver chiesto e ottenuto dall’Intendenza di Finanza, che con apposito decreto del Procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Trani, si potesse assegnare ad ognuno dei suddetti un certificato di Rendita Pubblica al 5% acquistato nel 1894, i cui interessi annui fossero pari al supplemento di congrua;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’approvazione con delibera n. 15/24 aprile 1902 di un nuovo Programma e Regolamento per il Convitto, in 46 articoli, che rappresentava il definitivo superamento degli almeno tre analoghi documenti precedenti, e prevedeva interessanti premi per i convittori meritevoli e una vasta gamma di sanzioni che era possibile infliggere a quelli indisciplinati;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span> la sostituzione tra il 1903 e il 1904 degli antiquati lumi a petrolio del Convitto con apparecchiature atte ad assicurare l’illuminazione ad acetilene;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>nel 1906 il giardino dell’Istituto, incolto da anni e utilizzato per la ricreazione e l’educazione fisica dei convittori, fu ceduto al floricoltore Paolino Ciotola, affinché lo sistemasse, tracciando e inghiaiando viali, piantando alberi ed anche coltivando fiori per sua speculazione privata;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>sempre nel 1906 fu acquistato da Felice Maggi lo stabile da lui costruito in una zona del giardino, che correva il rischio di essere venduto all’asta, perché non era stato pagato il relativo suolo edificatorio; l’acquisto a trattativa privata da parte della C.A. ebbe luogo per l’insistenza del presidente Vallone, secondo il quale la vendita all’incanto dello stesso ad un conciatore dei pelli sarebbe stata la rovina del Convitto, a causa delle pestifere esalazioni. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Proprio a Vito Vallone, va ascritto il grande merito di aver sistemato ed aperto al pubblico la Biblioteca Comunale che, essendo all’epoca annessa al Ginnasio-Convitto, era in un certo senso considerata parte integrante del Pio Istituto “P. Colonna”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Detta Biblioteca, sebbene fosse stata già intitolata nel 1885 al filosofo-pedagogista Pietro Siciliani in occasione della sua morte, non era ancora fruibile da parte degli studiosi, perché la maggior parte dei suoi 7.000 volumi non erano stati ancora adeguatamente ordinati e catalogati. Un primo ordine era stato curato dal 1899 e il 1900 da Umberto Congedo, docente di lettere. Il 27 dicembre 1901 fu affidato l’incarico a catalogare libri al sopraccitato segretario Donato Nicolaci, il quale con molta cura e diligenza registrò 5.000 opere. Pertanto il Nostro il 21 luglio 1904 informò il Sindaco che Giacinto Bardoscia era stato incaricato a dirigere a titolo onorifico la Biblioteca, la quale era ormai pronta per essere aperta al pubblico.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’inaugurazione della stessa ebbe luogo con una certa solennità il 5 febbraio 1905. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’interessamento del presidente Vallone per la “Siciliani” ebbe un seguito il 16 maggio 1905 con l’inoltro al Ministero della P.I. di una richiesta tendente ad ottenere per la stessa l’autorizzazione ad avere libri in prestito dalle Biblioteche Nazionali. Ed entro due mesi si ottenne per un triennio tale prestito da tutte le Biblioteche Governative, tramite quella di Napoli.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1° regolamento della Biblioteca Comunale di Galatina, che è tuttora in vigore, ben 3 articoli su 14 trattano del prestito dei libri agli utenti. Vito Vallone, che firmò il documento, dava infatti molta importanza a tale prestito, che consentiva la lettura di un testo in tutte le ore del giorno, contribuendo efficacemente alla formazione dei giovani ed in particolare dei convittori.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La monografia “P.Congedo – La biblioteca ‘Pietro Siciliani’ di Galatina” è stata dedicata dall’autore alla memoria di Vito Vallone e Beniamino De Maria, in considerazione che essi sono stati i soli amministratori pubblici che si siano veramente interessati di detta istituzione. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le ultime deliberazioni della C.A., firmate dal Nostro, sono datate 30 giugno 1907. Dopo questa data il Liceo-Ginnasio e il Convitto “P. Colonna” avrebbero potuto guardare al futuro con ottimismo: tutto avrebbe potuto procedere come prima e meglio di prima, anche perché con R.D.30 settembre 1907 ebbe luogo la tanto attesa regificazione dell’Istituto scolastico.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Invece nell’arco di tre anni il numero degli studenti scese da 270 a 173 e quello dei convittori da 84 a 43. Questo perché due avversari politici del deputato repubblicano ing. Antonio Vallone cercavano con ogni mezzo di fiaccare la resistenza morale del di lui fratello Vito, che era considerato il suo migliore sostenitore. Infatti i consiglieri comunali di minoranza Bardoscia Domenico e Congedo Giuseppe nella seduta C.C. del 13 giugno 1908 accusarono in modo generico il dott. Vito Vallone di abusi finanziario-contabili, compiuti durante la gestione del Pio Istituto “P. Colonna”. Gli stessi successivamente dalle pagine del periodico Vita Nuova (nn. 1,3,4 e 6), stampato dalla tipografia Mariano, precisarono meglio le loro accuse, arrivando a qualificare lo stesso “barattiere del denaro altrui, capace di tenere in cas…sa (sic!) dal 1903 al 1906 lire 89.811,17” per poter finanziare il fratello Antonio nel corso delle elezioni politiche del 1904. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Pretore del Mandamento di Galatina, in seguito a querela dell’interessato con istanza di punizione per diffamazione ed ingiuria continuate a mezzo stampa, condannò in data 23 ottobre 1909: Bardoscia Domenico a 11 mesi e 20 giorni di reclusione e a lire 971,00 di multa; Congedo Giuseppe e il tipografo Salvatore Mariano a 11 mesi e 20 giorni di reclusione e a lire 1262 ciascuno. Inoltre il magistrato impose ai tre imputati sia il pagamento delle spese processuali e il risarcimento dei danni alla parte civile, sia la pubblicazione per una volta della sentenza sui giornali La Provincia di Lecce e Il Corriere Meridionale. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto era ancora in corso un’inchiesta amministrativa contro Vito Vallone e gli altri amministratori del Pio Istituto “P. Colonna”, usciti di scena nel 1907, accusati da un ispettore prefettizio di averne causato la perdita di circa lire 2000 a causa del mancato deposito su libretto di risparmio postale dei fondi a disposizione del Convitto per brevi periodi.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Soltanto dopo anni, e precisamente il 26 aprile 1911, ci fu il pieno proscioglimento dei suddetti da parte della Commissione Provinciale di Beneficenza. Questo significava, secondo il Nostro, che si era trattato di “… un’inchiesta politica…svoltasi sotto l’incubo delle elezioni politiche imminenti, avendo di mira non solo il combattere il deputato locale, ma la distruzione di tutto ciò che era emanazione della sua azione amministrativa”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Vito Vallone fu ininterrottamente sindaco di Galatina dal 1914 al 1923, assolvendo l’incarico con notevole abnegazione durante la prima guerra mondiale e nel dopoguerra. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In particolare dal 1915 al 1919 curò moltissimo l’assistenza ai combattenti e ai loro familiari. A tal fine promosse la costituzione di un Comitato di Assistenza e di un Segretariato del Popolo. Il primo, oltre a prestare assistenza alle famiglie dei richiamati, curava il regolare funzionamento di tutti i servizi pubblici, preveniva e provvedeva ai bisogni delle industrie e dei commerci, risolveva i problemi delle campagne (riguardo alla manodopera, ai contratti di mezzadria e di affittanza, alla conduzione delle aziende agricole), provvedeva al pagamento delle pigioni delle case e soccorreva finanziariamente le famiglie bisognose. Il Segretariato del Popolo, eletto in seno al Comitato di A., aveva specifiche mansioni di assistenza diretta ai soldati.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Inoltre egli affrontò con determinazione il problema alimentare, perciò il pane di Stato non mancò in nessun giorno dell’anno, mentre in alcuni paesi della provincia talvolta non si panificava per più giorni. E, nonostante la scadente qualità del grano fornito dal Governo, il pane a Galatina fu sempre della stessa fattura e ben cotto, in quanto il primo cittadino per il servizio pubblico di panificazione aveva saggiamente deciso di avvalersi dell’opera di un vero industriale del settore, Pietro Laporta, il quale disponeva di molino e panificio propri ed era in grado, se necessario, di anticipare le somme per il pagamento delle assegnazioni prefettizie di grano. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Vito Vallone per la sua statura umana e professionale e soprattutto per la grande popolarità acquisita curando scrupolosamente gli ammalati, senza distinzione di classe o di partito, poté essere validissimo sostenitore del fratello Antonio, che ebbe una brillante carriera come amministratore locale e soprattutto come deputato repubblicano al Parlamento del Regno.</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In occasione della sua morte, avvenuta il 22 maggio 1943, fu proclamato il lutto cittadino, che fu molto sentito da tutti i galatinesi.</span></div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<h2>
<span style="font-family: inherit; line-height: 18.4px;"><b>IPPOLITO DE MARIA</b></span></h2>
<h3>
<span style="font-family: inherit;"><b>Educatore eccezionale e amministratore saggio ed irreprensibile</b></span></h3>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’11 ottobre 1896 il Consiglio Comunale (C. C.) di Galatina nominò, per l’a. s. 1896-’97, istitutore presso il Convitto “Pietro Colonna” colui che in futuro sarebbe stato il padre dello statista on. Aldo Moro, cioè Renato Moro di Salvatore. Questi l’anno dopo, essendo stato nominato insegnante elementare a Tiggiano, non accettò la conferma al posto d’istitutore, per il quale, su invito del sindaco Mario Micheli, presentò domanda documentata il futuro genitore dell’on Beniamino De Maria, cioè Ippolito De Maria. Quest’ultimo era anche amico di Renato Moro che aveva conosciuto nell’ambiente universitario napoletano.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Davvero singolari l’affinità occupazionale e l’amicizia dei padri dei due uomini politici pugliesi!</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Chi era il ventenne De Maria che, venuto a Galatina come istitutore del Convitto, vi rimase per tutta la vita? </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli era nato a Palagiano nel 1877. Suo padre Raffaele, insegnante nelle scuole secondarie del Regno delle due Sicilie, era stato licenziato dopo il 1861 per essersi rifiutato di giurare fedeltà al re Vittorio Emanuele II, in quanto disgustato dalla violenza che aveva caratterizzato la nascita del Regno d’Italia e dall’anticlericalismo cieco e settario del Governo sabaudo. Perciò aveva aperto una scuola privata a Ginosa, che gli permise di dare un dignitoso avvenire ai propri figli. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quindi in un ambiente moralmente ineccepibile e culturalmente evoluto aveva maturato la propria vocazione all’insegnamento il giovane Ippolito, il quale frequentò la R. Scuola Normale di Bari, conseguendovi la patente di maestro elementare di grado superiore. S’iscrisse poi alla Facoltà di Lingue Straniere dell’Università di Napoli, ma dopo due anni, costretto a cercare lavoro per motivi familiari di carattere economico, accetto un posto d’istitutore presso il Convitto Nazionale di Bari, dove non rimase a lungo per motivi di salute.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel Convitto “P. Colonna” il rettore Rocco Catterina, dotto sacerdote trentino ricco di doti umane, contribuì non poco alla formazione come educatore del giovane De Maria che, anche quando fu assunto come insegnante elementare, cercò di avere sempre incarichi nello stesso convitto. In data 27 settembre 1899 il Nostro fu nominato vice – censore per l’anno scolastico 1899 – ‘900, con la stipendio annuo di £ 500, oltre vitto e alloggio. Nello stesso incarico fu confermato in ciascuno dei sette anni successivi. Il 29 ottobre 1907, cioè subito dopo la regificazione[1] del Liceo- Ginnasio, fu nominato censore e, quindi, aveva il dovere di “…sorvegliare e dirigere gli istitutori nell’adempimento del proprio ufficio, curando in principale modo che (congiungessero) alla severità per il mantenimento della disciplina, l’urbanità e la dolcezza dei modi e che (fossero) esempio ai giovanetti di moralità, di civile educazione e di temperanza.”(v. art. 13 di Programma e regolamento del Convitto). Dovere questo che egli seppe assolvere egregiamente, meritando l’assoluta fiducia del rettore e del Commissione Amministrativa (C. A). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dall’ottobre 1908 fino al settembre 1911 Ippolito De Maria non fu dipendente del Pio Istituto “P. Colonna” perché, avendo accettato l’incarico di maestro elementare, non poteva ricoprire anche il posto di censore. Proprio in quel periodo mise su famiglia, sposando nel settembre 1910 Maria Consiglia Bardicchia, insegnante nelle Scuole Elementari di Galatina, ma proveniente da Salice Salentino. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La C. A. del Pio Istituto “P. Colonna” il 13 giugno 1911 nominò il Nostro tesoriere con il compenso annuo di £ 450 e l’obbligo di fornire una cauzione di £ 6.500. La stessa C.A. il successivo 6 settembre gli affidò anche la direzione e la vigilanza della “vittitazione” (ovvero del servizio di mensa) del Convitto, nonché dell’acquisto dei generi alimentari necessari, spendendo non più di £ 1,35 per convittore. Per quest’ultimo delicato incarico avrebbe ricevuto annualmente il compenso di £ 600. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Però in qualità di nuovo tesoriere prima di ricevere le consegne dal predecessore avrebbe dovuto attendere l’approvazione da parte del Consiglio di Prefettura degli atti relativi alla cauzione. Nonostante ciò la C. A., avendo piena fiducia in lui, autorizzò un passaggio provvisorio di cassa, che ebbe luogo il 31 dicembre 1911. Solo alla fine del 1912 il suddetto Consiglio di Prefettura approvò la richiesta cauzione di £ 6.500, ottenuta con un deposito di £ 4.000 presso la Cassa Depositi e Prestiti e con l’ipoteca di £ 2.500 su un fondo rustico, sito in agro di Salice Salentino e stimato del valore di £ 3.780. Comunque la C. A. per favorire Ippolito De Maria con delibera n. 7/1913 ridusse la suddetta cauzione da £ 6.500 a £ 4.000, cioè all’importo del sopraccitato deposito esistente presso la Cassa DD. e PP.. Intanto il Nostro studiando assiduamente anche di notte si era preparato agli esami per il conseguimento del diploma di Direttore Didattico, che si tenevano presso l’Università di Napoli di fronte ad una Commissione presieduta da un cattedratico di pedagogia. Egli però, pur avendo ottenuto con ottimi detto diploma, non partecipò mai a concorsi per la direzione di Scuole Elementari, in quanto ci teneva molto al lavoro in Convitto, in quanto lo riteneva molto importante nell’educazione dei giovani. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">All’approssimarsi della prima guerra mondiale si schierò a favore dell’intervento e in qualità di volontario nell’agosto del 1915 venne arruolato come tenente di artiglieria e destinato alla difesa della costiera di Brindisi. Intanto aveva ottenuto dalla C.A. del Convitto di essere sostituito nell’incarico di tesoriere dalla moglie, M. Consiglia Bardicchia, per tutto il tempo che sarebbe rimasto sotto le armi. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ippolito De Maria, congedato alla fine della guerra, riprese l’attività di tesoriere del Pio Istituto “P. Colonna” e nello stesso tempo ottenne la conferma nel servizio di vittitazione col compenso annuo di £ 1.200 e l’obbligo a non superare il costo di £ 2,00 del vitto giornaliero di ogni convittore. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intorno al 1921 una grave crisi economica travagliava l’Istituto poiché, mentre da un lato non era più possibile procrastinare i lavori di manutenzione straordinaria non eseguiti durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, dall’altro aumentava continuamente il costo dei viveri e quello di stipendi e salari del personale. Per far fronte a tale situazione il rettore, avv. Emilio Galluccio, chiese ristrutturazioni per un importo di £ 20.000 e la limitazione a 70 unità del numero dei convittori, ma non essendo stato accontentato si dimise. Questo aumentò le preoccupazioni della C. A., la quale aveva peraltro accertato che il Convitto per reggersi aveva bisogno di un reddito netto annuo di £ 7.000 e di un maggiore gettito delle tasse scolastiche, il quale fosse cioè non solo sufficiente ad assicurare il canone dovuto allo Stato (v. nota 1) per l’avvenuta regificazione del Liceo-Ginnasio, ma che desse anche un supero a favore del Pio Istituto “P. Colonna”. D’altronde la chiusura del Convitto avrebbe comportato l’allontanamento dalle Scuole di Galatina di una parte dei 100 convittori (media degli ultimi anni) con conseguente riduzione del gettito delle tasse scolastiche. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per uscire da questo grave stato di crisi una valida ed originale proposta venne nell’agosto 1921 proprio da Ippolito De Maria, il quale chiese in affitto per un quinquennio i locali, i mobili e gli arredi del Convitto, dietro il pagamento del canone annuo di lire 7.000, con l’obbligo di mantenere lo stesso in attività, nel pieno rispetto delle norme del Regolamento interno e provvedendo al pagamento di tutte le spese, comprese quelle della manutenzione ordinaria di locali ed arredi. Un contratto d’affitto conforme a questa proposta non fu possibile per impreviste difficoltà amministrative. Ma il 19 dicembre 1921 una nuova C. A., ottemperando ad una ordinanza emanata il precedente 7 ottobre dalla Commissione Provinciale di Assistenza e Beneficenza, ed in accordo col Sindaco di Galatina, Vito Vallone, deliberò la concessione per il biennio 1°ottobre 1921-30 settembre 1923 della gestione del Convitto al tesoriere Ippolito De Maria, il quale oltre ad avere le funzioni di addetto al servizio di vittitazione, doveva assumere anche quelle di rettore. Inoltre si stabilì che: “…L’Opera Pia non dovesse spendere più di £ 5,70 al giorno per convittore e il rettore, nei limiti di tale spesa, doveva provvedere a quanto occorresse per il funzionamento e il mantenimento del Convitto, comprese le piccole spese e la piccola manutenzione ordinaria dei locali, dei mobili e dell’impianto elettrico. Pertanto il rettore-gestore De Maria non aveva diritto ad alcun compenso, neppure in qualità di tesoriere e di incaricato alla vittitazione.” (v. delibera n. 28/1921). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Questo contratto, che per effetto di successive conferme rimase in vigore per sette anni, durante i quali la suddetta quota giornaliera da £ 5,70 venne portata a £ 6,50 a partire dall’a. s. 1922-23 e a £ 8,10 dal 1924-25.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Il 15 ottobre 1928 la C. A. decise di riprendere la gestione diretta del Convitto, ma confermò il Nostro sia nell’incarico di rettore (con lo stipendio annuo di £ 8.000) che in quello di tesoriere col compenso annuo di £ 700, portato poi a £ 850 nel quadriennio 1929-1932. Egli fu anche incaricato a provvedere e vigilare la fornitura del vitto ai convittori, per la quale il costo giornaliero di £ 5,20 per convittore, che non doveva essere superato, comprendeva anche sia la spesa per il vitto al personale educativo ed inserviente che il compenso per l’incarico di direzione e vigilanza del servizio mensa. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Da quanto detto si evince che a partire dal 1921 la direzione educativa del Convitto e la gestione economica dello stesso (servizio di tesoreria + servizio mensa) furono con continuità espletate da un’unica persona: Ippolito De Maria. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ciò fu per l’istituzione una vera fortuna, poiché solo un educatore esperto e nello stesso tempo amministratore saggio e irreprensibile poteva assicurare stabilità al Convitto “P. Colonna” nel corso degli anni venti e trenta del secolo scorso travagliati da ricorrenti gravi crisi sociali ed economiche come, per es., l’avvento del fascismo, la crisi economica del 1929 ecc.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Da buon padre di famiglia il Nostro cercò di migliorare le condizioni ambientali dell’Istituto, infatti: </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>nel 1929 chiese ed ottenne l’installazione in un ampio locale (che prima era stato studio per i convittori) di moderni servizi igienici con lavandini e docce, che utilizzavano l’acqua del pozzo dell’edificio, attinta con una elettropompa; così finirono “in pensione” le tradizionali bacinelle;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>ottenne che fossero spese £ 7.000 per trasformare una grande sala (nella quale erano sempre state le bacinelle e gli altri accessori utili alla pulizia personale) in Cappella per le funzioni religiose; questo perché aveva constatato che nella Chiesa dell’Immacolata, durante la Messa, i convittori si distraevano; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>molto interessato al tempo libero dei giovani, acquistò una macchina cinematografica di produzione tedesca e concluse un contratto con l’Istituto Italiano Proiezioni Luminose – Milano per il noleggio di film muti: western o commedie o descrizioni di viaggi e avventure di navigatori alla scoperta di nuove terre; inoltre, coadiuvato dal bravo maestro Eugenio Gizzi, promuoveva spettacoli musicali, mentre personalmente curava un’intensa attività filodrammatica, impegnandovi i convittori che, secondo lui, ne traevano notevoli vantaggi di carattere formativo sia sul piano morale che sociale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il rettore De Maria, impegnato com’era nella formazione civile, morale e religiosa dei giovani, invitava frequentemente per tenere conferenze personalità note anche in campo nazionale per le loro attività culturali o benefiche. Inoltre ogni anno, in occasione della Pasqua, affidava a un dotto sacerdote un corso di esercizi spirituali per la preparazione dei convittori al precetto pasquale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma, al di là degli impegni e degli interessamenti connessi all’incarico di rettore, il Nostro era fortemente preoccupato per le difficoltà di ragazzi bravi che non avrebbero potuto continuare gli studi per le disagiate condizioni familiari. Perciò era solito ricorrere a due espedienti:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>cercava di far assumere come istitutori nello stesso Convitto, facendo loro pagare solo una parte della retta, quelli che dopo il Ginnasio dovevano intraprendere o completare gli studi liceali;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>si valeva dell’aiuto provvidenziale di un suo caro amico, rettore del Collegio Nazionale di Genova, che poteva far assumere come istitutori in quell’Istituto coloro che, conseguita la licenza liceale, non avevano i mezzi per intraprendere gli studi universitari. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dagli atti d’archivio del Convitto “P. Colonna” si rilevano:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>le nomine a istitutore conferite ai convittori Grano Giuseppe e Maritati Giuseppe nell’a. s. 1930 -31, e a Ciccarese Giuseppe e Ingletti Aldo nel 1931-32;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>nell’anno 1932-33 fu concesso al bravo convittore liceale Mario Sergi di dare ripetizioni ad altri convittori con l’esonero del pagamento di metà retta; allo stesso nel 1933 fu riconosciuto il compenso di £ 200 per aver supplito istitutori assenti e nel 1934, dopo il conseguimento della licenza liceale, gli fu conferita la nomina a istitutore con lo stipendio annuo di £ 1.584, oltre vitto e a alloggio.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Purtroppo la molteplice e intensa attività del rettore Ippolito De Maria si concluse il 14 marzo 1938 con la sua morte, all’età di 61 anni, causata da un male incurabile. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dagli atti amministrativi del Convitto emerge la costante preoccupazione che il Nostro ebbe sino alla fine per i ragazzi che le famiglie gli affidavano. Infatti nell’estate del 1937 provvide all’acquisto di un apparecchio radio, pagato £ 4.600, di cui 975 raccolte fra i convittori, ed aveva anche preparato in ogni particolare l’acquisto di una macchina cinematografica sonora, che non poté neppure vedere perché arrivò un mese dopo la sua morte.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Alla famiglia De Maria il 30 giugno 1938 venne rimborsata la somma di £ 2.043, anticipata da Ippolito per il viaggio a Roma di un gruppo di convittori che nel 1937 avevano vinto il 2° premio nella Gara Nazionale di Cultura Cattolica.</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Con queste brevi note si è inteso tratteggiare la figura di un vero educatore che interpretò il proprio ruolo con un contributo costante e totale ad una sana e completa formazione della gioventù, modernizzando un’istituzione educativa. </span></div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<h2>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 18.4px;"><b>SANTE DE PAOLIS</b></span></span></h2>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel secolo scorso, specialmente dopo l’avvento del Governo fascista, nell’antico Ospedale Civile di Galatina, amministrato dalla Congregazione di Carità (C.d.C.), si andavano modernizzando i servizi e la composizione del corpo sanitario.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Infatti all’inizio del 2°decennio era ancora in vigore nel Nosocomio il Regolamento approvato dalla C.d.C. il 25.08.1908, che prevedeva una “facoltà medica” costituita da un medico, un chirurgo e due assistenti medici (v. art.26) i quali avevano “… l’obbligo di prestare servizio nella sala di chirurgia e cure mediche, che si tengono nell’Ospedale a beneficio dei poveri infermi, di curarli di qualunque malattia fossero affetti, prescrivendo loro le medicine …necessarie, restando vietato di prescrivere medicine di lusso e specialità, massime quando possono queste essere supplite con succedanei (v. art. 29)”.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma il 5 marzo 1925 la Giunta Provinciale Amministrativa ( G.P.A.) approvò un nuovo regolamento, elaborato e proposto dalla C.d.C. il 7 dicembre 1924, per il quale il corpo medico era costituito: “… a) da due titolari, un medico ed un chirurgo; b) da due supplenti od assistenti effettivi; c) da un numero indeterminato di assistenti volontari;…(v. art. 1)”.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il giovane Sante De Paolis di Angelo, nato a Galatina il 7 marzo 1897, dopo aver conseguito brillantemente la maturità classica nel liceo ‘P. Colonna’ della propria città, si laureò presso l’Università di Napoli il 20 luglio 1920 in medicina e chirurgia col massimo dei voti e la lode.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli dopo il servizio militare di leva, dal quale si congedò verosimilmente come ufficiale medico, il 5 febbraio 1922 fu nominato ‘assistente’ nell’Ospedale, secondo il sopraccitato regolamento del 1908. Lo stesso, però, nel dicembre 1924 fu confermato in servizio quale ‘assistente effettivo’ e assegnato al reparto di medicina con l’obbligo di sostituire il direttore medico in caso di assenza, come disposto dall’art.4 del nuovo regolamento.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 6 aprile 1928, in seguito alle dimissioni dell’ultimo di una serie di Ufficiali Sanitari Comunali provvisori, il Podestà di Galatina, Domenico Galluccio, trasmise al R. Prefetto l’elenco dei medici galatinesi liberi esercenti (ovvero non dipendenti dal Comune come medici condotti od altro), dei quali soltanto due, il dr. Sante De Paolis e il dr. Ernesto Vernaleone, avevano frequentato il 1°Corso Complementare di Igiene Pratica per Ufficiali Sanitari, tenutosi nell’Università di Firenze.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Successivamente il R. Prefetto di Lecce decretò quanto segue:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">«Il dottor De Paolis Sante fu Angelo di anni 31 è provvisoriamente incaricato delle funzioni di Ufficiale Sanitario del Comune di Galatina a partire dal 1° maggio prossimo e con l’annuo assegno stabilito in bilancio.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Podestà di Galatina è incaricato della esecuzione del presente decreto.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lecce, 24 aprile 1928 </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Prefetto - F.to Negri»</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per effetto di tale provvedimento prefettizio il dr. De Paolis ebbe prima un’incarico provvisorio di Ufficiale Sanitario di Galatina dal 01.05.1928 al 09.05.1929.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’incarico definitivo per lo stesso ufficio gli fu poi conferito dal R.Prefetto il 10.05.1929, con decreto n. 1215, e dal Podestà di Galatina con deliberazione n. 59 / 11.05.1929.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Così l’Ufficio Sanitario della nostra Città ebbe per la prima volta un direttore titolare.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto il Governo fascista, nell’intento di adeguare al nuovo corso politico anche le Opere Pie, con la legge n.413 / 04.03.1928 aveva disposto che la C.d.C. fosse costituita da un Presidente, assistito dal cosiddetto Comitato dei Patroni, che era composto da 4 membri ed aveva attribuzioni esclusivamente consultive. Sia il Presidente che i Patroni erano nominati direttamente dal Prefetto.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Pertanto toccò al Presidente Fedele Sambati effettuare, sentiti i Patroni, la stesura di un nuovo ‘regolamento sanitario dell’Ospedale’ (il terzo imposto dal Regime nell’arco di 10 anni), che entrò in vigore nel 1934. Questo fra l’altro disponeva:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">«a] Il corpo medico è costituito: 1) da tre titolari: un medico, un chirurgo ed un dirigente di laboratorio batterologico; 2) da tre assistenti effettivi; 3) da un numero indeterminato di assistenti volontari;…(v. art. 1). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">b] Il medico, il chirurgo ed il dirigente di laboratorio sono direttori del proprio reparto; a ciascuno di essi è affidato il materiale del reparto al quale è preposto. (Art. 3).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">c] Dei tre assistenti effettivi, uno è assegnato al reparto medico, gli altri due al reparto chirurgico… . (v. art. 4). »</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Gli Amministratori dell’Ospedale di Galatina, che sin dal 1930 avevano provveduto all’acquisto di apparecchiature per semplici esami clinico – chimici, soltanto il 28 giugno 1936 istituirono un vero e proprio laboratorio batteriologico, a dirigere il quale fu provvisoriamente incaricato il dr. Sante De Paolis, il quale, essendo retribuito come assistente effettivo, non avrebbe ricevuto alcun compenso aggiuntivo e, cosa importante, era nella possibilità di usare apparecchi di sua proprietà, tra cui il microscopio, che la C.d.C. non era in grado di acquistare a causa dell’elevato costo. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 26 febbraio 1940, in seguito alle dimissioni del dott. Carmine D’Amico da Caporeparto di medicina e da Direttore Sanitario, l’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza, subentrato nel 1937 alla C.d.C. nella gestione dell’Ospedale) attribuì in via provvisoria al dr. Sante De Paolis anche la Direzione dell’Ospedale, con l’assegno annuo di £ 440. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dopo il bombardamento dell’aeroporto di Galatina, avvenuto il 2 luglio 1943, l’E.C.A. avviò con appositi fondi ministeriali l’erogazione di un’indennità giornaliera di £ 22 ad ogni dipendente del Nosocomio “a risarcimento dei danni dovuti ad offese nemiche”, dalla quale erogazione erano però esclusi tutti i medici. Perciò il dr. Sante De Paolis, in qualità di direttore sanitario, avanzò un’esplicita richiesta per un contributo straordinario ai sanitari.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 30 giugno 1943 detta istanza fu presa in esame dal Consiglio di Amministrazione (C.d.A.) dell’Ente, il quale s’impegnò di prender in considerazione le possibilità di bilancio ai fini della concessione del beneficio richiesto e, nello stesso tempo, espresse compiacimento e lode al dr. De Paolis per l’opera assidua ed intelligente che egli svolgeva a favore degli infermi.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In data 3 giugno 1949 il C.d.A. presieduto dal colonnello Pietro Gaballo, nel rispetto dell’art.7 del Regolamento Sanitario, che fra l’altro disponeva testualmente:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">« L’ammissione del personale effettivo è fatta per concorso e soltanto per titoli (sic)…”, procedette alla sistemazione definitiva esclusivamente del dr. Sante De Paolis, direttore sanitario dal 1940 (e in servizio nell’Ospedale dal 1922), e del prof. Donato Vallone, capo-reparto di chirurgia dal 1933, mentre tutto il rimanente personale continuava ad essere ritenuto, come sempre, incaricato provvisoriamente.»</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dal marzo 1954 al gennaio 1957 l’E.C.A. (e quindi l’Ospedale) fu gestito dal Commissario Prefettizio, dott. Gaetano Laforgia, il quale nominò provvisoriamente capo-reparto di medicina il prof. Luigi Capani. Questi assunse servizio il 1° gennaio 1955, ma il dr. Sante De Paolis conservò l’incarico di direttore sanitario e, come tale, nel settembre 1955 fece parte della Commissione esaminatrice del 1°concorso pubblico nella storia del Nosocomio, che riguardava l’assunzione di un’ostetrica e fu vinto dalla sig.ra Carmela De Benedittis.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 15 gennaio 1955 il neolaureato dr. Angelo De Paolis, figlio del dr.Sante, fu nominato assistente volontario e assegnato al reparto di medicina, con particolare attribuzione al gabinetto batteriologico, per il quale era stato finalmente acquistato un microscopio Zeiss, completo di accessori, per £ 327.540.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il dr. Sante De Paolis alla fine del 1° semestre del 1956 presentò domanda di dimissioni da direttore sanitario dell’Ospedale, carica questa dichiarata incompatibile con quella di Ufficiale Sanitario Comunale di ruolo da lui stesso ricoperta. Il 2 luglio il Commissario G. Laforgia ne prese atto ed avviò la procedura per la liquidazione all’interessato dell’indennità di buonuscita ammontante a £ 396.000, pari ad uno stipendio per ognuno dei 33 anni di servizio prestati.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Da quanto sopraesposto si evince che il Nostro è stato un antesignano in tutti i ruoli rivestiti: primo ‘assistente effettivo’ dell’Ospedale (1924); primo ‘ufficiale sanitario comunale’ fornito di titolo specifico (1928); primo ‘dirigente del laboratorio batteriologico ospedaliero’ (1936); primo ‘direttore sanitario con sistemazione definitiva’(1949); membro della commissione esaminatrice del 1°concorso bandito dall’Ospedale (1955) ed, infine, primo dipendente di ruolo del Nosocomio ad essersi dimesso dopo 33 anni di ininterrotto servizio (1956).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma dopo tali dimissioni il dr. Sante De Paolis continuò a dirigere con grande autorevolezza l’Ufficio Sanitario Comunale e, soprattutto, a dedicarsi con passione, diligenza e successo non comuni all’esercizio privato della medicina generale. In questa veste è stato direttamente conosciuto e molto apprezzato anche dalla famiglia dello scrivente.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Da Ufficiale Sanitario andò in pensione per raggiunti limiti di età, ma privatamente con immutata dedizione continuò l’attività di medico di base finché le forze glielo consentirono.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il dott. Sante De Paolis morì a 85 anni nel 1982. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dalla Sua scomparsa è trascorso ormai più di trentennio, ma Galatina nulla ha ancora fatto per ricordarlo. </span></div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<br />
<div>
<b><span style="font-family: inherit;"><br /></span></b></div>
<h2>
<span style="font-family: inherit; line-height: 115%;"><b>BENIAMINO DE MARIA</b></span></h2>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nelle prime elezioni politiche del dopoguerra, che ebbero luogo nel 1946 per la nomina dei Deputati all’Assemblea Costituente, gli elettori galatinesi ebbero la grande soddisfazione di vedere eletti Beniamino De Maria e Luigi Vallone: in tal modo Galatina con due figli fra i Padri Costituenti andava a collocarsi nel ristretto gruppo di Città che potevano vantare tanto onore.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Una situazione analoga si verificò nel 1948, quando nelle elezioni politiche del 18 aprile, De Maria e Vallone furono entrambi eletti a far parte della Camera dei Deputati. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In memoria dei Padri Costituenti Beniamino De Maria e di Luigi Vallone sono state soltanto intitolate due vie della contrada Notaro Iaco, zona agricola ad ovest di Galatina, ben distante dall’abitato.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Beniamino De Maria, nato a Galatina il 7 agosto 1911, fu il primo dei quattro figli di Ippolito e di Consiglia Bardicchia, lui censore del Convitto “P. Colonna”, lei insegnante nelle Scuole Elementari, entrambi animati da profonda religiosità che seppero trasmettere ai propri figli.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli trascorse serenamente gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza e, completati gli studi nel Liceo-Ginnasio “P. Colonna”, andò a Padova, dove, ospitato in un pensionato religioso per studenti, frequentò l’Università per laurearsi in Scienze Naturali.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1931, da iscritto alla FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), si trovò a fare i conti con la decisione presa da Mussolini di chiudere i Circoli di Azione Cattolica e nel corso delle conseguenti proteste degli universitari cattolici si dimostrò sempre sereno e riflessivo e, quindi, capace di moderare gli ardimenti dei colleghi più emotivi. Per questo nel 1934 meritò l’elezione a presidente della FUCI di Padova. Nel 1935 si laureò brillantemente in Scienze Naturali e si trasferì nell’Università Bologna per studiare Medicina. Conseguita nel 1937 la laurea, tornò a Galatina. Intanto il padre Ippolito, che del Convitto “Colonna” era diventato sia rettore che tesoriere e responsabile della vittitazione, moriva il 14 marzo 1938.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Nostro dopo circa un mese, per le insistenze del presidente dell’Istituto, accettò fino al 31 dicembre 1938 i tre incarichi già rivestiti dal proprio genitore. Tuttavia con delibera della Commissione Amministrativa del 1°ottoobre 1938 egli fu sollevato dall’incarico di responsabile della vittitazione, mentre per effetto di varie conferme fu rettore addirittura fino a 31 dicembre 1939, quando si dimise, conservando, però, la responsabilità di tesoriere fino all’ottobre 1940. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto esercitava la professione medica, visitando a domicilio gli ammalati a tardissima sera, mentre al mattino (sin dal 1939) insegnava Scienze nel Liceo “P. Colonna”.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Durante la seconda guerra mondiale anche il dott. Beniamino De Maria indossò dal 1941 l’uniforme di ufficiale medico e, come tale, prestò servizio prima a Bari e poi a Porto Cesareo in una postazione costiera, dove lo colse l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ma solo nel 1945 ottenne il congedo e poté tornare al suo lavoro di medico e di professore, senza avere ambizioni politiche, sebbene fosse simpatizzante della Democrazia Cristiana, erede del Partito Popolare. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Si deve alle insistenti pressioni dell’Arcivescovo, mons. Sebastiano Cuccarollo, e soprattutto a quelle del Parroco, don Salvatore Podo, l’accettazione da parte del Nostro della candidatura alle elezioni per il Consiglio Comunale (31 marzo ‘46 ) e per l’Assemblea Costituente (2 giugno ’46). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Così Beniamino De Maria, dotato di un’oratoria asciutta e priva di atteggiamenti plateali, ebbe modo d’imporsi subito come astro nascente della Democrazia Cristiana e alfiere della lotta contro la sinistra socialcomunista, alla quale la D.C. cercava di ridurre il consenso dei ceti popolari. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nelle suddette elezioni amministrative la lista civica di destra, capeggiata da Luigi Vallone, ottenne 6.298 voti, mentre la lista D.C. ne ebbe 2.507. Quindi divenne Sindaco Luigi Vallone.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Invece nelle elezioni per l’Assemblea Costituente Beniamino De Maria con 18.279 voti superò Vallone, eletto anche lui. Situazione questa che si ripetè in maniera più netta nelle votazioni per l’elezione della prima Camera dei Deputati (18 aprile 1948), quando il Nostro ebbe 48.525 voti. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Prima del 1956 la prevalenza nelle elezioni amministrative delle liste capeggiate o sostenute da Luigi Vallone fu costante, ma questi non era stato rieletto deputato nel 1953. Mentre De Maria, oltre ad essere rieletto con 47.159 preferenze, nella II legislatura fece parte del 1° Governo Fanfani in qualità di Commissario Aggiunto per l’Igiene e la Sanità; incarico questo rivestito ininterrottamente fino al 19.05.1957, cioè sia col Governo Scelba che con i1 1° Governo Segni.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nelle prime elezioni amministrative col metodo proporzionale (1956), i 30 seggi del Consiglio Comunale furono cosi distribuiti: 9 alla lista civica capeggiata da L. Vallone, altri 9 alla lista D.C., 8 ad una lista socialcomunista, 3 alla lista del M.S.I. ed 1 alla lista P.S.D.I. .</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Poiché solo l’unico consigliere del P.S.D.I. era disposto ad allearsi con i nove consiglieri valloniani, si pervenne alla formazione di una Giunta Municipale minoritaria, costituita da democristiani, che però aveva l’appoggio esterno sia dei consiglieri di sinistra che di quelli del M.S.I.. Sindaco divenne il colonnello Pietro Gaballo, eletto insieme alla Giunta il 1° luglio 1956.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tutto questo ebbe una grande risonanza a livello nazionale ed espose a gravi conseguenze politiche la D.C. locale ed in particolare l’on. De Maria, il quale in sede parlamentare aderiva da sempre al gruppo politico di cui facevano parte Dossetti, Fanfani, Moro, Scalfaro e Zaccagnini. Perciò il sindaco Gaballo e la Giunta Municipale dopo appena nove mesi si dimisero, ufficialmente per la mancata approvazione da parte del Consiglio del bilancio preventivo 1957. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Comunque tali dimissioni non comportarono alcuna conseguenza negativa per il Comitato E.C.A., costituito da 4 consiglieri democristiani, 4 socialcomunisti e uno missino, che si era insediato il 3 gennaio 1957 ed aveva eletto a proprio presidente la sig.na Palmina De Maria. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Così finalmente tutti i finanziamenti destinati a Galatina per opere assistenziali (ivi comprese le sanitarie), ottenuti da B. De Maria, in quanto Deputato nonché membro del Governo della Repubblica, non sarebbero stati amministrati da persone a lui da sempre politicamente avverse. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Comitato di Amministrazione (C.d.A.) dell’E.C.A., sicuro di avere in Beniamino De Maria un vero nume tutelare, già nel gennaio 1957 avviò le pratiche per la costruzione del nuovo edificio ospedaliero e il successivo febbraio ottenne dal Ministero dei Lavori pubblici il contributo e la garanzia dello Stato per un mutuo di £138.000.000 con la Cassa Depositi e Prestiti al fine di costruire un Ospedale “tipo 69 posti letto”. Prestito questo al tasso del 5,80%, di cui il 5% a carico dello Stato. Pertanto Palmina De Maria, autorizzata dal C.d.A., procedette all’acquisto in contrada S. Sebastiano del necessario suolo edificatorio di mq. 27.600, contraendo a tal fine un altro mutuo di £ 15.000.000 Intanto, previo nulla osta del Ministero LL.PP., nel giugno 1957 si affidava al prof. arch. Pasquale Carbonara dell’Università di Roma il progetto dell’edificio. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In data 18 luglio 1958 progetto ed allegati dell’erigendo Ospedale “S.Caterina Novella” furono approvati dal C.d.A. dell’ECA e un anno dopo, il 19 luglio 1959, ci fu la posa della prima pietra con l’intervento dell’On. Camillo Giardina, ministro della Sanità. Effettuata la gara d’appalto dei lavori, il contratto con l’impresa vincitrice, la ditta Antonio Pascali, fu stipulato nel marzo 1960.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il ritmo sostenuto, con cui venivano espletati i sopraindicati adempimenti per la realizzazione del nuovo Nosocomio, non sarebbe stato certo possibile senza il costante, celere e proficuo sostegno dell’On. De Maria e senza la sua perfetta intesa con il C.d.A. dell’E.C.A. di Galatina.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Nostro, rieletto nel 1958 con 45.619 voti, fu prima presidente della Commissione Igiene e Sanità della Camera, poi dal 15 febbraio 1959 al 25 marzo 1960 fece parte del 2° Governo Segni, e concluse la III legislatura, essendo di nuovo presidente della Commissione Igiene e Sanità.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Col suo consiglio e sostegno il C.d.A. dell’E.C.A. il 19 aprile 1961, ritenendo che il nuovo edificio dovesse disporre di almeno 223 posti letto (e non più di soli 69), perché ormai il Nosocomio esistente era passato dalla II alla III categoria, approvò un nuovo progetto generale dello stesso, che comportava una maggiorazione di spesa di £ 62.000.000, al fine di raggiungere l’importo di £ 200.000.000, fissato dalla legge 589/1949 per Comuni con meno di 30.000 abitanti. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tuttavia le notevoli ulteriori spese per il completamento del nuovo edificio dell’Ospedale fu possibile imputarle su uno stanziamento di altri 200 milioni di lire che De Maria riuscì ad ottenere nel 1964 dalla Cassa per il Mezzogiorno. Quest’ultima il 9 luglio 1965 stanziò un’ulteriore notevole somma per l’attrezzatura ospedaliera.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’inaugurazione dell’Ospedale “S. Caterina Novella” ebbe luogo il 10 giugno 1966 con l’intervento del Presidente del Consiglio, On. Aldo Moro. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Beniamino De Maria, rieletto nel 1963 con 44.008 preferenze, cinque anni dopo nelle elezioni politiche del 1968 ottenne ben 54.194 voti [effetto O… come ospedale?] e sia nella IV che nella V legislatura fu di nuovo Presidente della Commissione Igiene e Sanità della Camera dei Deputati. Fu anche candidato alle elezioni del 1972 e fu eletto per la settima volta con 57.236 preferenze. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Successivamente il Nostro fu Sindaco di Galatina dal 1978 al 1989. Fra le più importanti opere della sua fattiva amministrazione si segnalano la sistemazione della Biblioteca Comunale e la creazione sia del Campus Scolastico che del Quartiere Fieristico.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La Biblioteca “P. Siciliani”, trovata dal dott. Vito Vallone in completo disordine e collocata in un solo salone, fu dallo stesso ordinata e poi aperta al pubblico nel 1905. La stessa 75 anni dopo era ancora in un solo ambiente, con molti libri ammonticchiati sul pavimento. Il Sindaco De Maria provvide tra il 1980 e il 1984 a far trasformare un tale informe deposito di libri in una vera biblioteca, dignitosamente sistemata in numerosi ambienti, che in tutto hanno una superficie di oltre 700 mq.. Perciò alla memoria di Vito Vallone e di Beniamino De Maria è stato dedicato il libro P. Congedo-La Biblioteca “Pietro Siciliani” di Galatina, Edit Santoro, Galatina, 2011. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A Galatina nel Campus Scolastico di viale Don Tonino Bello dall’anno scolastico 1988-89 hanno la propria sede tre o quattro Istituti d’Istruzione Scolastica Secondaria Superiore, per la lunga realizzazione dei quali l’Amministrazione presieduta dall’ On. De Maria fu per alcuni anni seriamente impegnata. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La cosiddetta Mostra Mercato del Commercio, dell’Industria e dell’Artigianato di Galatina, sorta per iniziativa del Sindaco Luigi Vallone al fine di avere una grande vetrina per l’esposizione e il commercio dei prodotti del Salento, ebbe luogo per la prima volta dal 26 al 30 giugno 1949 nell’Edificio Scolastico di piazza F. Cesari. La stessa fu poi dichiarata Fiera Nazionale di Galatina e, pur crescendo, veniva ospitata ogni anno sempre nella stessa sede. Quindi era proprio necessaria la grandiosa struttura del Quartiere Fieristico, che sorse poi su un’area di mq. 31.000, di cui mq.11.000 coperti. I lavori per la sua realizzazione durarono circa 5 anni, dal 1979 al 26 giugno 1984, quando, in coincidenza della XXXV edizione della Fiera, ebbe luogo l’inaugurazione alla presenza del Vicepresidente del Senato, Giorgio De Giuseppe.</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 115%;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1995 la gestione fu affidata all’Ente Autonomo Fiere di Verona e fu poi costituito dall’Amministrazione Comunale, con la partecipazione di Amministrazione Provinciale e Camera del Commercio di Lecce, il cosiddetto Ente Fiera di Galatina e del Salento.</span></div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: center;">
<h2>
<span style="font-family: inherit; line-height: 115%;"><b>DOMENICO GALLUCCIO</b></span></h2>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Fino a tutta la prima metà del secolo scorso ed anche dopo nell’Ospedale di Galatina, come in tutti gli Ospedali della Provincia di Lecce, il servizio di ortopedia era espletato dai chirurghi. A tal proposito è significativo il fatto che il primario chirurgo del Nosocomio galatinese, prof. dott. Donato Vallone, il 3 dicembre 1948, informato che gli sarebbero state corrisposte £ 240.444, quale quota a lui spettante dei proventi da operazioni e cure effettuate ad infermi paganti in proprio, avesse dichiarato di rinunziare all’intera somma per devolverla all’Ospedale, chiedendo, però, che dalla stessa fosse detratto l’importo relativo all’acquisto dell’apparecchio per la cura delle fratture, da lui già richiesto con insistenza. D’altronde le norme sanitarie vigenti all’epoca non prescrivevano al medico un’apposita specializzazione per l’esercizio dell’ortopedia.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Nel 1941 Domenico Galluccio, nato a Galatina nel 1917, si era laureato in medicina e chirurgia e durante la II guerra mondiale fu per quattro anni Ufficiale Medico nella Marina Militare. Una volta congedato si recò a Bologna per specializzarsi negli Istituti Ortopedici Rizzoli, culla dell’ortopedia italiana.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Conseguita la specializzazione rientrò a Galatina nel 1952 col fermo proposito di istituire uno specifico servizio di ortopedia nel locale Ospedale “Antonio Vallone”. Per far questo dovette chiedere il permesso del Medico Provinciale pro tempore, il quale obiettò: “… ma come faccio ad autorizzarti a Galatina, se l’ortopedia non c’è nemmeno a Lecce…!”. “Ma proprio per questo deve autorizzarmi!”, soggiunse lui. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Il Nostro in data 20 giugno 1952 stipulò con il Comitato di Amministrazione dell’E.C.A., che gestiva l’Ospedale “Antonio Vallone” di Galatina, la seguente convenzione:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">1)<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>Il dott. Galluccio si impegna a prestare la propria opera, senza alcun compenso, per la cura degli ammalati di traumatologia e di ortopedia ricoverati per conto di Comuni ed Enti;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">2) lo stesso si sarebbe potuto servire della propria attrezzatura, che avrebbe trasportato in Ospedale, con la possibilità di riprendersela allo scadere della convenzione; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> 3) per i ricoverati in conto di Enti Mutualistici il dott. Galluccio avrebbe percepito l’intero onorario medico pagato dagli stessi; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">4) dai paganti in proprio il dott. Galluccio avrebbe ricevuto l’intero onorario medico, mentre l’Ospedale avrebbe percepito la retta di degenza e i diritti per la sala operatoria e la sala gessi; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">5) dai paganti che richiedessero cure fisiche…, sia ambulatorialmente che ricoverati, il dott. Galluccio avrebbe percepito il 50% degli introiti, mentre il rimanente 50% sarebbe andato al Nosocomio; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">6) tutto il materiale sanitario occorrente nella sala operatoria e nelle sala gessi sarebbe stato a carico dell’Ospedale; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">7) la convezione sarebbe durata dal 1°giugno 1952 al 31 maggio 1954.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Così l’antico Ospedale orsiniano, a circa 550 anni dalla sua fondazione, accolse il primo specifico servizio di ortopedia della Provincia di Lecce, impiantato in maniera inconsueta ad opera di uno specialista, che era anche proprietario della necessaria strumentazione sanitaria. Tuttavia l’iniziativa si rivelò oltremodo proficua sia a beneficio degli infermi che nell’interesse dell’Istituto di cura, proprio come avvenne 14 mesi dopo per il servizio chirurgico in seguito all’assunzione del dott. Vincenzo Carrozzini, astro nascente della chirurgia. Assunzione questa che ebbe luogo, però, per via normale in data 26 agosto 1953, dopo la volontaria uscita di scena del prof. Donato Vallone. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I dottori Galluccio e Carrozzini, entrambi dotati di preparazione e professionalità notevoli nonché di squisite doti umane, in breve tempo portarono all’eccellenza rispettivamente il reparto di ortopedia e quello di chirurgia dell’Ospedale “Antonio Vallone”, con grande soddisfazione dell’utenza ed incidendo in maniera oltremodo positiva nell’economia dello stesso Ente. Quest’ultimo effetto è bene evidenziato nelle ripartizioni fra i medici (fatte periodicamente dall C.d.A. dell’E.C.A.) dei proventi derivanti da operazioni e cure prestate ad infermi paganti. Per esempio, il 28 dicembre 1953 la somma di £ 780.460 di tal genere venne così ripartita: £ 81.650 all’Ospedale, £ 312.000 al chirurgo Vincenzo Carrozzini, £ 238.000 all’ortopedico Domenico Galluccio ed il resto, pari a £ 148.810 da suddividere ad altri sette sanitari, tenendo conto delle particolari competenze di ciascuno di essi.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Allo scadere della sopraccitata convenzione (31 maggio 1954) il dott. D. Galluccio riprese, come stabilito, le proprie attrezzature che, verosimilmente, trasferì a Lecce nell’erigenda clinica privata di sua proprietà, detta “Villa Bianca”, la quale entrò in funzione nel 1955.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto alla fine del marzo 1954 nella gestione del Nosocomio al dimissionato C.d.A. dell’E.C.A. era subentrato il Commissario prefettizio, dott. Gaetano Laforgia. Questi nel giugno dello stesso 1954 provvide ad adeguare lo Statuto Organico sia alle norme sanitarie vigenti che allo sviluppo avuto dall’Ente negli ultimi tempi. Ciò gli consentì di procedere nel successivo luglio alla copertura di alcuni posti previsti dalla nuova pianta organica, nominando provvisoriamente vari sanitari, fra cui cinque specialisti, i quali vennero assunti come ‘consulenti sanitari’, ognuno con diritto al 75% del ricavato dalle cure prestate a pazienti paganti. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Uno di tali consulenti era appunto il dott. Domenico Galluccio, il quale aveva l’obbligo di essere giornalmente presente in Ospedale e per questo avrebbe anche ricevuto mensilmente un rimborso spese forfetario di £ 12.000. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lo stesso Commissario La Forgia alla fine del novembre 1954 acquistò dalle Officine Rizzoli di Bologna l’intera strumentazione per il reparto di ortopedia, pagandola circa due milioni di lire.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’Istituto di cura galatinese, che dal Prefetto di Lecce era stato declassato ad “infermeria” il 19 ottobre 1939, venne dallo stesso classificato “Ospedale di III categoria” con apposito decreto del 21 dicembre 1954. Questo riconoscimento, atteso per ben 15 anni, diede la possibilità al Commissario di bandire il 25 giugno 1955 i concorsi per i posti di primario medico, primario chirurgo, primario ortopedico, aiuto medico, aiuto chirurgo, aiuto ortopedico, farmacista, di un’ostetrica e di quattro assistenti medici.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto il precedente 15 giugno al dott. Domenico Galluccio, che da circa un anno prestava servizio in qualità di Consulente ortopedico, era stata conferita la nomina provvisoria di primario.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Entro il secondo semestre del 1955, all’infuori del concorso per primario ortopedico e per aiuto medico, tutti gli altri concorsi furono regolarmente espletati da commissioni esaminatrici per la maggior parte presiedute dal dott. Gaetano La Forgia; ne erano risultati vincitori i medici che già occupavano con nomina provvisoria i relativi posti. Solo per il posto di aiuto ortopedico risultò al 1° posto della graduatoria una dottoressa, che non era già in servizio, la quale si dimise dopo pochi giorni per cui fu assunto il dott. Angelo Podo, 2° in graduatoria, che era già incaricato.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel luglio 1957 fu anche fatto il concorso per aiuto medico, mentre quello per primario ortopedico non ebbe luogo né finché rimase in carica il Commissario La Forgia (2 gennaio 1957) né dopo, durante la gestione di due successivi Comitati dell’E.C.A., presieduti da Palmina De Maria.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto a partire dal 15 maggio 1961, in ottemperanza del D.P.R. 23 marzo 1960, alla gestione dell’Ospedale era subentrato un apposito Consiglio di Amministrazione (C.A.O.), costituito da Palmina De Maria-presidente, Donato Moro, don Mario Rossetti, Zeffirino Rizzelli e Corrado Villani, nominati rispettivamente dal Medico Provinciale, dal Prefetto, dall’Ordinario Diocesano, dal Comune e dall’E.C.A.. Questo nuovo Organo ( peraltro anche rinnovato il 14 novembre 1962, nelle persone di Palmina De Maria - presidente, Gustavo Giordano, Salvatore Zuccalà, Pasquale Coluccia e don Mario Rossetti) soltanto ad oltre 26 mesi dal primo insediamento, con apposito avviso del 1° agosto del 1963, rese pubblica la riapertura, fino al successivo 9 settembre, dei termini per la partecipazione al concorso per primario ortopedico, riconoscendo però piena validità alle domande che alcuni medici avevano già presentato nel 1955.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il medesimo C.A.O. nella seduta del 4 dicembre 1963, dopo aver dichiarato ammessi al concorso i dottori: Domenico Galluccio, Paolo Miglietta, Giovanni Minervini, Vincenzo Roberto, Giacomo Rosa e Vittorio Valerio, fu informato dalla presidente De Maria che il dott. Domenico Galluccio in una lettera del precedente 20 novembre aveva lamentato che, né con l’avviso di riapertura dei termini né in altro modo, a lui, che aveva presentato la propria domanda nel 1955, nulla era stato comunicato in ordine alla facoltà di integrare la documentazione ad essa allegata con i titoli successivamente acquisiti, e perciò aveva richiesto un provvedimento che gli permettesse la presentazione degli stessi entro un termine perentorio.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel successivo dibattito il consigliere avv. Salvatore Zuccalà propose di non ignorare la richiesta di Galluccio e di pubblicare un nuovo e più completo avviso di riapertura dei termini per la presentazione di domande e/o documenti da parte dei candidati al concorso in questione, tenendo anche conto del fatto che il precedente avviso era stato pubblicato in periodo feriale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La proposta Zuccalà, votata a scrutinio segreto, riportò un solo voto favorevole sui cinque espressi. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le prove d’esame ebbero luogo nei giorni 16 e 17 dicembre 1963.Una settimana dopo il C.A.O. approvò la seguente graduatoria dei vincitori: 1° Paolo Miglietta con punti 335,88/500, 2° Domenico Galluccio con p. 291,65 /500, 3° Giacomo Rosa con p. 284,41/500. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Cosi, in maniera veramente kafkiana, fu “estromesso” dall’Ospedale di Galatina un vero pioniere dell’ortopedia, che vi aveva creato e diretto con successo per 11 anni il primo reparto ospedaliero di ortopedia della Provincia di Lecce, conseguendo in esso risultati scientifici e professionali rimasti esemplari ed anche insuperati per molto tempo.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto due ricorsi al Consiglio di Stato (C.d.S.) in sede giurisdizionale erano stati già presentati dal dott. Domenico Galluccio: il primo tendente ad ottenere l’annullamento della delibera n.269/16 luglio 1963, relativa alla riapertura dei termini del concorso in questione; il secondo sia per i motivi esposti nel primo che avverso l’esito del concorso al posto di primario ortopedico.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Trascorsero circa tre anni prima della sentenza con cui la V Sezione del C.d.S. dispose l’annullamento della “… procedura del concorso relativo al posto di primario ortopedico,…, a partire dal provvedimento di riapertura dei termini fino all’atto di approvazione della graduatoria e di nomina del vincitore.”</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Pertanto il C.A.O. presieduto da Palmina De Maria, per dovendo dare esecuzione a tale sentenza, provvide ad un rigoroso rifacimento del concorso in questione. A questo vennero ammessi Domenico Galluccio, Paolo Miglietta, Giovanni Minervini, Vincenzo Roberto e Giacomo Rosa.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le prove d’esame ebbero luogo il 9 ottobre 1967, ma dei cinque candidati si presentò soltanto Paolo Miglietta, che naturalmente risultò vincitore. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Al dott. Domenico Galluccio bastava aver ottenuto dal Consiglio di Stato il suddetto annullamento, poiché ormai non aveva alcun interesse a rientrare nel Nosocomio galatinese, in quanto da più di un triennio era primario ortopedico nell’Ospedale di Scorrano, dove in tutta serenità rimase in servizio sino alla pensione, dando il meglio di sé. Proprio in quella sede, infatti, mise a punto una tecnica di cura delle fratture ossee, basata su quelli che, regolarmente brevettati, sono indicati dalla letteratura medica come “chiodi Galluccio”. Con tal tecnica “…Senza incidere le pelle si fa un foro nel canale midollare con un piccolo punteruolo e si mettono i fili molto sottili di un acciaio molto particolare, detti appunto ‘chiodi’, che vengono modellati a spirale nell’osso. Così l’osso viene rinforzato dall’interno, e il paziente non ha bisogno né di gesso né di altro…” ( da un’intervista al dott. D. Galluccio, riportata dal settimanale “il Corsivo”, n.9 del 15 marzo 2003). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Si noti che in assenza di tagli chirurgici si riduce al minimo il rischio di infezioni, per cui il ricorso alla tecnica Galluccio è particolarmente utile e opportuno quando vengono a mancare gli antibiotici, come è accaduto nell’Iraq di Saddam Hussein a causa dell’embargo, subito in seguito alla ‘guerra del Golfo’ del 1990-91. E proprio in Iraq nel 1995 venne chiamato il Nostro per presentare ed introdurre nella Clinica Ortopedica di Baghdad l’uso dei suoi “chiodi”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I galatinesi, già scioccati dalle assurde manovre con cui nel 1963 era stato “estromesso” dal loro Ospedale un validissimo, gentile ed innovatore medico specialista in ortopedia, non potendo più contare su un efficiente servizio ortopedico esistente nella propria Città, cominciarono ad intraprendere con sempre maggiore frequenza “viaggi della speranza”, che continuano ancora oggi, verso Ospedali di altri Comuni vicini e lontani. E per molti anni hanno avuto la fortuna di poter ricorrere alle cure del dott. Domenico Galluccio prima recandosi all’Ospedale di Scorrano e successivamente a Lecce, presso la clinica “Villa Bianca”, nella quale il Nostro fu attivo fino all’età di 91 anni, quando effettuò un ultimo intervento con i chiodi…Galluccio per frattura di omero.</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 115%;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Visse ancora qualche anno e alla sua morte fu rimpianto da quanti lo conoscevano, ed in particolare dagli ortopedici pugliesi, dei quali era il decano. </span></div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<h2>
<span style="font-family: inherit; line-height: 115%;"><b>DONATO MORO</b></span></h2>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">1 - Donato Moro, nato a Galatina l’8 novembre 1924, dopo aver conseguito la maturità classica nell’Istituto “P. Colonna” della propria città, entrò nella Scuola Normale di Pisa, classificandosi primo nella selezione.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Si laureò il Lettere il 26 luglio 1948 col massimo dei voti. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Insegnò materie letterarie nell’Istituto Magistrale di Livorno e successivamente nel Liceo Classico di Galatina.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Diventato poi Ispettore Centrale, venne assegnato alla Direzione Generale per l’Istruzione Tecnica presso il Ministero della P.I. . A partire dal 1° giugno 1984 ebbe costantemente il ruolo di coordinatore della Segreteria Tecnica degli ispettori centrali. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Morì prematuramente il 22 dicembre 1997</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 25 luglio 2007, nel decennale della sua morte, fu commemorato dal prof. Donato Valli. Questi, tratteggiando la figura di Donato Moro, uomo, riferì un’esperienza personale risalente a molti anni prima, quando da neo-laureato aveva partecipato al concorso per un posto di “ordinatore” presso la Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce. Concorso pubblico questo che si riteneva sarebbe stato vinto dal candidato più raccomandato. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma ciò non avvenne!</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Infatti l’Assessore Provinciale alla P.I. Donato Moro, in qualità di presidente della Commissione Esaminatrice, dimostrando notevole levatura morale e indiscutibile onestà umana e professionale, riuscì a far valutare con equità tutti i concorrenti, per cui vinse il concorso il più bravo (Valli) e non il solito pluri-raccomandato.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il prof. Valli definì Donato Moro uomo semplice e povero, la cui esistenza era stata caratterizzata da sensibilità, umanità e incapacità a risentimenti. Perciò era stato amico di tutti. Per mettere meglio in evidenza tali doti lesse anche le ultime due terzine della seguente poesia in dialetto magliese di Nicola G. De Donno, intitolata “Dunatu Moru” (V. Nicola G. De Donno, Mumenti e trumenti, Lecce, 1980, p. 55).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">«Dunatu Moru, a ffiate jeu me penzu / ca tie sine, ca si’ nnu Moru santu / nu ll’àutru, lu puliticu, ca cquantu / ca lu rispettu mortu, troppu ggenzu</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Li fumulèane, se tantu dae tantu. / E’ mmortu, dicu, e pperciò me dispenzu / cu ccuntu; ma però cinca sta a mmenzu / a lli ngranaggi, po’ mmurire santu?</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La mente toa, parole nu nne vinni, / nu ncucchi sordi, nu tte tramenzani / cu ttiri voti, nu ssali e nu scinni</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">scale. L’oi bbene a tutti li cristiani, te àprene le razze li piccinni, l’animali te lliccane le mani.»</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">[Donato Moro, a volte io penso / che tu sì che sei un Moro santo, / non l’altro, il politico, che per quanto lo rispetti da morto, troppo incenso // </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">gli turibolano, se tanto dà tanto. / E’ morto, dico, e perciò mi astengo / dal parlare; però chi sta in mezzo / agli ingranaggi può morire santo? // </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La tua mentalità è che non vendi parole, / non accumuli denaro, non ti intrallazzi / per tirare voti, non sali e non scendi // </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">scale. Vuoi bene a tutte le persone, / ti spalancano la braccia i bambini, / gli animali ti leccano le mani.]</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Nella presentazione di Moro poeta, il prof. Valli ha ricordato che egli cominciò a pubblicare sporadicamente su riviste e giornali periodici. Dopo uscì il volume “Segni nostri” (Ed. Lacaita, Manduria, 1993), importante raccolta di liriche di con la prefazione di Oreste Macrì.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quattro anni dopo ci fu la pubblicazione, a cura di Luigi Blasucci, di un’altra raccolta, intitolata “A Giovanna detta anche Girmi” (Ed. M. Pacini Fazzi, 1997). Dopo la sua morte, sono state pubblicate le raccolte “Dicembre è ritornato” (Supplemento del periodico “Presenza Taurisanese”, Taurisano, 1996) e, a cura di Gino Pisanò “Antologia Poetica (Ed. M. Congedo, Galatina, 2004). </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Il prof. Valli sostiene fra l’altro che dai versi di Donato Moro emergono:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il senso morale della poetica;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il senso dell’amore vissuto più letterariamente che come passione;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>un’impostazione che diventa impressionistica per quel che riguarda il Salento.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Soprattutto nelle prime liriche (risalenti agli anni 50) è presente il riferimento al mondo classico (catulliano, oraziano ecc.), ma in un contesto moderno, che ha ben assorbito l’antica tradizione letteraria nella fattura del verso. Quindi, secondo Valli, Donato Moro è un classico in veste moderna: egli è preso dal ritmo, la manipolazione della musica lo affascina, ma nei suoi versi non c’è nulla di forzato, perché il modello classico rappresenta per lui il mondo della serena gioia, dell’armonia dei contenuti, della consolazione dei concetti.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli non gioca sulla forma, cioè sul formalismo poetico, né sulle sonorità esterne, sulle assonanze, ma gioca soprattutto sui contenuti.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Nostro, ricordato come poeta dal prof Valli, è stato anche autore di opere storico-letterarie, e in particolare di: “Per l’autentico Antonio De Ferraris Galateo” (Ed. Ferraro, Napoli, 1990) e “ Hydruntum / fonti documenti e testi sulla vicenda otrantina del 1480”, in 2 tomi , a cura di Gino Pisanò (Ed. Congedo, Galatina 2002).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">2 - Per un breve periodo il Nostro fu molto attivo come politico, in quanto nelle Elezioni provinciali del 1956 fu eletto Consigliere ed ebbe quindi la possibilità di partecipare a quella che può essere considerata la più importante realizzazione culturale della Provincia, ossia l’istituzione dell’Università di Lecce[2]. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">3 - Infatti del nuovo Consiglio Provinciale faceva parte l’avv. Luigi Martino Caroli, il quale fu confermato nella carica di presidente. Questi, che nel precedente mandato aveva strenuamente sostenuto l’istituzione dell’Università, nel costituire la nuova Giunta nominò il neo-consigliere Donato Moro assessore per istruzione pubblica, sport, turismo, consorzio universitario. Inoltre gli conferì l’incarico di rappresentare la Provincia in seno all’Assemblea ed al Consiglio Direttivo del Consorzio Universitario ed anche la delega a firmare gli atti relativi all’amministrazione del Consorzio e a sorvegliare uffici ed impiegati della stessa, in caso di assenza o impedimento del Presidente. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il presidente Caroli era, dunque, sicuro di aver trovato in Donato Moro, laureato con lode presso la Scuola Normale di Pisa e già vincitore di più concorsi per l’insegnamento nelle Scuole secondarie, la persona veramente in grado di contribuire alla realizzazione della titanica opera intrapresa dalla Provincia.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">E non si sbagliava! </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Infatti il Nostro, all’età di 32 anni, con la sua indole gioviale e volitiva cominciò a dedicarsi alla soluzione dei problemi grandi e piccoli dell’Università di Lecce con un entusiasmo e una determinazione atti ad assicurargli sulla stampa, come si vedrà, la fama di assessore “fattivo e dinamico”. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Un primo importante impegno gli fu imposto da una situazione di fronte alla quale lo stesso Caroli era piuttosto titubante. Urgeva, infatti, evitare che la neonata facoltà di Magistero fosse squalificata agli occhi del Governo e del mondo accademico dall’improvvida gestione di colui che ne era stato preposto, il quale andava perciò rimosso da ogni incarico. Azione questa proposta da Donato Moro ed attuata dal Consiglio Provinciale per l’insistenza dello stesso, il quale peraltro era fermamente convinto che, per assicurare il massimo decoro al neonato Ateneo leccese, era innanzitutto necessario costituire due Comitati Tecnici veramente autorevoli, uno per Magistero e un altro per Lettere, chiamando a farne parte cattedratici di chiara fama. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Pertanto egli non esitò a spendere la stima ed il credito personali, di cui ancora godeva nell’ambiente universitario di Pisa, per assicurare l’adesione dei proff. Giambattista Picotti, docente emerito di storia, e Antonio Traglia, ordinario di letteratura latina, all’istituendo Comitato Tecnico della facoltà di Lettere, e del prof. Alberto Mori, ordinario di geografia, che sostituirà il prof. P. F. Palumbo nel Comitato Tecnico di Magistero. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Inoltre anche con l’aiuto dei predetti si riuscì ad ottenere l’adesione per il C.T. di Lettere del prof. Raffaele Spongano, ordinario di letteratura italiana nell’Università di Bologna, e per quello di Magistero del prof. Giuseppe Codacci Pisanelli, straordinario di diritto amministrativo a Bari, e del prof. Vincenzo Ussani, straordinario di letteratura latina a Cagliari, il quale subentrerà al prof. Giovanni Calò, impossibilitato a compiere periodicamente il viaggio da Firenze a Lecce e viceversa. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’assessore Moro, ove necessario, stimolava in tutti i modi, senza risparmiare fatica e tempo propri, la partecipazione alle assemblee del Consorzio Universitario Salentino dei Sindaci e degli altri componenti, dai quali pretendeva anche il puntuale pagamento dei contributi finanziari pattuiti.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli nell’autunno del 1956 ebbe un ruolo centrale nel gruppo di coloro che sostenevano in seno al Consorzio l’immediata apertura della Facoltà di Lettere, in opposizione a quanti invece proponevano una dilazione, sperando che in futuro forse sarebbe stato possibile il contemporaneo avvio dei corsi di lettere e di giurisprudenza.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Inoltre era sempre pronto a cercare di convincere i giovani ad iscriversi alla Libera Università, assicurando loro il proprio incessante impegno per ottenerne presto il riconoscimento legale. In particolare, prima dell’apertura della facoltà di Lettere (8 gennaio 1957), ben 12 giovani di Galatina vi si erano iscritti, perché da lui consigliati.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto il 19 maggio 1957 s’insediò il nuovo Governo nazionale, presieduto dal sen. Adone Zoli. In questo il ministro della P.I. fu l’on. Aldo Moro, nato a Maglie (LE) e docente molto apprezzato di Filosofia del Diritto presso l’Università di Bari, il quale inviò il 17 giugno successivo ai Rettori delle Università e ai Direttori degli Istituti di Istruzione Superiore la seguente circolare: </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">«Come alle SS. VV. è noto, non infrequentemente Enti ed Organizzazioni locali promuovono l’istituzione di corsi d’insegnamento a carattere universitario, che non s’inquadrano nei principii direttivi cui, conformemente ai voti del Consiglio superiore, questo Ministero si va attenendo per quanto concerne l’istituzione di nuove Università o Facoltà.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Pertanto questo Ministero – ad evitare che nel pubblico e, in particolare, fra gli studenti abbiano a sorgere erronee previsioni – non ha mancato di render noto più volte che nessun valore legale è da attribuirsi ai corsi in questione, agli studi che vi si compiono, agli esami che vi si sostengono ed ai titoli che fossero eventualmente rilasciati.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Questo Ministero, inoltre, nell’esprimere il proprio vivissimo rincrescimento per l’inopportunità di siffatte iniziative, ha ritenuto di dover far presente che ben più meritorie e fruttuose sarebbero, nel quadro delle istituzioni universitarie, quelle attività di Enti locali che fossero intese a potenziare gli organismi esistenti sia mediante contributi alle Università viciniori, sia mediante la creazione di Collegi universitari, nei quali potrebbero essere soddisfatte, e in modo più adeguato, le aspirazioni degli studenti meritevoli, le cui famiglie non risiedano in città sedi di Università.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Gravissima è poi la circostanza che alcuni professori di ruolo delle Università e degli Istituti d’Istruzione Superiore svolgano la loro opera – con incarichi d’insegnamento o in altre forme – presso le istituzioni private di cui trattasi. Tale collaborazione di professori universitari ad iniziative sulle quali non possono non formularsi le più decise riserve, mentre non si concilia con gli obblighi didattici che i professori stessi sono tenuti ad adempiere presso gli Atenei cui sono organicamente assegnati, contribuisce notevolmente ad alimentare, nel pubblico e negli studenti, infondate speranze.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tutto ciò premesso, questo Ministero – sentita anche la Sezione Prima del Consiglio Superiore – ritiene opportuno pregare le SS. VV. di voler richiamare su quanto sopra la più viva attenzione dei professori predetti, invitandoli ad astenersi dal dare la propria opera, sotto qualsiasi forma ai corsi in questione»[3]. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In questa comunicazione ministeriale, inviata alle Autorità accademiche nazionali, mancava solo un esplicito riferimento alla situazione leccese, ma vi si ravvisavano chiaramente elementi legati al malanimo dei baresi nei riguardi di Lecce sia nella segnalazione della mancanza di valore legale dei titoli rilasciati dalla neonata Università libera, sia nel consiglio a potenziare organismi già esistenti mediante contributi agli Istituti universitari di sede viciniore o creando in questa collegi per gli studenti salentini meritevoli costretti soggiornavi per seguirne le lezioni. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Per il resto, poiché nessuna legge vietava ai professori degli Atenei statali di insegnare anche presso Istituti privati o di esserne membri di comitati tecnici, il Ministero della P.I. si limitava a “pregare” i Rettori affinché “invitassero” i docenti “ad astenersi dal dare la propria opera” alle Università libere. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quindi l’atteggiamento ministeriale nei confronti dell’Università di Lecce era ormai affine a quello degli ambienti politico-culturali baresi, atteggiamento quest’ultimo da sempre condiviso dall’on. prof. Aldo Moro, come aveva potuto constatare anche il di lui parente Donato Moro, allorché in privato gli aveva inutilmente chiesto consiglio ed aiuto per la soluzione dei tanti problemi che doveva affrontare in qualità di assessore provinciale alla P.I. e di membro del C.U.S. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La sopra riportata circolare, indirizzata dal Ministero della P.I. ai Rettori universitari il 17 giugno 1957, venne pubblicata (e non certo per caso) il giorno successivo e senza alcun commento soltanto dal quotidiano barese ‘Gazzetta del Mezzogiorno’. La stessa, però, nei giorni e nei mesi successivi, fu ripresa da altri periodici e commentata con riferimenti quasi sempre aspramente negativi nei confronti dell’Università di Lecce e dei suoi promotori. In particolare sul ‘Giornale dell’Università’, organo bimestrale degli Atenei d’Italia, il filosofo Emilio Paolo Lamanna e il latinista Nicola Terzaghi pubblicarono articoli[4], i quali avrebbero dovuto essere in difesa della migliore tradizione universitaria e culturale italiana, ma a causa della violenta velenosità di cui erano intrisi, finivano con l’essere solo a tutela di un malinteso spirito di corpo. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto sulle stesse pagine del ‘Giornale dell’Università’ interveniva anche il prof. G. B. Picotti, il quale, pur mantenendo generali riserve sull’opportunità di creare nuove università, con pacatezza e signorilità sosteneva la particolarità della situazione di Lecce, capoluogo di una provincia molto lontana da Bari per i giovani che volessero raggiungerla in quanto sede del più vicino Ateneo statale, ma soprattutto con una popolazione che non si riconosceva nella restante Puglia ed aspirava ad avere un centro di studi universitari conformi alle proprie tradizioni culturali. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> 4 - Nel 1958 in occasione delle elezioni politiche l’avv. Luigi Martino Caroli, per poter presentare la propria candidatura al Senato della Repubblica, si dimise il 23 marzo da presidente della Provincia. Pertanto il successivo 24 aprile fu eletto dal Consiglio provinciale il nuovo presidente nella persona dell’avv. Girolamo Vergine, il quale nel ricostituire la Giunta provinciale confermò la delega per la P.I. a Donato Moro, del quale gli erano ben noti la capacità e lo zelo amministrativi, nonché la profonda cultura e l’eccellente professionalità. Questi dunque continuò ad occuparsi con rinnovata lena degli impegnativi lavori del Consiglio Direttivo del Consorzio Universitario, tendenti ad ottenere il riconoscimento giuridico delle Facoltà di Magistero e di Lettere e Filosofia.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A tal proposito proprio nel maggio 1958 venne predisposta dal Comitato Tecnico di Lettere (Picotti, Spongano, Traglia) la ‘relazione’ per esporre al Ministro della P.I. motivazioni e finalità che avevano portato all’istituzione della Università Libera di Lecce, risorse economiche ed umane di cui la stessa poteva disporre, nonché i traguardi raggiunti nel primo triennio della sua esistenza. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel testo definitivo del suddetto documento vennero quindi riferite le caratteristiche peculiari del Salento e l’antica aspirazione dei salentini ad avere in Lecce un centro di studi universitari. Aspirazione questa rimasta ancora inappagata, mentre la Terra di Bari già nel 1925 aveva ottenuto l’Università Adriatica. Pertanto nel 1955 era stato costituito il Consorzio Universitario Salentino, il quale, rinunciando all’istituzione di Facoltà scientifiche a causa dell’onere economico che esse comportavano, aveva creato (nel rispetto dell’art. 33 della Costituzione e col supporto di due autorevoli Comitati Tecnici) la Facoltà privata di Magistero nel 1955-56 e quella di Lettere nel 1956-57.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">All’insegnamento erano stati chiamati liberi docenti meritevoli di fiducia dal punto di vista scientifico e didattico, nonché cattedratici di Università statali, al fine di imprimere alle nuove Facoltà un carattere di particolare serietà.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nell’a.a. 1957-58 l’Università di Lecce già offriva alle Autorità governative concreti elementi di giudizio, infatti gli iscritti, tutti frequentanti con assiduità, erano 301 per i primi tre anni di Magistero e 40 per i primi due anni di Lettere, i quali sarebbero stati senz’altro più numerosi se ci fosse stato il riconoscimento legale.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Comunque le suddette frequenze, pur essendo effettuate senza la certezza del valore legale degli studi, si concludevano con esami affrontati e superati “con esito buono e talvolta eccellente”. Ciò dimostrava l’amore per il neonato Ateneo e la fiducia per il suo avvenire, che animavano non pochi giovani, forniti di abilitazione magistrale o di maturità classica ma privi delle risorse economiche per soggiornare a Napoli o a Bari al fine di frequentare Magistero o Lettere. Essi, infatti, in mancanza dei corsi universitari a Lecce, nel migliore dei casi avrebbero potuto laurearsi “…fra stenti e sconforti con una preparazione compiuta a casa, lontano dai maestri…”. Perciò il Consorzio Salentino aveva voluto l’Università a Lecce per “…metterla a portata di mano di quella parte della massa studentesca a cui era (fin allora) rimasta meno accessibile, e favorire in loco gli studi e le ricerche su quanto del patrimonio civile di questa terra era rimasto…confinato al margine della cultura nazionale o abbassato al livello di quella dilettantesca e provinciale; laddove in tutti i campi, dalla archeologia alla linguistica, dalle arti alla letteratura, dalla geografia alla storia e allo sviluppo del pensiero che la alimenta, esso vanta non solo un corso millenario ma un significato il cui valore merita di essere messo in luce nella coscienza della Nazione e nel campo dell’alta cultura” .</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La ‘relazione’, inviata al Ministro il 4 giugno 1958, si concludeva con queste affermazioni: </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">«Il Consorzio non domanda se non il controllo, la sanzione e l’illuminato consiglio dei pubblici poteri.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Esso è disposto a sostenere senza contributo statale l’onere che il mantenimento e lo sviluppo della istituzione comportano». </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">5 - Intanto, uscito di scena il Governo Zoli (1° luglio 1958), l’on. Aldo Moro veniva confermato ministro della P.I. nel subentrante Esecutivo presieduto dall’on. Amintore Fanfani, il quale però intendeva varare un piano decennale della Scuola nell’ambito di un’ipotesi di sviluppo economico basato sulla crescita del capitale umano, della tecnologia e della ricerca scientifica. Per questo in seno al Ministero andava emergendo un generale orientamento in un certo senso favorevole al riconoscimento giuridico dell’Università di Lecce, il quale però nel dicembre 1958 (cioè a circa sei mesi dall’invio della sopraccitata relazione) non era stato ancora concesso. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Pertanto l’Assemblea del C.U.S., riunitasi il giorno 15 di detto mese, approvò all’unanimità l’importante ordine del giorno, proposto dal prof. G. B. Picotti, decano dei membri dei Comitati Tecnici, che si riporta integralmente qui di seguito:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">« L’Assemblea del Consorzio Universitario Salentino,</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">tenuto presente che fin dal 4 giugno 1958 fu diretta al Ministro della P.I. una domanda intesa ad ottenere il ‘riconoscimento giuridico della Libera Università di Lecce’, accompagnata da una ampia relazione e da relativa documentazione;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">considerato che l’Università di Lecce esiste da tre anni per la facoltà di Magistero e da due per la facoltà di Lettere e Filosofia con sede propria, dignitosa e funzionale; che tale esistenza de facto fu determinata dal non esservi secondo le norme che regolano l’ordinamento Universitario alcun altro modo possibile per creare una di quelle Università libere, delle quali il T. U. delle Leggi Universitarie…ammette e disciplina l’esistenza e il funzionamento e che tale procedura fu seguita negli ultimi anni dall’Università Cattolica, dall’Università di Bari, dagli Istituti di Magistero di Genova, de L’Aquila e di Salerno; che il funzionamento dell’Università di Lecce è stato in questi anni regolare e gli iscritti nelle due facoltà hanno frequentato assiduamente i corsi e sostenuto esami con risultati qualificati eccezionali da illustri docenti dell’Università; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">ritenuto che sia ora urgente provvedere al riconoscimento ove l’Università lo meriti, sia perché gli alunni iscritti alla Facoltà di Magistero per il corso di Vigilanza hanno già superato il triennio e superato gli esami prescritti per conseguire il diploma e attendono il rilascio di un diploma giuridicamente valido, e gli iscritti agli altri corsi del Magistero aspettano di poter sostenere nelle sessioni dell’anno accademico in corso l’esame di laurea, sia perché gli studenti di lettere sono trattenuti dall’iscriversi o dal rinnovare l’iscrizione per l’incertezza sulla validità futura dei loro studi e per il fatto che l’iscrizione a Lecce li esclude dal beneficio del rinvio del servizio militare, rinvio necessario per la continuità dei loro studi,</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">chiede</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- al Ministero della P.I. che, ove ritenga necessario sentire il parere del Consiglio Superiore sulla domanda presentata dal Consorzio Universitario Salentino, ne ponga l’oggetto all’ordine del giorno del Consiglio;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- al Consiglio Superiore che non voglia pregiudicare la questione specifica dell’Università di Lecce, già esistente e fiorente, con eventuale parere generico contrario, senza alcuna restrizione o eccezione, a nuovi Istituti Universitari;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- al Ministro e alla Direzione Generale della Istruzione Superiore che provvedano con la maggiore sollecitudine all’invio di Ispettori, che riferiscano sulla situazione economica dell’Università di Lecce, sul suo funzionamento didattico e sulle prospettive per l’avvenire, sicché il Consiglio Superiore possa poi esprimere il suo parere e possa il Ministro decidere con </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">cognizione di causa;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">attende</span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: inherit; text-align: justify;">fiduciosamente il giudizio degli Ispettori, il parere definitivo del Consiglio Superiore e le decisioni del Ministro;</span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: inherit; text-align: justify;"><br /></span></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: inherit;">rinnova</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">infine l’impegno di provvedere alle spese inerenti l’Università con le sole forze del Consorzio, senza alcun contributo statale. » [5]</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I contenuti e lo stile del sopra riportato documento sono indice dell’eccezionale competenza e dello scrupoloso impegno, con cui svolgevano la propria funzione di guida e di sostegno ai corsi universitari leccesi gli autorevoli membri dei Comitati Tecnici, a suo tempo cooptati tramite l’assessore Donato Moro.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nell’ordine del giorno approvato erano messe in evidenza la funzionalità della sede universitaria, la regolarità dei corsi affidati ad illustri docenti, e la frequenza assidua degli studenti (tra i quali c’erano anche quelli di Vigilanza Scolastica, che, avendo completato il previsto corso triennale, dovevano solo sostenere l’esame per il diploma), ma nello stesso tempo veniva denunciato, sia pure con molto garbo, il torpore degli uffici ministeriali che in oltre sei mesi (ossia dal 4 giugno al 15 dicembre 1958) non avevano neppure richiesto al Consiglio Superiore della P. I .il prescritto parere sull’istanza presentata dal C.U.S. . </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A questo proposito il giornalista Carlo Patrizi il 16 dicembre 1956 a pag. 10 del quotidiano Momento-sera scriveva fra l’altro: </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">« All’ordine del giorno del prof. G. B. Picotti…, votato all’unanimità da tutta l’Assemblea del Consorzio, noi dal canto nostro non aggiungiamo nulla, ed aspettiamo ed…aspettiamo che una buona volta per sempre questo benedetto…Ministro della P.I. si decida a riconoscere l’Università di Lecce. I sacrifici che si stanno sopportando sono immensi, come immenso è il coraggio del presidente, avv. Girolamo Vergine, che unitamente all’assessore alla P.I. presso l’Amministrazione Provinciale di Lecce, il fattivo e dinamico prof. Donato Moro, si stanno adoperando per il riconoscimento giuridico dell’Università leccese. Ma cosa si aspetta per farlo? </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> L’o.d.g. parla chiaro ed i fatti anche. Il ministro prof. Aldo Moro deve avere il coraggio civico di dare il suo autorevole benestare, e forse solo allora egli avrà dimostrato di essere un vero ministro. Non si preoccupi, l’Università di Lecce non intaccherà minimamente gli interessi di nessuna città. Il miracolo avverrà?…». </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’autore di questo brano, quando dice “…I sacrifici che si stanno sopportando sono immensi…”, si riferisce anche al fatto che già nel 1958, per sostenere i costi sempre maggiori dei corsi universitari, il contributo che Comuni e Province avevano liberamente scelto di corrispondere al Consorzio Universitario, e che inizialmente era stato fissato in £ 10 per abitante, era stato gradualmente aumentato, arrivando a £ 40 per abitante nel bilancio di previsione per l’e.f. 1958. In questo, infatti, per la Facoltà di Lettere e Filosofia e per quella di Magistero erano rispettivamente previste la spesa di £ 23.830.000 e quella di £ 21.251.000, il cui totale era all’incirca uguale al metà della somma di £ 90.170.000 che rappresentava il totale del bilancio della Provincia di Lecce, previsto per il 1958.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma il “miracolo” sperato dal suddetto giornalista non arrivò neppure con la presentazione al Ministro della P. I. dell’o.d.g. Picotti. Perciò il pressing di tutti i settori politici e culturali salentini sullo stesso divenne incessante. In particolare all’inizio del 1959 il presidente della Commissione Igiene e Sanità della Camera dei Deputati, on. Beniamino De Maria, amico fraterno di Donato Moro, ebbe un colloquio con l’on. Aldo Moro che immediatamente scrisse una lettera al Presidente della Sezione Prima del Consiglio Superiore della P.I. per sollecitarlo a far ispezionare l’Università Libera di Lecce. E qualche giorno dopo il medesimo on. De Maria venne a conoscenza dei nomi di sei membri di detto Consiglio scelti per la tanto attesa ispezione. Ma di questi uno solo accettò l’incarico e l’intera operazione si arenò.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intanto l’on. Aldo Moro in data 15 febbraio 1959 cessava di essere Ministro della P.I., a causa delle dimissioni del 2° governo Fanfani, a cui apparteneva. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’esecutivo subentrante era presieduto da Antonio Segni che affidò all’emiliano on. Giuseppe Medici il Ministero della P.I. .</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Una Commissione ispettiva ministeriale, costituita da personalità estranee al Consiglio Superiore, fu a Lecce dal 18 al 20 maggio 1959 e, nella relazione al Ministero, da un lato dichiarava la propria indagine estranea ad esprimersi sull’opportunità di aumentare le Facoltà universitarie, dall’altro esprimeva fiducia che l’Università di Lecce avrebbe potuto assolvere un importante ruolo nel Sud, poiché gli Enti locali l’avevano creata e strutturata con coraggio, larghezza di mezzi e serietà, rifiutando il provvisorio e l’approssimativo.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Purtroppo nel luglio del 1959 la Sezione Prima del Consiglio Superiore della P. I., esaminata la relazione degli ispettori, espresse parere negativo all’istituzione a Lecce delle Facoltà di Lettere e di Magistero, ritenendola non rispondente agli interessi generali degli studi e dell’istruzione superiore. D’altronde non ci si poteva aspettare di meglio, poiché in generale detto Consiglio era contrario al sorgere di nuove Università e addirittura ostile a nuove Facoltà umanistiche, ritenendo le stesse potenziali fabbriche di disoccupati.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Mentre questo provocava amarezza e delusione nell’Amministrazione Provinciale di Lecce e nel Consorzio Universitario, i parlamentari salentini intraprendevano un’energica azione a sostegno del diritto del Salento ad avere l’Università. Tale iniziativa incontrò il favore del Ministro Giuseppe Medici che, fra l’altro, era del parere che occorreva «…liberarsi dal preconcetto che in Italia vi sono troppe Università e soprattutto troppi studenti universitari, e perciò bisogna esaminare con comprensione le iniziative di contrade i cui studenti, mancando l’Università, vanno a sovraffollare le altre con danno generale…»[6]. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 27 settembre, in occasione di una manifestazione della Democrazia Cristiana, venne a Lecce il presidente Antonio Segni, il quale ai rappresentanti della Provincia (tra i quali c’era in prima fila Donato Moro), della Libera Università, degli studenti e dei loro genitori (riuniti in associazione), che gli manifestavano i gravi disagi dovuti al mancato riconoscimento giuridico delle Facoltà di Lettere e di Magistero, assicurò una sollecita e completa soluzione della vicenda. Pochi giorni dopo lo stesso Capo del Governo in un telegramma al segretario provinciale della D.C., Giacinto Urso, confermava il proprio interessamento assicurando la piena disponibilità dell’on. Medici a risolvere il problema universitario di Lecce. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nell’ultima decade dell’ottobre 1959 dal Ministero della P.I. filtrò la notizia secondo la quale, contrariamente a quanto verbalmente era stato assicurato dal presidente Segni, il Governo era sul punto di riconoscere legalmente la sola facoltà di Magistero, accogliendo dunque parzialmente la richiesta avanzata dal Consorzio Universitario il 4 giugno 1958. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tale informazione fu immediatamente presentata come “grandiosa vittoria” in un manifesto fatto affiggere in tutta la Provincia dalla Democrazia Cristiana. Di conseguenza il presidente G. Vergine ed alcuni consiglieri democristiani, durante la seduta del Consiglio Provinciale che ebbe luogo il 2 novembre 1959, proponevano che si ringraziasse ufficialmente il Governo per aver concesso il riconoscimento giuridico a Magistero e nel contempo si facessero voti al fine di ottenere analogo trattamento per la facoltà di Lettere e Filosofia. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Invece l’assessore Donato Moro in un veemente intervento dichiarò fra l’altro: « Nessun ringraziamento, ma una viva protesta per quanto non è stato concesso. Non facciamoci illusioni, il Magistero è un istituto superiore a sé, e non è l’Università che noi chiedevamo e per la quale abbiamo investito decine di milioni e tutto il nostro impegno»[7]. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Questo diede il via ad un’accesa discussione, durata oltre due ore, che si concluse con l’accettazione della proposta fatta dal capogruppo comunista, Giorgio Casalino, di costituire una Commissione unitaria, che affiancasse il prof. Moro nel compito di vedere quanto era stato fatto e quanto sarebbe stato utile e necessario fare ancora per ottenere anche l’agognato riconoscimento giuridico della facoltà di Lettere. Ed alla fine votò contro la proposta Casalino soltanto il consigliere del P.S.D.I., Luigi Aprile.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nell’ultimo scorcio dell’anno 1959 grande fu l’impegno dei salentini affinché quel che era stato ottenuto per la Facoltà di Magistero fosse esteso dalle autorità competenti anche a quella di Lettere e Filosofia. A tal fine si mobilitarono, premendo in tutte le direzioni, i parlamentari e le autorità locali, i membri del Consorzio Universitario e gli studenti. Questi ultimi si appellarono addirittura al Capo dello Stato. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">6 - Il 19 dicembre 1959 il Consiglio Direttivo del Consorzio Interprovinciale Universitario Salentino si riunì sotto la presidenza dell’avv. Girolamo Vergine e con la partecipazione dei professori Picotti, Spongano, Mori, Ussani, Codacci Pisanelli, Moro e Bonea, del dott. Moscardino, dell’avv. Camassa, dell prof. Falconieri e del segretario Di Bendetto.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Presidente relazionò sul decreto di riconoscimento della Facoltà di Magistero (disposto il 22 ottobre u.s., ma non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, in attesa dell’approvazione da parte del Consorzio dello Statuto della stessa facoltà), il quale però lasciava impregiudicate le istanze universitarie cui si continuava a tendere. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Pertanto il Consiglio deliberò innanzitutto che un’ulteriore richiesta di appoggio fosse rivolta a tutti i parlamentari salentini, affinché sollecitassero l’accoglimento governativo di dette istanze.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Intervenne poi il prof. Raffaele Spongano che espose il nuovo piano didattico-finanziario della Facoltà di Lettere, alla quale per l’a.a. 1959-60 si erano già iscritti 55 studenti, contro i 26 dell’anno precedente. Seguì un intervento del prof. Alberto Mori, il quale fece presente che nell’a.a. 1959-60 gli ammessi al 1° anno di Magistero erano 256, perciò il numero totale degli studenti di tale facoltà era salito a 617.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Successivamente nel salone del Consiglio Provinciale si riunì l’assemblea del Consorzio Universitario, che approvò lo Statuto dell’Istituto di Magistero, il piano didattico finanziario delle due Facoltà e la nomina di nuovi docenti, il bilancio di previsione per l’a.a. 1959-60 e l’istituzione di n. 10 borse di studio di lire 50.000 ciascuna. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’assemblea si concluse con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato dai proff. Donato Moro ed Ennio Bonea, che si trascrive qui di seguito integralmente:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">« <span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>L’Assemblea del Consorzio Universitario Salentino,</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- udita la relazione del Presidente, che comporta l’ottenuto riconoscimento della Facoltà di Magistero e la convalida degli studi compiuti e degli esami sostenuti dagli studenti iscritti nei tre corsi della Facoltà di Lettere; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- mentre si compiace del riconoscimento della Facoltà di Magistero e ringrazia i componenti dei Comitati tecnici, che hanno permesso uno sviluppo notevole e dignitoso dei corsi dal punto di vista accademico e culturale; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- approva ed applaude l’operato del Consiglio Direttivo, che ha saggiamente distribuito la sua attività per il buon andamento amministrativo del Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- dichiara di non considerare soddisfatte le istanze universitarie della popolazione salentina sino al totale riconoscimento dell’Università degli Studi;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- afferma la volontà che la Facoltà di Lettere porti avanti il suo corso con lo stesso serio impegno degli anni decorsi; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- raccomanda al presidente del Consorzio, ai Comitati tecnici, ai Parlamentari salentini di continuare a far presente al Capo dello Stato, al Ministro della Pubblica Istruzione e al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione la legittimità della richiesta del Salento in un momento in cui la Scuola Italiana denuncia una sensibile carenza numerica della classe insegnante;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">- tenute presenti le motivate ragioni espresse nella relazione allegata alla richiesta di riconoscimento, perché un atto di giustizia si compia nei confronti del Mezzogiorno, che ancora una volta chiede di sacrificarsi nel supremo interesse della cultura e a contributo dell’edificazione spirituale della Nazione»[8]. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">7 - Il lungo e travagliato iter per il riconoscimento giuridico dell’Università Libera di Lecce si concluse finalmente il 10 giugno 1960 con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del D.P.R. 22 ottobre 1959, n. 1408, il cui articolo unico (risultato definitivo di vari rimaneggiamenti, avvenuti in oltre 7 mesi) viene riportato integralmente qui di seguito:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">« E’ istituita in Lecce una libera Università, costituita dalle Facoltà di lettere e filosofia e di magistero, mantenuta a totale carico del Consorzio Universitario Salentino, appartenente alla categoria di cui al n. 2 dell’art. 1 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore, approvato con regio decreto 31 agosto 1933, n.1592.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> E’ approvato il relativo statuto annesso al presente decreto e firmato d’ordine del Presidente della Repubblica dal Ministro della pubblica istruzione.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica Italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Dato a Roma, addì 22 ottobre 1959</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">GRONCHI</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Medici </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tambroni»</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Proprio dopo il giugno 1960, in seguito a nuove votazioni per l’elezione del Consiglio Provinciale, ebbe fine l’incarico di Assessore Provinciale alla P.I. a suo tempo conferito al prof. Donato Moro, il quale potrà poi ben dire: «…dal 1956…credo di aver servito il prossimo con abnegazione e con spirito di sacrificio. Non presumo di aver svolto alla perfezione i miei compiti…ma so di aver offerto, al servizio del partito e dell’elettorato, le mie giornate, il mio tempo, le mie capacità pratiche ed intellettive…»[9].</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Come si evince dalla relazione sopra riportata Donato Moro è stato tra i protagonisti delle complesse operazioni, che sono state necessarie per dare al Salento una università giuridicamente riconosciuta.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Pertanto è del tutto comprensibile la delusione del Nostro per non essere stato invitato alle celebrazioni del 30° Anniversario dell’istituzione dell’Ateneo del Salento, che ebbero luogo il 2 ottobre 1987. </span></div>
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 115%;"></span><br /></span>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Di questo egli esprimeva il suo rammarico in una lettera del precedente 19 settembre, indirizzata all’on. Giacinto Urso, la quale si concludeva con la seguente significativa affermazione: «… Una creazione come quella dell’Università richiese, a diversi livelli, l’opera di molti. Ma in mezzo a quei molti ci fui anche io.» </span></div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<h2>
<span style="font-family: inherit; line-height: 115%;"><b>Conclusioni</b></span></h2>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Alle riflessioni sul passato e sul presente di Galatina, con cui ha inizio il presente scritto, segue la presentazione delle interessanti note biografiche relative a otto illustri galatinesi dei secoli XIX e XX. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le prime riguardano la crescita della città e il successivo completo degrado che ha determinato una crisi sociale ed economica, la quale è causa di disoccupazione. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Questa, costringendo i giovani all’emigrazione, produce l’invecchiamento della popolazione residente.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Presentando le seconde sono stati evidenziati:</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>la solidarietà e l ’amore per i poveri di Orazio Congedo;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’attenzione per la scuola di Giustiniano Gorgoni; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’impegno professionale di medico e la capacità di amministratore di Vito Vallone; </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>le innovazioni educative di Ippolito De Maria;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>la molteplice attività di Sante De Paolis in capo sanitario;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>il grande impegno politico di Beniamino De Maria;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>le innovazioni in capo ortopedico di Domenico Galluccio;</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">-<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>l’impegno di Donato Moro per la promozione culturale del Salento, ottenuta con l’istituzione dell’Università di Lecce. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tutto ciò è stato fatto affinché i galatinesi del XXI secolo, specialmente i più giovani, prendano coscienza dei gravi problemi che affliggono la propria città e quindi s’impegnino responsabilmente alla risoluzione degli stessi, comportandosi come i sopraccitati otto concittadini del passato, i quali nel corso della propria operosa esistenza agirono in maniera veramente esemplare. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; line-height: 115%;"></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: "times new roman" , serif;">Una buona occasione per avviare una concreta ripresa di Galatina possono essere le votazioni per l’elezione del Sindaco e del Consiglio comunale, che avranno luogo nella prossima primavera. In queste i galatinesi devono impegnarsi al massimo per evitare un quarto scioglimento anticipato consecutivo dell’Amministrazione comunale. Quindi devono eleggere persone capaci, oneste e anche</span><span style="font-family: "times new roman" , serif;"> perseveranti nel proposito di operare per il bene e il progresso della città.</span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
</div>
<div>
<!--[if !supportFootnotes]--><span style="font-family: inherit;"><br clear="all" /></span>
<br />
<div style="text-align: right;">
<b><span style="font-family: inherit;">Pietro Congedo</span></b></div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<!--[endif]-->
<br />
<div id="ftn1">
<div class="MsoFootnoteText" style="text-align: justify;">
</div>
</div>
<div id="ftn2">
<!--[endif]-->
<br />
<div id="ftn1">
<div class="MsoFootnoteText" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">__________________________________</span>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span><span style="font-family: inherit;">[1] Il Liceo – Ginnasio “P. Colonna” di Galatina fu regificato (cioè divenne governativo) con R.D. 30 settembre 1907, in virtù del quale il Governo si obbligava a retribuire il personale direttivo, insegnante e di servizio, mentre da un lato l’Opera Pia “P. Colonna” s’impegnava a fornire i locali, il materiale scolastico, quello scientifico e quant’altro occorresse per il buon andamento dell’Istituto, dall’altro il Comune e la stessa Opera Pia si obbligavano a versare annualmente all’Erario la somma di £ 20.122,25 = £ [12.210(da interessi di titoli di Rendita Pubblica appartenenti all’Opera Pia) + 7.912,25(da sovraimposta comunale)].</span><br />
<span style="font-family: inherit;">All’Erario era anche dovuto l’importo fisso annuo di £ 16.000 ricavato con l’imposizione di tasse scolastiche agli studenti. </span><br />
<span style="font-family: inherit;">[2] L’Università di Lecce rappresenta l’ambita meta finale di un secolare processo che si è svolto con alterne vicende per oltre un secolo e mezzo. Infatti è iniziato nel 1796 con l’istituzione da parte dell’ultimo vescovo di Castro, monsignor Francesco Antonio Duca, dell’Università degli Studi di Castro, dotata delle cattedre di agronomia, nautica, teologia morale, teologia dogmatica e Sacra Scrittura, che però già nell'a. a. 1797-98 accusa grave penuria di insegnanti e inarrestabile diminuzione di studenti a causa del massacrante pendolarismo dovuto alla mancanza in loco sia di alloggi che di locali per le lezioni e le altre attività accademiche. Tuttavia la decadenza dell’istituzione diviene irreversibile a causa delle note vicende della Repubblica Partenopea che, proclamata il 23 gennaio 1799,, si arrende il successivo 25 giugno alle bande del cardinale Fabrizio Ruffo.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Dopo tre lustri le popolazioni dell’Italia Meridionale ottengono gli “Statuti dei Reali Licei” del Regno di Napoli, di cui al R.D. 14 febbraio 1816, in virtù dei quali le cattedre sono distinte in liceali e professionali o universitarie, ed anche queste ultime possono essere istituite nei vari licei, i quali così divengono vere e proprie propaggini dell’Università di Napoli, presso la quale devono comunque essere sostenuti gli esani di laurea.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Per esempio nel Liceo di Lecce nel 1852 sono istituite le cattedre di diritto civile e penale, nel 1857 quelle di storia naturale, chimica e farmacia, medicina pratica, materia medica e medicina legale, anatomia e chirurgia e, nel 1858, anche di agronomia.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Il suddetto decentramento è molto favorito del re Ferdinando II dii Borbone che, però, dopo l’attentato compiuto contro di lui da Agesilao Romano (8 dicembre 1856), al fine di evitare assembramenti di giovani nella Capitale limita la frequenza dell’Università ai nati nella provincia di Napoli o in quella di Terra di Lavoro (Caserta), obbligando tutti gli altri a seguire le lezioni impartite da cattedre universitarie esistenti in un liceo della regione di appartenenza e recarsi nell’Ateneo della Capitale solo per sostenere l’esame di laurea.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Questo stato di cose termina con l’annessione delle Provincie napoletane al Regno di Sardegna, infatti con R.D. 10 febbraio 1861 è sancito il passaggio dei licei dal livello dell’istruzione professionale o universitaria a quello dell’istruzione media, con la soppressione di tutte le cattedre universitarie decentrate,</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Inoltre co R.D. 18 giugno 1862 vengono precisate le norme per il conseguimento della Licenza Liceale, titolo necessario per l’ammissione all’Università.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">In questo modo si tende a modellare le Scuole ai principi della Legge Casati, emanata il 13 novembre 1859 per il Regno di Sardegna e resa definitivamente operate nel nuovo Regno d’Italia con la cosiddetta legge Coppino del 1867.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"> La totale scomparsa delle cattedre universitarie decentrate provocata dalla politica scolastica del Governo sabaudo riaccese più forti che mai le aspirazioni le aspirazioni ad avere Istituti Universitari nei propri territori degli abitanti delle Puglie, ossia di Capitanata, della Terra di Bari e della Terra d’Otranto</span><br />
<span style="font-family: inherit;">In particolare politici e gli uomini di cultura di Terra di Bari addirittura costruirono l’edificio per ospitare l’Ateneo. Ma dovettero fare i conti fare i conti con l’ostinata opposizione degli ambienti politici e culturali napoletani, i quali ritenevano che l’Italia Meridionale si identificasse con Napoli.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Tuttavia Bari, dopo aver invano atteso sessant’anni l’Ateneo autorizzato dallo Stato, nel 1922 chiese alle Autorità Ecclesiastiche l’istituzione di una Libera Università Cattolica. Questo indusse il Governo fascista alla concessione della Regia Università Adriatica, intitolata a Benito Mussolini, della quale il primo rettore fu il prof, Nicola Pende.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Questa importante affermazione culturale della società barese, acuì, specialmente nel 2° dopoguerra, l’antica aspirazione del Salento ad avere un’università nel proprio territorio, dove esteso e profondo era sempre stato l’amore per la cultura-</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Ma tale aspirazione, oltre a non essere presa in considerazione dagli uffici ministeriali, era ostinatamente avversata dagli ambienti politici e culturali baresi. Si era quindi in una situazione di stallo, allorché, nei primi anni 50 del secolo XX, il lungimirante direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce, Teodoro Pellegrino, s’impegnò a fondo per orientare la cultura salentina ad uscire dall’auto-appagamento, prendendo coscienza della propria tradizione non inferiore a quella barese. A tal fine sottopose all’attenzione del presidente della Provincia, avv. Luigi Martino Caroli, e dell’assessore provinciale alla P.I., Avv. Vittorio Aymone, un programma di manifestazioni culturali, dette “Celebrazioni Salentine”, le quali avrebbero dovuto concretarsi in cicli di conferenze su temi letterari, musicali, giuridici, storici, psicologici nonché in concerti e in rappresentazioni teatrali. A conclusione ci sarebbe stata con cadenza annuale l’assegnazione del “Premio Salento”, diviso in quattro sezioni: narrativa, poesia, giornalismo e saggistica.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">L’ Amministrazione Provinciale decise di attuare detto programma nella speranza di aggirare l’avversione ministeriale per la creazione di nuove università ed anche l’implacabile ostilità dei baresi.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Il 1° ed il 2° ciclo delle “Celebrazioni Salentine ebbero luogo rispettivamente nei mesi autunnali del 1952 e del 1953. L’ottima riuscita delle stesse indusse la Giunta Provinciale a decidere la creazione di una “Università libera senza oneri per lo per lo Stato”, conformemente al disposto del 3° comma dell’art.33 della Costituzione.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Pertanto il 16 maggio 1955 i Sindaci, i Parlamentari, i Consiglieri provinciali e tuti gli altri esponenti politici di rilievo di Terra d’Otranto, riuniti nello studio del senatore Michele di Pietro, all’epoca ministro di Grazia e Giustizia, definirono un progetto di massima per l’istituzione di detta Libera Università, prevedendo per essa due Facoltà umanistiche (Lettere e Magistero), perché meno costose ed anche in considerazione dell’esistenza nelle Province del Salento di ben 13 licei classici e 4 istituti magistrali con una popolazione scolastica complessiva di circa 10mila alunni</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Il successivo 14 giugno fu costituito il Consorzio Universitario Salentino (C.U.S.), presieduto dall’avv. Luigi Martino Caroli. Al nuovo Ente oltre all’Amministrazione Provinciale, aderirono: i Sindaci di 88 dei 93 Comuni della Provincia, la Camera del Commercio, Industria e Agricoltura di Lecce e l’Ente Provinciale del Turismo. Di esso avrebbero poi fatto parte i membri dei Comitati Tecnici delle istituende facoltà universitarie.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Il C.U.S. fu riconosciuto con decreto prefettizio del 9 settembre 1955, mentre il primo Comitato Tecnico, che provvisoriamente aveva funzione anche di Consiglio di Facoltà, fu nominato il 16 agosto 1955 nelle persone dei professori Giovanni Calò (docente di pedagogia nell’Università di Firenze), Giuseppe Codacci Pisanelli (docente di diritto amministrativo dell’Università di Bari), Pier Fausto Palumbo (ternato nel concorso di storia medioevale nell’Università di Palermo).</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Gli uffici amministrativi e le aule sarebbero stati sistemati nei 54 ampi locali dell’ex sede provinciale della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio). Sito in piazzetta Arco di Trionfo – LECCE, che la Provincia aveva acquistato per darla in comodato all’Università.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">All’unanimità il C.U.S. deliberò di dare inizio all’a. a. 1955.56 per la sola Facoltà di Magistero con i tre corsi di laurea (in materie letterarie, in pedagogia, in lingue e letterature straniere) e col corso per il diploma di vigilanza scolastica.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Il 22 novembre venne inaugurata la Facoltà di Magistero con una prolusione tenuta dal prof. Giovanni Calò sul tema “Cultura, esperienza, magistero educativo”.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Ebbero inizio quindi le lezioni di detto corso, tenute da liberi docenti o da cattedratici che, rimanendo regolarmente in servizio nelle rispettive sedi di titolarità, venivano a Lecce saltuariamente per tenervi almeno 50 ore d’insegnamento in ogni anno accademico, ricevendo per questo una congrua retribuzione oraria.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Intanto gli studenti iscritti e frequentanti erano pienamente consapevoli che gli studi seguiti e gli esami sostenuti non avrebbero avuto alcun valore ufficiale fino a quando no ci fosse stato il riconoscimento giuridico della Facoltà da parte del Governo.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">La Libera Università di Lecce, essendo sorta “senza oneri per la Stato” non poteva contare su alcun contributo governativo, perciò gli Enti che la avevano promossa dovettero accollarsi le spese necessarie al suo funzionamento. A tal proposito il C.U.S deliberò: “ il contributo di ogni Comune consorziato è determinato nella misura di lire 10 per ogni abitante residente nel Comune; quello degli Enti non potrà essere inferiore a lire 200mila annue, mentre quello dell’Amministrazione Provinciale risulterà pari a quello globale corrisposto da tutti i Comuni aderenti al Consorzio”. </span><br />
<span style="font-family: inherit;">[3] V. “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 18 giugno 1957, pag. 5.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">[4] V. “Giornale dell’Università”, n. 6 , nov.- dic. 1959, p. 159; e n. 1 genn.- febb. 1958, pp. 18-25.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">[5] V. “ Momento sera”, martedì 16 dicembre 1958, p. 10.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">[6] V. G. MEDICI, Introduzione al piano di sviluppo della scuola, Roma, 1959,p. 37.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">[7] V. “l’Unità” del 3 novembre 1959, p.4.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">[8] V. “Momento sera”, domenica 22 dicembre 1959.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">[9] V. Lettera datata 18. 10.1964, scritta da Donato Moro al Segretario Provinciale della D.</span><span style="font-family: "calibri" , sans-serif;">C.</span></div>
</div>
</div>
<div id="ftn9">
</div>
</div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-78789973008448752792016-12-10T18:18:00.000+01:002016-12-10T19:07:52.103+01:00Vi racconto la Grande Guerra<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgg_p6AJzEaHa8-ietxAx9NJHDB8n_XwHxSIgvm07kXrZybc-NDtU3vGSJE1HmIJh0ZdEzCtAeOJ-KA3oCUYnCHglCUQlXswtwTIbXoIKLf8CaXvB6o7CYzw6q1PWsKAq5An6schfNWOl_o/s1600/Prima-guerra-mondiale.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgg_p6AJzEaHa8-ietxAx9NJHDB8n_XwHxSIgvm07kXrZybc-NDtU3vGSJE1HmIJh0ZdEzCtAeOJ-KA3oCUYnCHglCUQlXswtwTIbXoIKLf8CaXvB6o7CYzw6q1PWsKAq5An6schfNWOl_o/s400/Prima-guerra-mondiale.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div>
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</a>
</div>
<div>
<br />
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 28.0pt;">LA PRIMA GUERRA MONDIALE<o:p></o:p></span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 20.0pt;">24 maggio 1915 – 4 novembre 1918<o:p></o:p></span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<br /></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<br /></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<br /></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">P A R T E P R I
M A<o:p></o:p></span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<br /></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Vicende militari relative alla partecipazione
dell’Italia<o:p></o:p></span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">alla Grande Guerra 1914 - 1918</span></b><span style="font-size: 16.0pt;"> <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"> <b> </b></span></div>
<br />
Il secolo XX si aprì con l’esibizione di ottimismo della grande Esposizione Universale di Parigi del 1900 e con lo sfarzo spensierato de “la belle époque”. In quel mondo luminoso però diventarono più profonde le ingiustizie sociali, crebbero i semi del nazionalismo e si svilupparono le visioni intellettuali che spingevano al conflitto. Molti, soprattutto fra i giovani, vedevano nella guerra qualcosa di necessario, un destino ineluttabile, un’occasione imperdibile: la guerra come motore di rigenerazione, un cataclisma purificatore.<br />
<br />
L’Europa era suddivisa in tre aree di influenza: al centro Austria e Germania, a oriente l’Impero di Russia, a occidente Francia e Inghilterra. Gli occhi di tutti erano puntati, forse inconsciamente, verso la polveriera dei Balcani, il territorio più instabile e a rischio dell’intera Europa. E proprio nei Balcani si accese, la miccia che avrebbe portato il mondo ad un’immane catastrofe.<br />
<br />
Infatti il 28 giugno 1914, a Sarajevo (Bosnia-Erzegovina), lo studente serbo Gravilo Princip, coadiuvato da tre compagni, tutti come lui decisi a vendicare i popoli slavi oppressi dall’Austria, uccise il principe ereditario, arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo.<br />
<br />
Il successivo 23 luglio l’Austria inviò un ultimatum alla Serbia; cinque giorni dopo scoppiò la guerra fra i due Stati.<br />
<br />
Questo colse di sorpresa l’Italia, la quale nel 1882, per uscire dall'isolamento causatole dalla presa di Roma, aveva stipulato con Austria e Germania la cosiddetta Triplice Alleanza, che aveva solo carattere difensivo e comunque prescriveva la consultazione fra gli Stati membri in caso di operazioni militari tendenti a mutare lo status quo balcanico.<br />
<br />
Poiché la guerra in corso, oltre a non avere carattere difensivo per l’Austria, avrebbe potuto modificare l’assetto politico dei Balcani, l’Italia il 2 agosto 1914 a buon diritto proclamò solennemente la propria ‘neutralità’. Questo provocò la divisione degli italiani in due correnti contrastanti: i ‘neutralisti’ e gli ‘interventisti’.<br />
<br />
Erano per la neutralità: i cattolici, i socialisti e i liberali, che facevano tutti capo a Giovanni Giolitti, primo ministro dal 1903 al 1913, il quale sosteneva che l’Austria con trattative dirette avrebbe concesso parecchio (termine questo usato dallo stesso Giolitti) di quanto rivendicato dall’Italia in ordine al completamento della propria unità nazionale.<br />
<br />
Invece erano interventisti, cioè favorevoli all’entrata in guerra: i nazionalisti di estrema destra, capeggiati dal poeta Gabriele D’Annunzio; gli irredentisti con a capo Cesare Battisti; e i democratici, guidati da Leonida Bissolati e da Gaetano Salvemini, che vedevano nella guerra lo strumento per mettere fine al predominio dell’Impero Asburgico su altri popoli e alla forza reazionaria ed imperialistica della Germania.<br />
<br />
All'inizio sembrava che fossero prevalenti i neutralisti, ma poi divennero sempre più frequenti le “conversioni” da neutralisti a interventisti. <br />
<br />
I membri del Governo e soprattutto il suo capo, Antonio Salandra, e Giorgio Sidney Sonnino, ministro degli esteri, erano per l’entrata in guerra dell’Italia contro Austria e Germania. Quindi il 26 aprile, all'insaputa del Parlamento, proprio da Sonnino fu stipulato segretamente con l’Intesa il cosiddetto ‘Patto di Londra’, per il quale l’Italia, impegnandosi ad entrare in guerra entro un mese, in caso di vittoria avrebbe ottenuto: il Trentino fino al Brennero, cioè col Sud Tirolo etnicamente tedesco; Trieste con le Alpi Giulie, tutta l’Istria e quasi tutta la Dalmazia; Valona col suo entroterra albanese ed un trattamento da grande potenza coloniale nella spartizione delle colonie tedesche in Africa e nel Medio Oriente. <br />
<br />
Quando si diffusero notizie relative sia a detto patto che alla sollecitazione, fatta al Governo il 1° maggio dallo stesso ministro Sonnino, a rinnegare la Triplice Alleanza, ci furono in tutto il Paese gravi reazioni pro e contro la guerra.<br />
<br />
Pertanto Salandra il 13 maggio presentò le proprie dimissioni che provocarono imponenti dimostrazioni degli interventisti.<br />
<br />
Il 16 maggio il Re respinse le dimissioni del Capo del Governo, minacciando di abdicare se il Parlamento si fosse opposto all’intervento in guerra. Perciò il 20 maggio sia la Camera dei Deputati che il Senato del Regno conferirono poteri straordinari al Governo Salandra, il quale dopo due giorni avviò la mobilitazione generale e dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915. <br />
<br />
<div>
All’inizio delle ostilità le nostre truppe, comandate dal sessantacinquenne generale Luigi Cadorna, che più che stratega era un burocrate, erano insufficienti nonché male equipaggiate e anche sprovviste di un adeguato servizio d’informazioni.<br />
<br />
Nella valle del fiume Isonzo, al confine orientale italiano del 1866, il nostro Esercito nei primi 28 mesi di guerra combatté ‘undici battaglie’, dette appunto ‘dell’Isonzo’. <br />
<br />
Indro Montanelli nel 36° volume della sua Storia d’Italia (1995, Milano, p. 91), riferendosi a Cadorna, ha scritto:<br />
«… Per lui il modulo dell’attacco era sempre quello: fuoco concentrato su fortificazioni e reticolati avversari, poi irruzione di reparti affiancati nei valichi così aperti. Neanche quando l’esperienza ebbe dimostrato che le nostre scarse ed approssimative artiglierie i valichi non li aprivano e che “i poveri fanti andavano a stendere le loro carcasse sugli intatti reticolati come cenci ad asciugare”, Cadorna cambiò idea. Non poteva cambiarla perché non ne aveva altre. Egli concepiva la guerra come gigantesca operazione d’assedio da portare avanti, uomo contro uomo, trincea contro trincea, a “chi la dura la vince” ». <br />
<br />
Inoltre in tutte le battaglie dell’Isonzo i soldati italiani vennero a trovarsi nella infelice condizione di dover combattere, partendo generalmente dal piano del fondovalle contro un nemico saldamente arroccato su alture.<br />
<br />
In particolare le prime quattro battaglie dell’Isonzo, che ebbero luogo da giugno a dicembre 1915 e avevano come obiettivi i monti Kuk (alto 956 m.), Podgora (a. 241 m.), San Michele (a. 275 m.) ecc., si conclusero con risultati complessivi insignificanti, malgrado le gravissime perdite ammontanti a 183mila uomini, di cui 62mila morti, laddove per le tre guerre d’indipendenza e la presa di Roma i caduti erano stati in tutto appena 6mila. <br />
<br />
Ciò portò all’amara constatazione che la guerra sarebbe stata lunga e luttuosa e, quindi, allo scoramento o addirittura all’odio verso chi l’aveva voluta e soprattutto contro il Comandante supremo che, oltre a condurne le operazioni in maniera inadeguata, imponeva ai soldati un ferrea e odiosa disciplina. Infatti Cadorna, il quale fin dal 1915 aveva ordinato che gli ufficiali dovessero punire gli atti d’indisciplina dei soldati con “estreme misure di coercizione e repressione”, arrivò ad imporre la “giustizia del piombo” (cioè la fucilazione) per chiunque avesse cercato di arrendersi o ritirarsi, ordinando altresì che tribunali improvvisati sul campo (anche se costituiti da un solo ufficiale) potessero emettere inappellabili sentenze di morte. Inoltre adottò la “decimazione”, lugubre emblema della giustizia militare italiana.<br />
<br />
Anche la V battaglia (9 – 15 marzo 1916) fu particolarmente aspra e con notevoli perdite tra Monte S. Michele e San Martino, che però rimasero in mano al nemico.<br />
<br />
Il 15 maggio 1916 gli austriaci misero in atto nel Trentino una “spedizione punitiva” contro gli italiani che, secondo loro, non avrebbero dovuto disdire la Triplice Alleanza per unirsi alle potenze dell’Intesa. Tale spedizione, preparata con cura e condotta con ingenti forze, all’inizio ebbe successo, perché le truppe austro-ungariche giunsero fino ad Asiago ed alla pianura veneta, minacciando da vicino Vicenza. Ma i cardini dove si saldava il fronte del Trentino resistettero eroicamente, permettendo alle nostre truppe di passare alla controffensiva e riconquistare parte delle posizioni perdute. Tuttavia le perdite italiane raggiunsero la spaventosa cifra di 147mila uomini, mentre Asiago ed altre città dell’altopiano dei Sette Comuni rimasero saccheggiate e bruciate. <br />
<br />
Tutto questo accrebbe il malcontento della classe politica e della società civile nei riguardi sia dello Stato Maggiore dell’Esercito sia del Governo Salandra – Sonnino, che fu costretto a dimettersi. Perciò si diede vita ad una nuova compagine ministeriale detta ‘di concentrazione nazionale’, presieduta da Paolo Boselli.<br />
<br />
La VI battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 6 al 17 agosto ed ebbe inizio con l’attacco al Monte San Michele alle ore 15,30 del primo giorno. “…Pur avendo subito gravi perdite le Brigate Catanzaro, Brescia e Ferrara conquistarono la vetta, mentre le Brigate Pisa e Regina si spinsero fino alle ultime case del paese di San Martino. Quella notte i contrattacchi sferrati da reparti ungheresi vennero respinti. […]. L’intero fronte crollò il giorno seguente. Tutta quella tetra collina rotondeggiante era finita saldamente in mano agli italiani. I soldati vagavano in cima alla sommità silenziosa, stupefatti di essere finalmente capaci di metter piede tra i cadaveri (delle precedenti battaglie – n. d. r.), le scatole di munizioni e i bossoli vuoti, gli stivali anneriti, i pezzi di fucile e gli zaini vuoti. Il principale ricordo di un ufficiale era quello del disgusto provato alla vista dei vermi, più di quanti ne avesse mai visti, che affioravano dal suolo, bianchi e teneri si contorcevano strisciando verso i corpi inanimati, se ne cibavano e riemergevano dalla occhiaie vuote e dalle bocche semiaperte… ”(V. Mark Thompson, La guerra bianca, Milano 2012, p. 188).<br />
<br />
Le lotte per la conquista di Monte S. Michele erano costate alle truppe italiane, in 14 mesi, la perdita di almeno 110mila uomini, di cui 19mila i morti. <br />
<br />
Un violento contrattacco nemico fu poi respinto e l’8 agosto gli italiani conquistarono Gorizia, ma non riuscirono ad andare oltre, pur lottando ostinata- mente contro il nemico che continuava ad infliggere loro gravi perdite. <br />
<br />
Le due seguenti poesie sono state scritte sul campo dal fante Giuseppe Ungaretti rispettivamente prima e dopo la VI battaglia dell’Isonzo ed esprimono efficacemente i sentimenti dei combattenti.<br />
<br />
<br />
<table border="1" cellpadding="0" cellspacing="0" class="MsoTableGrid" style="border-collapse: collapse; border: none; margin-left: 40.85pt; mso-border-alt: solid windowtext .5pt; mso-padding-alt: 0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-yfti-tbllook: 1184;"><tbody>
<tr><td style="border: none; padding: 0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; width: 203.6pt;" valign="top" width="271"><div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 14.0pt;">Sono una creatura <o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 10.0pt;">Valloncello della
Cima Quattro </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 10.0pt;">5 agosto 1916 </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">Come questa
pietra </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">di S. Michele </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">così fredda </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">così dura </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">così prosciugata</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">così
refrattaria </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">così
totalmente </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">disanimata </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"> </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">Come questa pietra</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">è il mio
pianto </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">che non si
vede </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">La morte </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">si sconta </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">vivendo<span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></span></div>
</td>
<td style="border: none; padding: 0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; width: 244.45pt;" valign="top" width="326"><div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 14.0pt;">San Martino del Carso<o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 10.0pt;">Valloncello
dell’Albero Isolato</span><b><span style="font-size: 14.0pt;"><o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 10.0pt;">27 agosto 1916 </span><span style="font-size: 14.0pt;"> <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">Di queste case</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">non è rimasto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">che qualche </span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">brandello di muro</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">Di tanti</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">che mi corrispondevano</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">non è rimasto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">neppure tanto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">Ma nel cuore</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">nessuna croce
manca</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">E’ il mio cuore</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">il paese più
straziato<span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></span></div>
</td>
</tr>
</tbody></table>
<span style="font-size: 14.0pt;"><br /></span>
All’efficienza dimostrata dalle truppe italiane contribuì l’innovazione di far giungere in linea reggimenti composti esclusivamente da giovanissimi. Fino a Caporetto le nuove leve erano sempre servite per colmare i vuoti nei vari reggimenti, col risultato che l’entusiasmo giovanile si contraeva, si smarriva al contatto col pessimismo o col cinismo dei veterani. Inoltre nell’autunno-inverno 1917 si temeva che i nuovi arrivati fossero contagiati dal “disfattismo” di coloro che avevano partecipato alla ritirata. Perciò il Comando Supremo ordinò la costituzione di battaglioni complementari composti soltanto da reclute della classe 1899, i quali vennero mandati in linea dal novembre 1917. L’effetto psicologico di questa immissione di forze fresche, fu grandissimo, come venne constatato nella cosiddetta “battaglia del Piave o del solstizio”, che iniziò il 15 giugno 1918 e, dopo otto giorni di durissima lotta, terminò il 23, allorché il Comando austriaco, a causa della difesa ostinata e aggressiva degli italiani, ordinò la sospensione dell’offensiva e il ripiegamento sulla riva sinistra del fiume.</div>
<div>
Delle successive battaglie dell’Isonzo, la VII, l’VIII e la IX, combattute dal settembre al novembre 1916 e durate 2 – 3 giorni ciascuna, le prime due portarono a risultati minimi e con la terza le nostre truppe avanzarono di pochi chilometri, mentre le vittime (morti + feriti) furono in totale ben 84.728.<br />
<br />
La X battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 12 al 26 maggio 1917. Dopo due giorni di bombardamento a tappeto gli italiani conquistarono alcune alture del Carso monfalconese, ma presto vennero respinti. Tuttavia tra Monte Santo e Zagora, a nord di Gorizia, riuscirono a passare l’Isonzo, a costruirvi una testa di ponte e a mantenerla. Ci fu la perdita di 160mila soldati, di cui 36mila i morti. <br />
<br />
Questa battaglia ebbe un prosieguo lontano dal Carso, sull’Altopiano di Asiago, con un attacco al Monte Ortigara, un deserto roccioso alto 2.000 metri. Il 10 giugno le divisioni 29ma e 52ma, muovendosi sotto un pioggia torrenziale. Arrivarono quasi alla cima. Ma vi rimasero intrappolati sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche, davanti ai reticolati intatti, subendo perdite fino al 70%. <br />
<br />
A causa della pioggia insistente solo il 18 giugno fu possibile riprendere i combattimenti e il giorno seguente soldati della 52ma divisione raggiunsero la cima e vi rimasero fino al 25, resistendo a bombardamenti e contrattacchi avversari, finché le truppe d’assalto nemiche non li spazzarono via con gas e lanciafiamme.<br />
Morirono 25mila italiani senza alcun risultato apprezzabile. <br />
<br />
Il 19 agosto 1917 il generale Cadorna, disponendo di oltre 500mila uomini bene armati, schierati sul fronte da Tolmino (nella parte superiore della valle) fino al Mare Adriatico, diede inizio all’XI battaglia dell’Isonzo.<br />
Attraversato il fiume su ponti di fortuna, si puntò alla conquista della Bainsizza, altopiano calcareo a nord-est di Gorizia. Ciò avrebbe consentito, mediante l’espugnazione delle roccaforti dei monti S. Gabriele ed Hermada, di andare a rompere le linee nemiche.<br />
Dopo una lotta aspra e sanguinosa le nostre truppe conquistarono una parte della Bainsizza, il Monte Santo ed altre postazioni, ma non riuscirono ad espugnare il San Gabriele e l’Hermada</div>
<div>
Il giorno 29 lo stesso Cadorna, avendo già perduto più di 143mila uomini, ordinò di passare alla difensiva e, accontentandosi dei modesti risultati raggiunti sul piano tattico, andò con la moglie in vacanza nei pressi di Venezia.<br />
<br />
All’XI battaglia partecipò eroicamente il sottotenente Sandro Pertini al comando di una sezione di mitraglieri, il quale venne proposto con un’ottima motivazione alla medaglia d’argento al valor militare. Ma tale decorazione non gli fu consegnata mentre il conflitto era in corso. Nel dopoguerra il regime fascista occultò la proposta e la relativa motivazione, poiché Pertini era socialista. Le stesse furono riprese quando egli fu eletto Presidente della Repubblica e, per sua esplicita richiesta, la medaglia gli fu consegnata a mandato scaduto, cioè nel 1985. <br />
<br />
Il Comandante Supremo il 19 ottobre ritornò dalla vacanza calmo, riposato e convinto che non ci sarebbe stata offensiva nemica fino alla primavera del 1918. Convinzione questa nella quale egli persistette malgrado alcuni disertori nemici lo avessero informato che era imminente un poderoso attacco di reparti austriaci e tedeschi, diretto verso il settore del fronte difeso dal XXVIII corpo d’armata, comandato dal generale Pietro Badoglio. Anche quest’ultimo, avendo fra l’altro a disposizione più di 800 bocche di fuoco, con cui contrastare il nemico, non era per niente preoccupato per le informazioni fornite dai suddetti disertori.<br />
<br />
Ma quando il 24 ottobre 1917 le batterie austro-tedesche aprirono il fuoco lungo un fronte di 30 chilometri, i cannoni italiani non spararono un solo colpo. Intanto nemici scendevano a plotoni affiancati attraverso la zona di Caporetto, piccolo comune in riva al fiume Isonzo.<br />
<br />
Già la sera dello stesso 24 ottobre gli austro-tedeschi avevano superato la prima e la seconda linea italiana. Perciò il giorno dopo Badoglio si ridusse a vagare con i suoi collaboratori senza riuscire a stabilire un contatto con i reparti da lui dipendenti e, quindi, senza poter dare un ordine quando ce n’era tanto bisogno.<br />
<br />
La sera del 25 ottobre fu evidente che le nostre linee di difesa avanzate erano in disfacimento, poiché risultavano perdute importanti posizioni conquistate con grandi sacrifici. Nello stesso tempo sembrava imminente la perdita di Monte San Michele, mentre le vie verso Udine e la pianura friulana erano completamente aperte.<br />
<br />
Ricorda Sandro Pertini: "Della ritirata di Caporetto, alla quale assistetti, ho un ricordo preciso. Fu un avvenimento drammatico, una ritirata disperata, anche umiliante, sotto scrosci d’acqua che cadeva dal cielo. Ricordo a Udine i soldati sbandati che s’imbattevano nella vettura dove c’erano il re Vittorio Emanuele III e il comandante supremo Cadorna. Le insolenze che venivano gettate contro quella vettura!<br />
E loro, il Re e Cadorna, pallidi come morti, impassibili, mentre i carabinieri intervenivano per allontanare i soldati che gridavano: vigliacchi ci avete tradito!"</div>
<div>
In conseguenza dello sfascio del fronte isontino le truppe italiane dovettero sgomberare anche l’intera linea d’alta quota dalle Alpi Giulie e Carniche alle Dolomiti e ai Monti Fiemme fino alla Valsugana.<br />
Fortunatamente le Armate III e IV riuscirono a ripiegare in ordine, attestandosi sul fiume Piave e collegandosi attraverso il Monte Grappa con il fronte del Trentino, che aveva resistito all’attacco.<br />
La disfatta di Caporetto costò all’Italia 11mila morti, 30mila feriti, circa 350mila prigionieri (tra cui un decina di generali), 400mila tra disertori e sbandati, 3200 cannoni, 1700 bombarde, 3mila mitragliatrici, 300mila fucili ecc.</div>
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Anche dopo lo sconquasso di Caporetto Cadorna, anziché riconoscere i suoi madornali errori, si premurò ad ordinare a fucilazione dei poveri sbandati, che credendo conclusa la guerra e legittimo lo sbandamento, se ne tornavano tranquilli e palesi alle proprie case.<br />
<br />
Proprio in questa fase del conflitto fu sul punto di essere fucilato il famoso scrittore americano Ernest Emingway che, arruolatosi volontario come autista di ambulanze, era poi diventato tenente del relativo reparto e, come tale, partecipò alla ritirata di Caporetto. Egli nelle pp. 209 – 213, del suo libro Addio alle armi (Ed. Oscar Mondadori, Milano, 2014) ha descritto come riuscì a sottrarsi alla “giustizia del piombo” gettandosi nel fiume Tagliamento e nuotando sott’acqua.</div>
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Il generale Cadorna oltre a perseguitare i militari sbandati, ai quali aveva intimato di costituirsi, aveva deciso pene severe nei riguardi di quanti avessero dato loro ospitalità o qualunque altro genere di aiuto. Ma l’8 novembre 1917 il nuovo Governo, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, lo costrinse a dimettersi, promuovendo al grado di Comandante Supremo dell’Esercito il generale di corpo d’armata Armando Diaz, che proprio sul Piave diede il meglio di sé.<br />
<br />
Tutti i reparti che avevano arrestato il nemico su tale linea presto rivelarono una combattività molto migliorata, in quanto sostenuta da spirito di rivincita. Infatti essi si dimostrarono molto capaci a respingere con decisione le truppe austro-tedesche che cercavano di passare il fiume.<br />
Armando Diaz seppe valorizzare questa rinnovata combattività delle truppe, cercando innanzitutto di ripristinare la consistenza dei reparti. A tal proposito emise ordinanze con cui esortava i numerosissimi sbandati a consegnarsi senza timore alle autorità locali per essere avviati ai cosiddetti ‘campi di assembramento’, allestiti in Emilia. Nello stesso tempo egli stabilì una linea di comprensione tra l’esercito e il paese. Infatti nell’arco di un mese fece migliorare il vitto ed aumentare la paga ai soldati, ai quali le licenze ordinarie (quelle che Cadorna concedeva col contagocce, al fine di impedire la diffusione di notizie relative ai suoi frequenti insuccessi) non solo si cominciò a concederle con regolarità, ma addirittura furono portate da 15 a 25 giorni. Inoltre ad ogni militare venne garantita un’assicurazione gratuita, per cui le famiglie dei caduti avrebbero ricevuto l’indennizzo senza ritardi. <br />
Quanto alla disciplina Diaz non ripudiò ufficialmente le perverse regole introdotte da Cadorna: semplicemente si astenne dall’impiegarle. Pertanto non ci furono più né processi sommari concludentisi con fucilazioni né decimazioni.<br />
<br />
Tutto questo assicurò al Comandante Supremo l’incondizionato appoggio sia del Governo che dell’intero popolo Italiano. Perfino Filippo Turati, importante esponente socialista che non aveva mai voluto la guerra, dichiarò che bisognava dar tutte le energie per la resistenza. Nello stesso tempo il presidente della Camera dei Deputati, on. Marcora, e i quattro ex presidenti del Consiglio, Boselli, Giolitti, Salandra e Luzzati, riunitisi il 10 novembre 1917, stabilirono di impegnarsi a fondo affinché tutte le forze del Paese, sopite le lotte fra partiti, si cimentassero e tendessero alla difesa della Patria.<br />
<br />
Dal punto di vista strategico i principi cadorniani della difesa rigida, lineare, detta “a cordone”, furono sconvolti: Diaz preferiva una difesa elastica e scaglionata in profondità, così da rendere immediato e tempestivo il contrattacco. Per altro verso egli imponeva il principio dell’inscindibilità della Divisione, non più utilizzata su diversi fronti per Brigate e Battaglioni, favorendo al contrario la saldezza dei reparti.<br />
<br />
Alla fine del terribile 1917, che sembrava relativamente tranquilla, gli italiani si chiedevano con apprensione: come sarà il 1918? Presto però si poté guardare al nuovo anno con un certo ottimismo.<br />
<br />
Infatti tra il 28 e il 29 gennaio le truppe italiane già dimostrarono notevole capacità di ripresa e buona preparazione. Infatti con una brillante controffensiva sull’Altopiano di Asiago conquistarono posizioni di alto valore strategico.<br />
<br />
Da gennaio a maggio vennero rimpiazzati tutti i materiali perduti nella ritirata di Caporetto, mentre le varie Divisioni venivano ringiovanite con il reclutamento dei ‘ragazzi del 99’, allora appena diciottenni.<br />
Dal 15 al 23 giugno ebbe luogo la cosiddetta ‘battaglia del solstizio’ o del Piave: gli austriaci nella notte del 15 con un violento bombardamento iniziarono un’operazione sull’Altopiano di Asiago e un’altra contro il Montello e il Basso Piave.<br />
Ma i reparti italiani addetti ai grossi calibri, che già da tempo avevano adottato il ‘criterio della contropreparazione’, aprirono prontamente il fuoco contro il nemico o addirittura in vari settori lo anticiparono. <br />
Dopo otto giorni di durissima lotta gli austro-ungarici a causa della difesa ostinata e aggressiva delle nostre truppe sospesero l’offensiva e, abbandonando le teste di ponte che avevano conquistato sulla riva destra, ripiegarono sulla riva sinistra del Piave, accusando una perdita di 150mila uomini tra morti e feriti e lasciando 45mila prigionieri, mentre gli italiani ebbero oltre 6mila caduti, circa 52mila dispersi, 27.660 feriti e 25mila prigionieri.<br />
<br />
In questa fase della guerra Giuseppe Ungaretti faceva parte di un reggimento di fanteria italiano inviato sul fronte occidentale, in Francia. Qui, nel Bosco di Courton, egli ebbe l’ispirazione a paragonare la precarietà esistenziale dei soldati alla caduta delle foglie in autunno e compose la seguente poesia:<br />
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<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; margin-left: 35.4pt; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm; text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Soldati</span></b><b><span style="font-size: 14.0pt;"><o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; margin-left: 35.4pt; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 10.0pt;">Bosco di Courton luglio 1918<o:p></o:p></span><br />
<span style="font-size: 10.0pt;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; margin-left: 35.4pt; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">Si sta come<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; margin-left: 35.4pt; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">d’autunno<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; margin-left: 35.4pt; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">sugli alberi<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; margin-left: 35.4pt; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;">le foglie <span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
Nell’autunno, viste le più che soddisfacenti condizioni del nostro Esercito, considerati gli insuccessi dei nemici in Francia e nei Balcani e tenute presenti le sollecitazioni del Governo e degli Alleati, Armando Diaz decise l’offensiva contro l’Austria, che risultò definitiva.<br />
L’attacco ebbe inizio alle ore 3 del 24 ottobre 1918, anniversario di Caporetto, con un violentissimo bombardamento.<br />
I genieri italiani avevano in programma il gittamento di sette ponti sul Piave per far passare i reparti sulla sponda opposta, ma riuscirono a costruirne solo due a causa delle cattive condizioni del fiume e dell’intenso fuoco delle artiglierie nemiche.<br />
Tuttavia nella notte del 27 ottobre furono costituite tre teste di ponte sulla sponda sinistra, che, prontamente attaccate dagli austro-ungarici rischiavano l’eliminazione.<br />
<br />
A questo punto il comandante dell’VIII Armata, generale Enrico Caviglia, di sua iniziativa diede ordine ad alcuni reparti di passare il fiume su ponti di barche partendo da Palazzòn, sulla sponda destra, e una volta raggiunta la riva sinistra puntare decisamente su Conegliano.<br />
Questa fu la mossa vincente! L’attacco riprese slancio su tutto il fronte del Piave.<br />
<br />
Il 29 ottobre l’VIII Armata avanzava travolgendo tutte le resistenze nemiche.<br />
Intanto all’alba dello stesso giorno 29 era pervenuta al Comando Supremo Italiano una lettera, con la quale il generale austriaco Viktor Weber von Webenan chiedeva, a nome del Governo di Vienna, di iniziare le trattative per un armistizio.<br />
La mattina del 30 ottobre le truppe italiane iniziarono un’avanzata dallo Stelvio al Mare Adriatico e in breve la cavalleria e i bersaglieri ciclisti occuparono Vittorio Veneto, spezzando in due lo schieramento nemico.<br />
Il 1° novembre fu conquistata Belluno, mentre Udine e Rovereto furono liberate il 2 novembre.<br />
<br />
Nel pomeriggio del 3 novembre fu occupata Trento e quasi nelle stesse ore l’Audace e altri tre cacciatorpediniere sbarcavano a Trieste due battaglioni di bersaglieri, accolti entusiasticamente dalla popolazione che trovarono in condizioni miserevoli. <br />
Le perdite dell’Esercito italiano dal 24 ottobre al 3 novembre 1918 ammontarono 36.468 tra morti, dispersi e feriti. <br />
<br />
Il 3 novembre 1918, alle ore 18, a Villa Giusti, presso Padova, i plenipotenziari di Italia e Austria firmarono l’armistizio, che fissava alle ore 15 del 4 novembre la fine delle ostilità.<br />
<br />
E proprio il 4 novembre, alle ore 12, il generale A. Diaz diramò alle truppe e alla Nazione il bollettino di guerra n. 1268 (cioè con numero d’ordine uguale a quello dei giorni di guerra), che è entrato nella memoria collettiva, perché rappresenta la conclusione positiva della gloriosa parabola risorgimentale contro il nemico di sempre, conclusione costata all’Italia 645mila morti.<br />
<br />
Detto bollettino inizia affermando: “<i>La guerra contro l’Austria-Ungheria, che sotto la guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace condusse ininterrotta e asprissima per 41 mesi, è vinta. …</i>”. Lo stesso termina dicendo: “<i>… I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.</i>”<br />
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<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">P A R T E S E C O N D A<o:p></o:p></span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<br /></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<br /></div>
La Prima Guerra Mondiale, conflitto di grande logoramento e distruzione, fu ben diverso dalle mitizzate guerre risorgimentali del XIX secolo.<br />
Tuttavia, dopo il 1918 e soprattutto nel ventennio fascista, in Italia si andò affermando il suo mito e non la sua vera storia. D’altronde nelle università non esistevano ancora cattedre di ‘storia contemporanea’, ma soltanto di ‘storia del Risorgimento’, mentre gli archivi storici rimanevano accuratamene sigillati. <br />
<br />
Tale situazione durò fino a dopo la ‘Seconda guerra mondiale’, allorché la memorialistica cominciò ad occuparsi intensamente delle drammatiche realtà e dei contrasti che avevano caratterizzato la Grande Guerra. Questo avvenne ad opera di studiosi quali: Emilio Lussu, Luigi Albertini, Piero Pieri, Brunello Vigezzi, Rodolfo Mosca, Paolo Spriano, Angelo Gatti, Mario Silvestri, G. Prezzolini e tanti altri. <br />
<br />
Fu in questo clima che nel 1969 uscì la prima edizione di Storia Politica della Grande Guerra 1915 – 1918, monumentale opera del prof. Piero Melograni (1930 – 2012), un classico della storiografia sul primo conflitto mondiale, che è stato riproposto immutato nelle successive edizioni, non cambiando mai quella carica anticonformistica che la rende opera di rottura rispetto agli studi precedenti, i quali, come già accennato, tendevano alla retorica ed alla mitizzazione. <br />
<br />
Nelle pagine seguenti sono riportati otto brani, il cui insieme è un brevissimo riassunto, prodotto solo a scopo divulgativo, del poderoso volume di oltre 500 pagine “Piero Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Oscar Mondadori, 2015”. <br />
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<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"> <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: center;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Considerazioni di carattere politico sulla Grande
Guerra<o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Le contraddittorie vicende dei primi sei mesi di
conflitto<o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
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Quando il 24 maggio 1915 ebbero inizio le ostilità dell’Italia contro l’Austria [mentre quelle di Austria-Ungheria contro la Serbia erano già iniziate il 28 luglio 1914 e in breve avevano coinvolto sia Russia, Francia e Inghilterra (alleate della Serbia) che la Germania (alleata dell’Austria)] il tumultuoso contrasto tra neutralisti e interventisti si placò non tanto a causa dei silenzi imposti dalla censura sulla stampa o dalle nuove leggi di Pubblica Sicurezza, quanto proprio per il turbamento e il disorientamento provocati in tutti i partiti dalla realtà della guerra. <br />
Tuttavia il Partito socialista (che era sempre stato contrario alla guerra) adottava ufficialmente la formula del «non aderire né sabotare», i cattolici dichiaravano di volersi comportare da cittadini obbedienti alle leggi, i giolittiani mantenevano un atteggiamento prudente e riservato (mentre il loro capo in un patriottico discorso dichiarava di essere devoto al Re e di voler sostenere il Governo), e il cinquantenne Cesare De Lollis, fondatore del gruppo neutralista “Italia Nostra”, partiva volontario per il fronte.<br />
<br />
Ma nelle città e ancor più nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate, già estranee al dibattito sull’intervento, tenevano un atteggiamento indifferente - se non addirittura ostile – nei riguardi del conflitto ormai in atto, il quale, non assomigliando per nulla alle tre brevi guerre d’indipendenza dell’800, richiedeva invece la partecipazione di tutti i cittadini, uomini e donne, sia per la costituzione di un esercito di enormi dimensioni, sia per l’indispensabile impegno produttivo dei campi e delle officine. In altri termini, mentre quella in atto era una guerra totale, guerra di masse e, come tale, molto dura e non certo breve, sul conto della stessa sia fra gli uomini della strada, sia fra quanti avevano responsabilità decisionali dominava l’idea del tutto falsa che si trattasse di un conflitto non diverso di quello per la conquista della Libia (1911-12).<br />
<br />
Infatti il Governo non si preoccupava per niente dell’acquisto di ciò che in inverno sarebbe stato necessario all’Esercito: lo stato d’animo prevalente era quello di un’attesa fiduciosa. Non mancava certo l’angoscia nelle famiglie per i congiunti mandati al fronte, ma pochi erano veramente coscienti dei rischi e della gravità dell’impresa a cui la Nazione si era accinta.<br />
<br />
I soldati partivano senza sapere quale spaventosa esperienza fosse la guerra che già si combatteva da circa dieci mesi in Francia o nei Balcani. Essi si avviavano e partecipavano ai primi combattimenti con un morale nel complesso abbastanza alto. Questo si riscontrava, però, nei combattenti evoluti culturalmente, mentre la grande massa di fanti contadini e analfabeti non solo non sapeva, ma neppure si preoccupava di sapere per quali ragioni la guerra era combattuta. A tale proposito Adolfo Omodeo scriverà: «…La guerra era sentita dal popolano come un fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni: sarebbe passata, ma ci voleva pazienza; per il contadino, infatti, la guerra era un male, un castigo dei peccati: “Ma, una volta scatenatosi il flagello, lo accettava e lo sopportava virilmente, come il buon agricoltore regge alla tempesta e al solleone”».<br />
<br />
Stati d’animo del tutto simili si ripetevano negli eserciti degli altri paesi belligeranti. Tuttavia all’inizio del conflitto era possibile notare il diffondersi di una certa eccitazione, capace di stimolare un poco tutti al patriottismo. Anche i civili avvertivano tale incitamento, ma ne venivano colpiti soprattutto i militari, sui quali agivano contemporaneamente sia i mezzi coercitivi, sia i valori di cameratismo e solidarietà propri dei combattenti, sia i naturali fattori agonistici che tendono a manifestarsi con l’esercizio delle armi.<br />
<br />
Nel maggio del 1915 non c’erano ancora le idee e la pratica della guerra totale, e lo spirito risorgimentale e garibaldino animava tanti combattenti.<br />
Comunque talvolta non si era contro la guerra anche per motivi contingenti, per es.:<br />
<ul>
<li>nell’Italia del 1915, la popolazione era in gran parte costituita da analfabeti o semianalfabeti, da modestissimi contadini o operai o artigiani, che in genere vivevano in condizioni disagiate, quindi il vitto quotidiano, assicurato dalla appartenenza all’Esercito, rappresentava per loro un notevole miglioramento delle condizioni di vita; </li>
<li>all’epoca per quasi tutti gli italiani rarissime erano le occasioni per muoversi, viaggiare e distrarsi, quindi il servizio militare, rompeva la monotonia della vita quotidiana, consentendo di conoscere luoghi e uomini nuovi.</li>
</ul>
Fin dall’inizio venne impedito a tutte le forze politiche favorevoli alla guerra, sia di destra (per es. i nazionalisti), sia di sinistra (repubblicani, socialisti radicali ecc.) di far sentire la propria voce in seno all’esercito. <br />
<br />
Del tutto sporadicamente, in occasione di qualche cerimonia o alla vigilia di qualche azione pericolosa, i comandi si rivolgevano all’intellettuale, al letterato, all’avvocato interventista che ora vestiva la divisa di ufficiale, affinché pronunciasse un discorso d’incoraggiamento patriottico ai commilitoni, in nessun modo si verificò qualcosa che potesse far pensare ad una attività meditata e concertata di propaganda, sia pure sotto il controllo delle autorità militari. <br />
<br />
Il 10 giugno 1915 il generale Zuppelli, ministro della guerra, inviò disposizioni ai comandi di corpo d’armata, di divisione e di reggimento perché s’impedisse agli interventisti rivoluzionari qualsiasi forma di propaganda. Proprio in questa fase a repubblicani, radicali socialisti ecc. nonché ai loro figli fu vietata la partecipazione ai corsi per allievi ufficiali. A tale divieto incorse, fra gli altri, Benito Mussolini. <br />
<br />
In precedenza (23 maggio) il Governo aveva deciso di vietare la costituzione di corpi volontari autonomi, perciò i Fratelli Garibaldi, che nel 1914 avevano formato in Francia la “legione italiana”, tornando in patria fecero parte dell’esercito regolare. <br />
<br />
La liberazione delle regioni nord-orientali era uno dei primi obiettivi della guerra: si soleva dire ai soldati che il loro grande e meraviglioso compito fosse quello di redimere i fratelli oppressi dall’Austria. Accadeva invece, con grande delusione degli interventisti, che proprio le popolazioni del Friuli orientale accogliessero con freddezza, con diffidenza e sovente con aperta antipatia i soldati italiani. A tal proposito anche Vittorio Emanuele III espresse il suo rammarico affermando: «La popolazione oltre confine, che è rimasta nelle case, non ci è amica». <br />
<br />
Nonostante l’acquisto nell’aprile nel 1915 di un certo numero di cannoni, le artiglierie italiane erano ancora insufficienti e prive di adeguate scorte di munizioni. Scarseggiavano anche le armi leggere, infatti fanteria e bersaglieri all’inizio della guerra non avevano mitragliatrici e solo a luglio ne ricevettero due per ogni reggimento, mentre il nemico ne possedeva dapprima due e poi otto per battaglione. Erano sconosciute le bombe a mano e le prime cassette, giunte ai comandi, contenevano un modello assai imperfetto che nessuno sapeva adoperare.<br />
<br />
Gli ufficiali, non avevano ricevuto in tempo le pistole d’ordinanza, perciò se non acquistavano da armaioli pistole di un qualunque tipo, rimanevano disarmati.<br />
<br />
I soldati erano circa un milione e mezzo, ma non erano disponibili altrettanti fucili modello 91, perciò si distribuivano anche gli antiquati moschetti Wetterli.<br />
<br />
In quell’epoca le autovetture circolanti in Italia erano circa 20.000, ma il 24 maggio, al passaggio del confine, il secondo Corpo d’Armata, forte di diecine di migliaia di uomini, possedeva soltanto l’auto del comandante.<br />
<br />
Nel maggio 1915 i soldati dell’esercito italiano avevano già la divisa di panno grigioverde, ma non possedevano l’elmetto, avendo come copricapo una sorta di chepì anch’esso di panno.<br />
<br />
Le truppe italiane andavano ai primi assalti in formazioni molto fitte, e gli austriaci affermavano che tirare sugli italiani era più facile che tirare al bersaglio. Durante la guerra di Libia i reparti avevano imparato a diradarsi, ma nell’estate del ’15 tale esperienza venne dimenticata. A questo proposito il generale Pettorelli-Lalatta, in data 27 agosto, scriveva: «E qui lanciamo ancora le fanterie all’assalto… a bandiera spiegata, ammassate, con musica». <br />
<br />
Secondo le disposizioni del comandante supremo Luigi Cadorna, contenute nella circolare del 1915, intitolata “Attacco frontale ed ammaestramento tattico”(che, essendo stata ampiamente diffusa, era certamente nota anche al nemico), ogni azione della fanteria doveva essere preparata da tiri delle artiglierie capaci di spianare la via e di spazzare “coll’impeto e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione”. Ma nella pratica le nostre artiglierie, che erano imprecise e disponevano di un insufficiente numero di bocche di fuoco e di scarse munizioni, iniziavano il bombardamento sulle posizioni avversarie, del quale il principale effetto era quello di porre il nemico in stato di allarme, poiché raramente venivano colpiti i reticolati e le trincee nemici. Quando terminava il bombardamento i fanti uscivano allo scoperto e trovavano i reticolati nemici intatti, e le mitragliatrici pronte a falciarli. Se poi il bombardamento aveva operato un varco nei reticolati (e creato dunque un passaggio obbligato), il compito dei tiratori austriaci era addirittura facilitato. <br />
<br />
Il generale Cadorna, pienamente cosciente dell’impreparazione e dell’insufficiente equipaggiamento delle truppe, non perdeva occasione per chiedere al Governo di colmare le lacune che si andavano riscontrando. In particolare insisteva nel chiedere munizioni e cannoni, pretendendo anche che questi fossero funzionanti, in quanto ben ventidue obici erano esplosi per difetti “nelle bocche di fuoco e negli esplosivi”. <br />
<br />
Egli era convinto che le forbici taglia-fili potessero efficacemente servire ad aprire varchi nei reticolati nemici, perciò rimproverava il ministero di avergliele concesse “solo dopo lunghi stenti e pressanti insistenze”, ma esse non servirono a niente. <br />
<br />
La probabilità che a causa dell’impreparazione il Regio Esercito andasse incontro ad un insuccesso nei primi scontri col nemico aveva anche indotto il Comandante Supremo a chiedere, il 17 giugno 1915, al Presidente del Consiglio Salandra d’intervenire sugli alleati perché iniziassero anch’essi un offensiva “contemporanea” al fine di mettere in crisi gli Austriaci. Ma poi rompendo gl’indugi ordinò l’attacco. Ebbe cosi inizio la prima battaglia dell’Isonzo (23 giugno – 7 luglio), destinata al fallimento. Anche la seconda battaglia dell’Isonzo (18 luglio – 4 agosto) venne da Cadorna disposta senza la necessaria preparazione, ma immediatamente soltanto perché a causa dell’insuccesso della prima egli “sentiva salire la marea di malcontento” in tutti i settori dell’opinione pubblica. <br />
<br />
Quando anche la seconda battaglia si concluse con elevate perdite e guadagni assai modesti, il Comandante supremo informò Salandra che non avrebbe più ripreso l’offensiva fino a che non gli fossero stati forniti complementi, munizioni e rifornimenti in misura tale “da evitare per l’avvenire la grave crisi odierna”. <br />
<br />
Così successivamente per oltre due mesi l’esercito rimase sostanzialmente fermo. Il 18 ottobre Cadorna, sia perché i mezzi tanto insistentemente richiesti gli erano in parte pervenuti, sia in quanto voleva assolutamente conseguire un successo prima della fine dell’anno per non sfigurare di fronte degli alleati nonché di fronte agli stessi italiani, decise di dare inizio alla terza battaglia dell’Isonzo, che terminò il 4 novembre, seguita a meno di una settimana dalla quarta (10 nov. – 2 dicembre).<br />
<br />
Le suddette quattro battaglie comportarono la perdita di 183mila uomini, di cui 62mila i morti, ma i risultati furono molto modesti. Quindi svaniva l’illusione della ‘guerra breve’ ed una profonda crisi morale sopravvenne nel corso delle offensive d’autunno, quando la pioggia, il fango, le sofferenze patite intristivano gli uomini e mutavano il volto della guerra.<br />
<br />
Gli assalti si ripetevano con esasperante monotonia e sempre contro le medesime posizioni. A tal proposito scriverà in seguito Curzio Malaparte: «… A un tratto, tranquillamente, la fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava trotterellando verso le mitragliatrici austriache, con un vocio confuso che nulla aveva di eroico. Gli uomini (o) cadevano a gruppi uno sull’altro…(oppure), senza un lamento, andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare».<br />
<br />
Nel 1915 coloro che avevano immaginato rapide e vistose conquiste, potettero ricevere dal fronte notizie assai vaghe. Infatti i giornalisti non erano ammessi nelle zone di guerra, in tutto il Paese vigeva la censura e ben poco si poteva ricavare dalla lettura dei bollettini ufficiali, i quali peraltro finirono solo col suscitare allarmi e preoccupazioni in quanto, mentre all’inizio fornivano quotidianamente le cifre delle perdite subite dai reparti combattenti o da questi inflitte al nemico, avevano poi improvvisamente cessato di farlo.<br />
<br />
Essendo anche le lettere dei combattenti rigorosamente censurate, il Paese cominciò ad intuire la cruda realtà del conflitto dai racconti dei feriti ricoverati nelle retrovie o in convalescenza nelle proprie case, nonché dai soldati in licenza.<br />
<br />
Tuttavia non mancò la vigilanza anche su detti militari e alcuni furono anche puniti e fatti rientrare nei reparti, mentre per volere di Cadorna veniva ridotta al minimo la concessione di licenze.<br />
<br />
La crisi della guerra cronica, nata sul fiume Isonzo, era presto rimbalzata nel Paese procurando lutti e sofferenze inaudite, di fronte ai quali molto grave fu il disagio degli interventisti, perché più doloroso era in loro il crollo delle illusioni, più grande il peso delle responsabilità. A tal proposito scriverà poi A. Omodeo: «Lo smarrimento morale della guerra cronica fu la prova più amara per l’esercito. Falliva ciò per cui si era sognata la guerra: la rapidità tagliente delle risoluzioni.»<br />
<br />
Gli interventisti che erano sotto le armi cominciarono ad essere trattati con odio e disprezzo dai commilitoni. Chi era partito volontario cercava di mantenere questo fatto assolutamente segreto.<br />
Il 1° novembre 1915 B. Mussolini era al fronte e un soldato, incontrandolo, gli chiese: “Sei tu Mussolini?” “Si.” “Benone, ho una notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni. Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti.”<br />
Il monaco barnabita padre Giovanni Semeria, cappellano militare, essendo stato un appassionato interventista, al cospetto degli orrori della “provò l’angoscia smarrita di aver tradito la sua vocazione sacerdotale”; internato in una casa di cura svizzera, pensava addirittura di togliersi la vita, “credendosi colpevole della morte di giovani, di padri di famiglia, che alcuni suoi incitamenti potevano aver spinto alla guerra”. <br />
Cadorna chiedeva al Governo il massimo sforzo finanziario per ottenere gli uomini e i mezzi necessari per riprendere nella primavera del ’16 la lotta con maggiori probabilità di successo. Ma la situazione finanziaria dello Stato era drammatica e preoccupava seriamente il Capo del Governo, che il 18 settembre 1915 convocò i Ministri sia per informarli che le richieste del Comando supremo comportavano una spesa di 15 miliardi di lire, sia per porre loro la domanda: “Dove trovare tanto denaro?”<br />
L’interrogativo rimase senza risposta e i ministri deliberarono molto genericamente che ognuno ci avrebbe pensato e poi proposto un programma di economie.<br />
La guerra, dunque, era ormai entrata in una fase per molti versi incomprensibile, irrazionale, che lasciava senza risposta scottanti interrogativi.<br />
I primi sei mesi della stessa avevano cancellato i trascorsi entusiasmi al punto che nel «…funereo autunno del 1915 […] le radiose giornate di maggio erano diventate il più fastidioso dei ricordi e il solo nominarle assumeva il sapore amaro del sarcasmo…» (V. Rino Alessi, DALL’ISONZO AL PIAVE – A. Mondadori Editore 1966, pag. 13).<br />
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<b><span style="font-size: 14.0pt;">L’adattamento del soldato alla guerra<o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Le truppe si adattarono presto alla nuova guerra, tanto diversa da quelle del passato. In particolare anche l’adattamento consistente nell’accettazione di un conflitto di lunga durata che non era certo facile, fu reso possibile dal fatto che i soldati continuarono a credere nella brevità della guerra. Infatti alla fine del 1915 previdero la pace per la primavera del 1916, in primavera la attesero per l’autunno, in autunno per la primavera successiva, e così di seguito. Finché, nell’autunno del 1918 furono in molti ad ingannarsi, pensando che la pace sarebbe giunta nella primavera del 1919. Per esempio, il giornalista Ugo Ojetti, addetto presso il Comando supremo alla tutela degli oggetti d’arte e dei monumenti delle zone di guerra, il 25 ottobre 1918 scrisse alla propria moglie: “Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera”.<br />
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I soldati, che nelle prime settimane del conflitto non sapevano scavare nel terreno luoghi in cui ripararsi dal fuoco nemico, impararono presto a costruire complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali si poteva vivere sia pure nel fango e nella sporcizia, sia sotto tiro dei fucili che sotto il bombardamento dei cannoni austriaci.<br />
Inoltre si adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal nemico, in quanto riuscivano a vivere la vita di trincea come se si trattasse di un’esistenza “normale”, priva di eccessive tensioni od emozioni. <br />
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D’altronde abitualmente il vivere in trincea, mentre di notte era movimentato, di giorno era tranquillo. Infatti di notte i soldati o uscivano di pattuglia o dovevano restare all’erta per evitare sorprese. Invece di giorno: non c’era sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire, poiché c’era tanto poco da fare che la distribuzione dei viveri costituiva quasi sempre l’unico avvenimento della giornata. <br />
Tuttavia il trascorrere nell’ozio intere giornate finiva col logorare psicologicamente gli stessi soldati, procurando loro una “forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può concorrere al proprio benessere, e con un torpore intellettuale” (V. Relazione del gen. Luigi Capello del gennaio 1916). <br />
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I combattenti istruiti e colti soffrivano più degli altri a causa di questa decadenza intellettuale. A tal proposito in una lettera del gennaio 1916 Giacomo Morpurgo scriveva: “Davvero che i nostri cervelli si impigriscono nell’esercizio unico e limitato del compito giornaliero, sempre uguale, e sempre terra terra». <br />
Neppure le azioni difensive o offensive scuotevano il soldato dall’apatia e dal fatalismo nei quali era immerso. Anzi, secondo lo psicologo Agostino Gemelli, “L’insensibilità affettiva, l’apatia sentimentale crescevano durante le azioni. …”. Apatia e fatalismo si manifestavano soprattutto durante i bombardamenti austriaci, quando non restava che attendere, nella più assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico.<br />
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Lo spirito delle truppe era già definitivamente mutato alla fine 1915. Infatti era ormai scomparso lo spirito garibaldino e la guerra sembrava ai combattenti non troppo diversa da un lavoro da portare a termine, o da una calamità naturale che necessariamente bisognava accettare.<br />
Distacco, spersonalizzazione e fatalismo caratterizzavano tutti i comportamenti del veterano, il quale ormai sapeva adattarsi alle circostanze. Se egli non si offriva più volontario ad azioni pericolose, era perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato l’inutilità di tanti gesti eroici compiuti perfino durante azioni insignificanti. <br />
L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sul comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei numerosissimi fanti-contadini. A tal proposito scriveva padre A. Gemelli: “Parlare di patria a … questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno certo coscienza nazionale […] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi […] E’ un uomo.”<br />
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Di conseguenza gli accenti epici molto di rado comparivano nelle canzoni, spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi fra i combattenti. In esse quasi mai si nominava l’Italia, invece quasi sempre si esprimevano affetti familiari ed amorosi: in altri termini i sentimenti dell’uomo prevalevano su quelli del cittadino.<br />
Fra i soldati erano, però, molto diffuse strofette e canzoni “proibite”, che nominavano la patria, il re o Cadorna, ma per schernirli o per ingiuriarli. <br />
Gli obiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio “Trento e Trieste”, erano forse gli unici che tutti i soldati potevano comprendere facilmente. Tuttavia gli stessi non potevano avere un significato patriottico per i contadini, che rappresentavano circa metà dell’esercito e quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite e, perciò, alla fine del conflitto, gli orfani di contadini erano 218.000 (63%), su un totale di 345mila orfani di guerra. La classe più contraria alla guerra offrì, dunque, alla patria il maggior contributo di sangue. <br />
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I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia alla luce delle loro esperienze dirette, cioè come presa di possesso di territori da arare e da seminare. A tal proposito Arrigo Serpieri, economista agrario, ha scritto: “I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell’ira di Dio per conquistare quella terra da pipe”. <br />
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Dopo il 1915 gli ufficiali si trovarono in una condizione di spirito molto somigliante a quella dei loro subordinati. Sotto molti punti di vista, anzi, l’adattamento degli ufficiali risultò più difficile di quello dei soldati. Infatti gli ufficiali potevano distinguersi dai semplici soldati per una maggiore sensibilità ai valori patriottici, per l’istruzione e l’educazione ricevute, per le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando, per i privilegi conferiti dal grado. Ma nelle prime linee la guerra parificava tutti i combattenti, senza fare distinzioni tra comandanti e comandati. Infatti in trincea l’ufficiale non correva rischi minori di quelli dei suoi soldati, e durante le azioni ne affrontava forse di più grandi, poiché usciva sempre con gli altri allo scoperto, spesso esponendosi davanti a tutti per dare esempio di coraggio.<br />
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La maggiore sensibilità ai valori patriottici procurava agli ufficiali una maggiore pena nel vedere deluse le attese della vigilia. Perciò nello svolgersi della dura esperienza quotidiana anche il loro sentimento patriottico si affievoliva. <br />
Le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando talvolta portavano l’ufficiale ad avere invidia dei propri subordinati. Sentimento questo che Paolo Marconi, giovane ufficiale alpino, espresse in una sua lettera del febbraio 1916, scrivendo fra l’altro: “… I soldati…se ne stanno lunghe ore tranquilli a contemplare il cielo e la terra, maestosamente. … Noi no! Noi dobbiamo vigilare, tutto osservare, a tutto badare. Spesso manifestare severità e rigidezza che in realtà non abbiamo. E di fronte all’incubo delle cose esterne … si fanno aride le fonti della vita interiore”. <br />
Nella prolungata vita trincea proprio queste cogenti responsabilità spesso determinavano in alcuni seri disturbi di natura psicologica. <br />
Il direttore di sanità del VI Corpo d’armata, Gerundo, essendo stato interpellato a tal proposito dal gen. Luigi Capello, il 7 gennaio 1916 scriveva: “Da qualche tempo si notano frequenti casi di esaurimento nervoso specialmente negli ufficiali, che si presentano la maggior parte sotto una forma depressiva ed in alcuni casi, fortunatamente rari, sotto forma eccitatoria (sic). Mentre i primi si presentano in genere apatici, indolenti, ipobulici, attoniti, gli altri si presentano con fenomeni alterni di eccitabilità e di depressione. […]”. <br />
Nel corso del conflitto la questione che più di ogni altra agitò l’animo dei combattenti fu quella degli “imboscati”, cioè di tutti coloro che si sottraevano al servizio di guerra e restavano lontano dal fronte. Tuttavia, essendo tale questione molto sentita, il termine “imboscato” finì con l’assumere svariati significati. Per esempio: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia, che chiamavano “armate della salute”; per i fanti erano imboscati gli artiglieri; e per l’intero esercito erano imboscati tutti coloro che non si trovavano in zona di guerra.<br />
Comunque il problema dell’imboscamento veniva avvertito dai soldati in forma sempre più acuta, perché continuamente ne venivano alla luce casi clamorosi come i seguenti: <br />
<ul>
<li>lontano dal fronte prestarono sempre servizio i tre figli del presidente del Consiglio Antonio Salandra, il quale a suo tempo aveva solennemente dichiarato che gli stessi sarebbero andati in prima linea;</li>
<li>il sottotenente Edoardo Agnelli, proprietario della FIAT, prestava servizio presso il Comando supremo in qualità di vice-direttore del parco automobilistico, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage FIAT di Milano. </li>
</ul>
A partire dall’ottobre 1915 il Governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio militare dell’importo annuo di lire sei (subito battezzata dai soldati “tassa sugli imboscati”), alla quale erano assoggettati sia i riformati che gli esonerati. Questi ultimi costituivano una categoria molto numerosa, poiché vi facevano parte gli addetti a vari uffici e servizi nonché gli operai di industrie in qualsiasi modo impegnate in produzioni utili alla guerra. Inoltre gli operai richiamati raramente erano assegnati alla fanteria poiché, se conoscevano anche superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, venivano avviati ad altri corpi speciali. Questo convinse il fante-contadino che dire operaio equivaleva dire imboscato, cioè nascosto in qualche corpo speciale o semplicemente rimasto in città a lavorare guadagnando bene.<br />
<br />
I fanti-contadini, che non avevano certo voluto la guerra, vivevano, dunque, nella consapevolezza che soltanto per loro non esistevano alternative alla lotta in prima linea, come peraltro riconobbero alcuni autorevoli uomini politici: “La guerra la fanno i contadini!” gridò alla Camera l’on. Soderini. “La pagano col loro sangue in proporzione del 75 per cento”, confermò l’on. G. Ferri. <br />
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<span style="font-size: 14pt;"> </span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
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<b><span style="font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Contrasti e crisi del primo semestre 1916<o:p></o:p></span></b></div>
Nel 1916 fra politici e militari divenne sempre più aspra la contesa su “chi” dovesse guidare la guerra che, invece, continuò a procedere quasi per suo conto, perversa e indomabile, ribelle ad ogni regola che le si sarebbe voluta imporre.<br />
A tal proposito il generale Antonino Di Giorgio nel 1919 ammise: “La verità è che nessuno governò l’Italia in guerra”. <br />
In passato i politici si erano quasi sempre disinteressati dell’esercito, mentre i militari avevano impedito al Parlamento di ingerirsi nei loro affari. Tuttavia non erano mancate del tutto le interferenze fra i due mondi. Infatti i ministri della Guerra e della Marina dibattevano i problemi dei loro dicasteri in seno al Consiglio dei ministri e, come tutti i membri dell’esecutivo, erano soggetti al controllo del Parlamento; il Governo utilizzava di continuo le truppe per garantire l’ordine pubblico. Nonostante questo, i due mondi continuavano a restare estranei l’uno all’altro, animati da reciproca diffidenza. Per esempio: mentre il generale Emilio De Bono, descrivendo la vita degli ufficiali nell’anteguerra, affermava che nessuno di essi si occupava di politica, l’on. F. Marazzi testimoniava che prima del conflitto era stato “quasi un vanto civico far pompa d’ignoranza di ogni nozione militare”.<br />
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Le operazioni militari, che nel 1915 si erano concluse con un bilancio del tutto insoddisfacente, e le notizie diffuse nel Paese dai militari feriti o in licenza destavano allarmi e apprensioni non solo ai comuni cittadini, ma anche ai parlamentari. Fra i tanti l’on. Giampietro, che era ufficiale dell’esercito, denunciava un vero e proprio spreco di denaro pubblico causato da un piano strategico e da un’azione sbagliati, mentre il giornalista Gaetano Salvemini, tornato dal fronte, affermava che il tentare e ritentare sempre la stessa impresa, senza che questa riuscisse, aveva depresso lo spirito dei soldati. <br />
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Il 26 gennaio 1916 in una riunione del Governo Salandra il gen. Vittorio Italico Zupelli, responsabile del dicastero della guerra, nell’intento di dare fiducia a quei suoi colleghi che dicevano di non capire nulla di tattica e di strategia, presentò un memoriale nel quale affermava fra l’altro che il gen. Luigi Cadorna avrebbe dovuto:<br />
<ul>
<li>evitare di disperdere tutta le forze disponibili sull’intero fronte e concentrarle, invece, sul Carso dove il nemico era più vulnerabile; </li>
<li>non sospendere le ostilità in inverno, poiché proprio in tale stagione sarebbe stato possibile impadronirsi del Carso e precludere al nemico le vie per Trieste.</li>
</ul>
Secondo Zupelli bisognava, perciò, riunire immediatamente su un breve fronte di 12 km almeno 500 delle 770 bocche di fuoco possedute ed riprendere le operazioni offensive entro il mese di febbraio, cioè nel giro di pochi giorni. <br />
Dopo Zupelli, prese la parola il ministro Sidney Sonnino, il quale dichiarò che le sorti della guerra le doveva decidere il “Consiglio di difesa”, ma che, essendo questo un organismo operante solo in periodo di pace, si era nell’impossibilità di convocarlo.<br />
Pertanto il presidente Salandra ritenne opportuno scrivere il 30 gennaio una lettera al Re per informarlo del disagio dell’intero Governo per quanto stava accadendo.<br />
Il Consiglio dei ministri tornò a d occuparsi della questione il 6 febbraio, decidendo di inviare Zupelli al fronte, perché esponesse il proprio piano a Cadorna.<br />
Il ministro della guerra partì e tornò soddisfatto, perché il Comandante supremo aveva accolto i concetti base del piano formulato nel suddetto memoriale in modo diverso da come ci si potesse aspettare.<br />
Però col passar del tempo i concetti espressi in detto memoriale, peraltro già non ritenuti validi dal Re, cominciarono a sembrare fantastici ed assurdi agli stessi ministri che in un primo momento li avevano approvati.<br />
Intanto il Comandante supremo, che ben sapeva di avere molti avversari, messo sul chi vive dal memoriale Zupelli e dalle voci in giro di una sua imminente sostituzione, decise di passare al contrattacco avverso i “nemici che erano a Roma”. Infatti chiese il sostegno del giornalista Ugo Ojetti, il quale, oltre a farlo subito intervistare in un posto avanzato da un giornalista del quotidiano «Idea Nazionale», gli assicurò sulla stampa italiana di febbraio tutta una serie di articoli laudativi del suo operato. Perciò Cadorna il 29 febbraio ringraziò Ojetti, dimostrandosi contento che il Comando supremo fosse stato considerato superiore alle critiche degli ignoranti e degli sfaccendati. Chiara allusione questa agli uomini politici.<br />
Però lo stesso Cadorna, dopo l’esaltante campagna giornalistica in suo favore, poté finalmente dare sfogo al proprio risentimento verso Zupelli, imponendo a Salandra la destituzione del ministro della guerra: o via lui, scrisse, o via io.<br />
Il presidente del Consiglio rispose di non poter subire imposizioni, precisando altresì che secondo lo Statuto del Regno d’Italia solo al sovrano spettava la nomina e la revoca dei ministri.<br />
Due giorni dopo Cadorna replicò al Capo del governo con la presentazione delle proprie dimissioni da Comandante supremo. <br />
Salandra reagì rimettendo l’intera questione nelle mani del Re, cioè dichiarando fra l’altro: “Con perfetta tranquillità di spirito ritengo però che in questo momento sia nell’intesse del Paese minor danno cambiare il ministro che non cambiare il capo di stato maggiore, perciò rassegno le mie dimissioni e resto in attesa degli ordini di Vostra Maestà”. <br />
Il Re ribadì il principio che la richiesta di allontanare Zupelli non era corretta dal punto di vista costituzionale. Cadorna rinunciò allora sia alla sua richiesta sia al suo proposito di dimettersi. Anche Salandra non parlò più di lasciare il Governo.<br />
Alla fine, dunque, se nella forma l’ebbe vinta il presidente del Consiglio, nella sostanza fu il comandate supremo a prevalere, anche perché il 9 marzo Zupelli, adducendo come motivo il clamore suscitato da una campagna giornalistica in corso, si dimise. A questo proposito Salandra scrisse poi al Re di ritenere che il ministro della guerra non a torto vedeva nella la campagna giornalistica contro di lui l’ispirazione dello Stato Maggiore.<br />
Fu quindi nominato ministro della guerra il generale Paolo Morrone, in base a una scelta fatta non da Salandra, ma dallo stesso Cadorna. Circostanza questa peraltro confermata dal ministro delle Poste Vincenzo Riccio, il quale scrisse che il Morrone era in seno al Consiglio dei ministri la longa manus del gen. Cadorna, i cui ordini eseguiva “con poco ingegno e molta scrupolosità”. Il Consiglio dei ministri si adattò al nuovo modus vivendi e per un certo tempo non pose più in discussione l’operato del Comando supremo<br />
Tutto questo è la dimostrazione inequivocabile che nel 1916 in Italia il Comando supremo dell’Esercito contava molto più del Governo dello Stato.<br />
Il 15 maggio, improvvisamente, le truppe austro-ungariche, iniziarono nel Trentino, fra i fiumi Adige e Brenta la strafexpedition (= spedizione punitiva) contro l’Italia che aveva tradito la Triplice Alleanza, di cui faceva parte insieme a Germania e Austria. Sin dagli ultimi giorni di marzo erano stati avvertiti dai reparti italiani i sintomi di una possibile offensiva austriaca, ma non era stata messa in atto nessuna misura preventiva in quanto Cadorna diceva di non creder che i nemici volessero impegnarsi nel Trentino. E il 15 maggio, quando gli austriaci avevano già sfondato le linee italiane, i ministri, che ancora non lo sapevano, dopo una riunione del Consiglio, erano rimasti a discorrere della guerra, in quanto erano preoccupati che dal punto di vista militare l’Italia si stesse facendo molto poco. <br />
Ma quando giunsero le prime gravissime notizie dal fronte lo sgomento fu generale.<br />
La strafexpedition aveva portato la guerra in casa: gli austriaci avanzavano in territorio italiano e non si sapeva ancora dove sarebbe stato possibile arrestarli. Pertanto il 24 maggio, 1° anniversario della dichiarazione di guerra, ci fu un’agitatissima riunione del Consiglio dei ministri, durante la quale Barzilai e Martini dichiararono che la loro fiducia in Cadorna era scossa, mentre Sonnino disse addirittura di essere seriamente preoccupato che le sorti d’Italia fossero affidate ad una sola persona, la quale neppure dava conto del suo operato e, perciò, propose la convocazione di un convegno tra Cadorna, i Comandanti di armate, il Capo del governo e cinque ministri. <br />
Tale proposta venne approvata dal Consiglio, ma il Comandante supremo il 25 maggio telegraficamente comunicò il proprio rifiuto di aderirvi, adducendo una articolata motivazione la quale si concludeva con l’affermazione che egli, fino a quando avesse avuto l’onore di godere della fiducia del Re e del Governo, si sarebbe assunte tutte le responsabilità, altrimenti avrebbe pregato di essere sostituito con la massima urgenza. Comunque si dichiarava disposto a fornire tutte le informazioni desiderate.<br />
A questo punto i ministri, non sapendo cosa fare, inviarono in zona di guerra per raccogliere informazioni il solo gen. Morrone. Questi, dopo quattro giorni, tornando dal fronte portò al Consiglio il rapporto di Cadorna, costituito di un sola paginetta!<br />
In questa, però, era fra l’altro scritto che, a causa della minacciata invasione austriaca dalla parte della Val Lagarina, poteva diventare necessaria la nostra ritirata dall’Isonzo al Piave. <br />
La lettura di detto rapporto provocò una vera insurrezione dei ministri presenti. E, mentre V. E. Orlando dichiarava che una ritirata fino al Piave avrebbe significato la capitolazione e la guerra perduta, Sonnino affermava che Cadorna aveva tradito il Paese e bisognava porre il dilemma: “O lui, o noi”. Anche Martini, Barzilai e Riccio sostenevano che fosse necessaria la sostituzione del Capo di stato maggiore, che fu quindi proposta al Re. Questi non sollevò obiezioni, ma dichiarò esplicitamente che l’iniziativa doveva essere assunta dal Governo. Ma il presidente Salandra, cercando di non affrontare subito il problema, convinse il Consiglio a deliberare di lasciare Cadorna al suo posto, tenendo pronto un successore. Quindi tutto restò come prima e non si riuscì neppure a convincere il Comandante supremo ad informare preventivamente il governo di una eventuale ritirata dall’Isonzo al Piave. <br />
Questa impotenza, dimostrata nella direzione delle vicende militari, contribuì alle dimissioni del presidente Salandra (18 giugno 1916), ormai inevitabili in quanto al suo scarso impegno nella condotta della guerra (peraltro dichiarata contro la sola Austria) erano addebitati i gravi insuccessi sui campi di battaglia.<br />
Dopo la caduta di Salandra la classe politica italiana non fu in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Venne, infatti, costituito un governo di unità nazionale, presieduto da un uomo politico di scarso rilievo e di ancor più scarsa autorità, qual era l’anziano patriota Paolo Boselli. Questi secondo il senatore L. Albertini era “uomo che nel discutere scivolava via senza che si riuscisse ad afferrarne il pensiero, perché non aveva un pensiero ben definito e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze”.<br />
Proprio traendo norma dall’ambiente e dalle circostanze e vedendo che l’offensiva nemica sull’Altopiano di Asiago era stata fermata, il neo Capo del Governo ritenne opportuno inviare un telegrafico e fidente saluto “all’insigne capitano” che guidava “i soldati d’Italia alla vittoria”.<br />
Ma di queste parole furono scontenti tanto Cadorna e i cadorniani quanto gli anticadorniani. I primi perché giudicavano le stesse troppo caute e, quindi, non rappresentanti un vero encomio. I secondi perché rimproveravano al nuovo Governo di avere in tal modo impegnato, senza un preventivo esame, la propria libertà di giudizio in ordine al problema di un eventuale esonero del Comandante supremo. Problema questo che si era seriamente posto il Ministero precedente.<br />
Nei primi giorni di attività governativa Boselli chiese al Capo di stato maggiore una relazione sulle ultime operazioni militari da leggersi in parlamento. La ebbe, ma non se ne valse. Cadorna si offese, tanto più perché venne a sapere che il presidente del Consiglio abitualmente parlava male di lui. <br />
La contesa tra militari e politici sulla conduzione della guerra, che tendeva a inasprirsi all’inizio del 1916, non era stata, quindi, neppure mitigata, intorno alla metà di giugno in virtù dell’azione generosa anche se non sempre appropriata di alcuni uomini di governo, ed in particolare del ministro Zupelli.<br />
Ma alla fine del 1° semestre, cioè dopo l’uscita di scena del Governo Salandra (17 giugno), mentre la guida dell’Esercito era ben salda nelle mani di Luigi Cadorna le condizioni politiche del Paese subirono un imprevisto e grave peggioramento. Infatti il Governo Boselli “Era il ministero della debolezza che simulava la forza”, come disse F. S. Nitti. Era un Governo di Unità Nazionale, cioè di tutti i partiti e rischiava l’inefficienza e la paralisi nell’azione. Inoltre era guidato da un politico compiacente e benevolo con tutti e ormai al termine della sua carriera politica. <br />
Il Ministero Salandra aveva avuto dodici ministri. Invece quello di Boselli ne contava venti, di cui solo tre [V. E. Orlando (interni), P. Morrone (guerra), S. Sonnino (esteri)] con l’esperienza governativa che mancava agli altri diciassette. Infine questi ultimi, essendo diversi fra loro per formazione ed idee, difficilmente avrebbero potuto assicurare quell’azione decisa ed efficiente necessaria al Paese in guerra. <br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; tab-stops: 48.25pt; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"> <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"> <b>Contrasti
tra politici e militari alla fine del 1916 - </b></span><b><span style="font-size: 14.0pt;">Soldati e ufficiali nella guerra «cronica»</span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Del Governo di Unità Nazionale, formato da Paolo Boselli nel giugno1916, faceva parte come ministro senza portafoglio, ma che ufficiosamente aveva l’incarico di creare un collegamento tra l’esecutivo e il Comando Supremo, Leonida Bissolati. Questi, avendo grande autorità e prestigio, avrebbe dovuto incarnare le speranze degli italiani, in quanto coerente con le sue idee di acceso interventista: allo scoppio della guerra si era arruolato volontario a 54 anni e, partecipando eroicamente ai combattimenti sul Monte Nero (1915) e sull’Altopiano di Asiago (1916), aveva meritato due medaglie d’argento.<br />
Dopo la nomina a ministro Bissolati fece ritorno in zona di guerra per parlare col Re, con Cadorna e con Porro della necessità di promuovere un’inchiesta sugli avvenimenti relativi alla strafexpedition. Questo suo intervento suscitò la diffidenza generale e soprattutto urtò la suscettibilità del Comandante Supremo, il quale con una lettera del 7 agosto comunicò seccamente al presidente del Consiglio che egli non riconosceva a Bissolati la funzione d’intermediario e che le relazioni tra il Governo e lo Stato Maggiore dell’Esercito dovevano esser tenute solamente dal ministro della Guerra.<br />
Boselli, da quel debole che era, rispose dichiarandone il proprio totale ed incondizionato accordo.<br />
Cadorna inviò, quindi, ai comandi dell’Esercito un ordine col quale vietava a qualunque ministro di entrare in zona di guerra senza il suo preventivo assenso. Egli, peraltro, temeva che Bissolati volesse “silurarlo” e sostituirlo col generale Luigi Capello.<br />
Pertanto quando, in seguito alla conquista di Gorizia (9 agosto 1916), la stampa esaltava Capello, comandante del VI Corpo d’armata, considerandolo artefice della vittoria, il Comandante supremo vide nella campagna giornalistica una precisa orchestrazione contro di lui. Inoltre trapelò la notizia che tra Capello e Bissolati ci fossero “legami settari” (massonici). Perciò Cadorna ai primi di settembre tolse a Capello il comando del VI Corpo d’armata, nell’intento di punire tanto Capello quanto Bissolati. <br />
Col passar dei giorni l’ira del Comandante Supremo crebbe ancor più, poiché Bissolati si trovò coinvolto in uno scandalo involontariamente provocato dal comandante del Servizio Aeronautico Italiano, il colonnello Giulio Douhet. Questi infatti, verso la fine di agosto, aveva redatto un memoriale anticadorniano, che cercò di far pervenire ai ministri Bissolati e Sonnino tramite l’on. Gaetano Mosca. Ma a quest’ultimo fu sottratto in treno il compromettente plico che giunse proprio nelle mani di Cadorna. Douhet fu quindi denunciato al tribunale militare che lo condannò ad un anno di reclusione. Durante il processo l’accusa, secondo Bissolati, non era riuscita a provare l’esistenza di alcuna “congiura” contro il Comandante Supremo. Tuttavia la tensione salì alle stelle, perciò il presidente del Consiglio Boselli si recò personalmente in zona di guerra, recando con sé una lettera, che Bissolati mandava a Cadorna per significare di non aver mai voluto creare imbarazzi, ordire insidie o fomentare l’indisciplina contro il Comando Supremo.<br />
Lo stesso Boselli, facendo appello al patriottismo, disse che, se Bissolati non fosse stato ricevuto in detto Comando, tutto il Governo avrebbe dovuto dimettersi. <br />
Il Comandante Supremo dapprima ribadì il suo rifiuto, ma dopo 15 giorni, grazie anche all’intervento del Re, acconsentì a ricevere il ministro Bissolati, anche se in realtà continuò a porre limiti severissimi alle attività dello stesso in zona di guerra.<br />
Tuttavia in seguito i rapporti tra Cadorna e Bissolati divennero quasi amichevoli. Il miglioramento, iniziato con i ringraziamenti del primo al secondo per le prudenti ed accondiscendenti dichiarazioni fatte alla Camera in merito al caso Douhet, fu consolidato da una sostanziale coincidenza di opinioni su vari problemi della guerra. C’è stato, però, chi non a torto ha sostenuto che il segreto della rappacificazione fra i due fosse la sottomissione di Bissolati a Cadorna. Quest’ultimo, quindi, aveva ancora una volta dimostrato di possedere un’energia ben diversa da quella della maggioranza dei politici del suo tempo.<br />
L’Esercito italiano si oppose validamente alla strafexspedition austro-ungarica e, nel corso dei combattimenti avvenuti tra maggio e giugno 1916, perdette circa 113mila uomini tra morti e feriti. Tuttavia lo stato d’animo delle truppe non era stato uniforme sull’intero fronte. Infatti, mentre le ali dello schieramento si erano mantenute abbastanza salde, al centro le truppe avevano mollato. Perciò un generale uccise 8 soldati che fuggivano e ordinò di fucilare chiunque avesse mollato.<br />
Il 21 maggio, quando ci fu lo sfondamento delle linee italiane, Cadorna, avendo constatato che alcuni reparti avevano abbandonato posizioni di capitale importanza senza nemmeno cercare di difenderle, affermò in presenza dei piantoni che bisognava fucilare “senza processo” e che egli se ne assumeva la responsabilità. Un esplicito ordine in tal senso venne poi impartito il giorno 26 con lettera del Comando Supremo, stampata e distribuita a tutti i comandi.<br />
Solo due giorni dopo, cioè il 28 maggio, un sottotenente, tre sergenti e otto soldati del 141° reggimento di fanteria messo in fuga dagli austriaci, furono fucilati per ordine del colonnello comandante, che ricevette un solenne encomio da Cadorna. <br />
Questo fu il primo caso di decimazione avvenuto nel Regio Esercito italiano.<br />
Il seguente 11 giugno fu destituito il comandante del XIV Corpo d’Armata per non aver adottato mezzi subitanei di repressione nei riguardi di reparti “andati a rifascio in brevissimo tempo senza combattere”, dei quali aveva però deferito alcuni ufficiali alla corte marziale. Fu quindi ribadito l’ordine di fucilare sul posto sia i soldati che gli ufficiali, poiché si sapeva che i tribunali erano restii ad emettere condanne a morte. <br />
Ai primi di luglio l’89° reggimento della brigata Salerno, dopo 10 mesi trascorsi in uno dei più disagiati settori del fronte, era stato trasferito in un settore più tranquillo per un periodo di “riposo”, ma fu sorpreso dalla strafexpedition e dovette combattere. In seguito parecchi soldati, in parte feriti, erano in una località, da cui non potevano rientrare nelle linee italiane, perché sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Dopo essere stati isolati e senza soccorsi per due giorni e due notti nella zona fra le opposte trincee, cioè nella terra di nessuno, tentavano di arrendersi al nemico. Perciò i comandi superiori ritennero opportuno ordinare alle artiglierie di far fuoco su di essi. Due giorni dopo il comando del corpo d’armata ordinò la decimazione tra i militari dell’89°, che comportò la fucilazione di otto militari. Nondimeno Cadorna si dichiarò convinto che la giustizia non avesse colpito ciecamente. <br />
D’altronde il generalissimo considerava gli uomini irreggimentati nell’esercito da lui comandato “un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi, che un comandante non aveva il tempo di rieducare”. Tuttavia i suoi giudizi negativi coinvolgevano anche gli ufficiali, i quali avrebbero dovuto essere i naturali educatori di quelle masse. Infatti all’inizio della guerra, mentre considerava la mancanza di almeno 13.500 unità, riferendosi ai 15mila ufficiali effettivi esistenti, affermava che questi erano “abbastanza buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi, ed in alto – insieme a parecchi buoni ed ottimi – altri non pochi insufficienti”. <br />
Non poteva certo essere migliore il giudizio del Comandante Supremo nei riguardi dei tanti mobilitati che erano ufficiali di complemento. <br />
Per ovviare alla grave carenza di ufficiali fu necessario istituirne a ritmo serrato corsi di addestramento, che normalmente duravano tre mesi, ai quali erano ammessi i mobilitati che fossero in possesso della licenza di scuola secondaria superiore. Quindi i frequentanti dei corsi erano uomini anche laureati, ma soprattutto giovani, talvolta non ancora ventenni. Vennero anche istituiti i cosiddetti “corsi di corsa”, con i quali l’allievo otteneva la nomina a sottotenente in 60 (sessanta) giorni, e precisamente 40 a Modena e 20 alla Porretta, seguiti da una breve licenza; subito dopo il neo-ufficiale veniva mandato a comandare un reparto di linea. <br />
Dall’agosto del 1914 al novembre 1918 furono molto rapidamente addestrati più di 160mila nuovi ufficiali.<br />
Scrisse il gen. Luigi Capello: “E’ evidente che l’improvvisazione di una così gran massa dovesse andare a scapito della qualità”.<br />
Disse Adolfo Omodeo che il più grave problema, per il giovane ufficiale di provenienza borghese, era quasi sempre costituito dal rapporto con il soldato proletario, spesso analfabeta, spesso più anziano e più maturo del suo tenente.<br />
Senza mezzi termini Emilio De Bono spiegò come fosse facile che i neo ufficiali si trovassero in un primo tempo alla mercé dei loro subordinati.<br />
“Siamo in mano alle criature”(cioè ai bambini) disse un fante al suo generale. <br />
Durante e dopo la guerra gli ufficiali di complemento criticavano duramente di “carrierismo” i loro colleghi effettivi, arrivando addirittura a sostenere che spesso avessero ordinato ai reparti azioni inutili, ma dispendiose in vite umane, al fine di conseguire un avanzamento di grado. Inoltre i primi rivolgevano ai secondi anche l’accusa di “imboscati”, sostenendo che, grazie alla complicità dei superiori, gli ufficiali permanenti riuscissero ad ottenere posti più sicuri nel Paese ed al fronte. Quest’ultimo genere di accusa ha trovato conferma i varie testimonianze scritte, tra cui quella di Cesare Battisti, contenuta in una lettera alla moglie del 5 settembre ’15. <br />
La conquista di Gorizia, avvenuta l’8 agosto 1916, pur non avendo un grande valore strategico, rianimò un poco sia l’opinione pubblica che lo spirito dei combattenti, ma tutti si avvidero rapidamente che la guerra quotidiana continuava nelle forme ormai consuete.<br />
Intanto nel luglio 1916 gli uomini alle armi erano diventati 2.350.000, mentre un anno prima erano un milione e mezzo.<br />
Nel settembre successivo ebbe inizio l’impiego di un nuovo tipo di artiglieria da trincea, “la bombarda”, il cui tiro – si disse – avrebbe certamente distrutto i reticolati nemici, ma la nebbia e l’umidità autunnali impedirono quasi sempre il raggiungimento di tale risultato.<br />
Tuttavia Cadorna tra ottobre e novembre ordinò due brevi offensive, ma tanto costose in vite umane che alcuni reggimenti della III Armata si erano ribellati, subendo perciò la decimazione. Quando finalmente il generalissimo ordinò la sospensione dei combattimenti fino alla primavera del 1917, il bilancio dell’anno 1916 si rivelò doloroso: 404.500 morti e feriti, contro i 246.500 del 1915.<br />
Come il numero delle perdite anche l’indice di autolesionismo aumentò notevolmente nel secondo anno di guerra. Infatti nel 1916 ci furono 4.133 condanne per mutilazioni volontarie o per lesioni e infermità procurate al fine di evitare il servizio militare, mentre le stesse nel 1915 erano state 1.403. Tuttavia gli autolesionisti cominciarono a diminuire alla fine del 1916: essi fino ad allora, stando in carcere se condannati, rimanevano lontani dal fronte, invece un decreto luogotenenziale dell’ottobre stabilì che anche se condannati alla reclusione dovessero essere inviati in linea.<br />
Alla vigilia del secondo inverno di guerra molti ufficiali avvertivano l’urgente necessità di risollevare in qualche modo lo spirito delle truppe. In particolare un generale dichiarò che ai soldati avrebbe fatto più bene un’ora di divertimento, che cento grammi di pane in più.<br />
Invece, la razione di pane fu ridotta da 750 a 600 grammi, e il 19 novembre Cadorna emanò una circolare, con la quale imponeva ad ufficiali e soldati di comportarsi in pubblico “in modo conforme alle esigenze dello stato di guerra” e, quindi, evitando distrazioni e divertimenti.<br />
Una distrazione consentita era quella della lettura e le Case del Soldato erano abbastanza fornite di libri.<br />
Fino al 1916 la propaganda “sovversiva e disfattista” non aveva ancora suscitato gli allarmi del Comando Supremo, il quale solo il 18 giugno di quell’anno emanò una circolare contro la diffusione di pubblicazioni antimilitariste.<br />
Invece, relativamente alla propaganda pacifista, nell’agosto del 1916 una circolare del Ministero della Guerra vietava di far giungere alle truppe opuscoli o manifesti “tendenti a deprimerne il morale ed a fare opera contraria alle istituzioni ed alle aspirazioni nazionali”.<br />
Grande importanza ebbe poi la circolare inviata il 4 novembre dal Ministro degli Interni, V. E. Orlando, ai Prefetti per segnalare la minaccia della propaganda che elementi “rivoluzionari” avrebbero potuto svolgere presso i soldati che giungevano in licenza invernale. Si cominciava, dunque, a temere che influenze negative del Paese potessero turbare lo stato d’animo delle truppe.<br />
In particolare si temeva che il Partito Socialista potesse cavalcare la grande preoccupazione generale dovuta al prolungarsi indefinito della guerra e, quindi, imporre la pace e far precipitare l’Italia nel caos e nella sconfitta.<br />
Tuttavia il ministro Orlando ostentava tranquillità e si rifiutava di adottare misure di carattere straordinario nei riguardi dei socialisti, spiegando in privato che Turati e Treves, capi del partito, stavano impedendo e frenando gli eccessi dei loro compagni più intransigenti, e che non avrebbero potuto continuare la loro attività moderatrice se il partito venisse colpito da provvedimenti eccezionali.<br />
Invece era seriamente preoccupato per l’atteggiamento dei socialisti (che in Parlamento avevano anche presentato una mozione per chiedere la pace senza annessioni) il ministro Bissolati, al quale stesso Orlando, avendolo incontrato il 31 dicembre, precisò di avere pronti i decreti per proclamare, se necessario, lo stato d’assedio. <br />
In effetti, però, neppure la frazione estremista del Partito socialista era disposta ad assumersi fino in fondo la responsabilità di una disfatta. <br />
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<b><span style="font-size: 14.0pt;">Il 1917 prima di Caporetto<o:p></o:p></span></b></div>
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Due avvenimenti sconvolgenti, quali la caduta in marzo del governo zarista russo e l’entrata in guerra (6 aprile) degli Stati Uniti d’America contro gli Imperi centrali, segnarono nei primi mesi del 1917 l’inizio di una nuova epoca storica.<br />
Intanto l’Esercito italiano, nonostante la depressione degli animi e i contrasti tra potere politico e potere militare, poteva godere di una vera e propria tregua, poiché dai primi di novembre 1916 a metà maggio 1917 non ci furono operazioni militari di rilievo. Questo permise agli uomini in armi di ritemprare le forze, mentre le giovani reclute della classe 1897 portavano al fronte, secondo A. Omodeo, “un’ondata di freschezza”.<br />
Invece l’esercito austro-ungarico, meno omogeneo di quello italiano in quanto costituito da soldati di varie nazionalità, era profondamente minato dall’indisciplina.<br />
Infatti frequentemente accadeva che ufficiali romeni o cechi o boemi disertassero per informare gli italiani sulle operazioni che stava preparando il proprio esercito, nei cui baraccamenti non mancavano mai le scritte inneggianti alla pace, nonostante il costante impegno dei comandi a farle cancellare.<br />
Anche in Germania era grave il contrasto tra il potere politico e quello militare. Contro quest’ultimo s’indirizzava, in una prima fase, il malcontento delle popolazioni. Tuttavia nell’estate del 1917 entrambi i poteri persero la fiducia di tutti gli strati sociali, nei quali si andava sempre più diffondendo il desiderio che fossero iniziate trattative di pace.<br />
Sul fronte francese, fra l’aprile e l’ottobre 1917, circa 40mila soldati si ammutinarono, compiendo atti d’indisciplina e manifestando al canto dell’Internazionale. D’altronde tutti i francesi erano esausti per i sacrifici patiti fin dall’agosto 1914 e a Parigi soldati e scioperanti fraternizzavano, inneggiando alla rivoluzione russa e alla pace. <br />
Allo scoppio della rivoluzione a Pietrogrado (12 marzo 1917) il giornalista Rino Alessi informava il suo direttore che gli avvenimenti di Russia non avevano “nessuna ripercussione” al fronte e che l’esercito rimaneva “calmissimo”.<br />
In effetti i comandi superiori italiani avevano ordinato agli ufficiali di spiegare ai soldati che gli avvenimenti russi dovevano essere considerati come un vera fortuna per l’Intesa, poiché il governo rivoluzionario avrebbe certamente dato maggiore impulso alla guerra contro gli Imperi centrali.<br />
In aprile, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, aumentò la speranza in una svolta decisiva foriera di pace.<br />
Il fermento dovuto a questi avvenimenti internazionali si traduceva, dunque, nella speranza di una imminente fine della guerra. Ma a partire dal 12 maggio ebbe inizio la X battaglia dell’Isonzo a cui seguì l’offensiva dell’Ortigara. Il sostanziale fallimento di entrambe le operazioni produsse sullo spirito delle truppe conseguenze considerate gravi e preoccupanti dalle autorità politiche e anche da alcuni comandanti militari. Ai primi di luglio Il Vescovo di campo, mons. Bartolomasi, ritenne suo dovere recarsi a Roma per informare della situazione il capo del governo Boselli.<br />
<br />
Il gen. Cadorna diede sì l’ordine di sospendere i combattimenti, ma concedendo solo due mesi di tregua alle truppe, che a suo avviso non avevano esaurito il loro spirito combattivo. In effetti la tregua servì alla preparazione dell’undicesima battaglia dell’Isonzo che si prevedeva più impegnativa delle precedenti in quanto l’obiettivo principale era la conquista dell’altopiano della Bainzizza. Questo preoccupava molto i politici. In particolare, il 1° agosto, l’on. Giovanni Amendola scrisse al ministro Bissolati, scongiurandolo d’intervenire affinché si rinunziasse all’offensiva, per non sottoporre le truppe ad una nuova e logorante prova.<br />
Ma, contrariamente a quel che si pensava, i grandiosi preparativi della battaglia ebbero ripercussioni molto positive sullo stato d’ animo dei soldati, come se tutti sperassero che alla conquista della Bainzizza sarebbe seguita la pace.<br />
L’andamento delle operazioni all’inizio fu incoraggiante, ma dopo pochi giorni fu evidente il loro fallimento: modesti furono i risultati territoriali dell’offensiva e del tutto negativi quelli strategici, dato che la nuova prima linea risultava più vulnerabile della precedente, mentre erano stati perduti circa 100mila uomini. <br />
Ovviamente lo spirito delle truppe subì un nuovo tracollo, sempre per evidenti ragioni d’indole militare: la Bainsizza, infatti aveva dimostrato che la guerra di logoramento, mentre estenuava entrambe le parti contendenti, consentiva solo risultati locali, ma non portava all’attesa soluzione finale del conflitto.<br />
Nel 1917 ci fu un vero e proprio scadimento disciplinare dell’Esercito italiano: aumentò il numero dei processi per reati d’indisciplina, insubordinazione e diserzione; non mancarono gli autolesionisti che diminuirono dopo il mese maggio, ma soltanto in seguito a due fucilazioni ammonitrici.<br />
Spesso i militari in viaggio verso il fronte sparavano o lanciavano pietre dai treni, insultavano i borghesi, gli operai e i ferrovieri considerandoli imboscati, effettuavano danneggiamenti ed altri atti di protesta, accompagnati da grida inneggianti alla pace.<br />
Dal maggio all’ottobre 1917 si contarono circa 60 processi per ammutinamento con rivolta. In genere gli atti d’indisciplina nascevano spontaneamente, si svolgevano in forma disordinata, terminavano rapidamente dopo l’intervento dei comandi, prima che le repressioni fossero poste in atto. Le manifestazioni di protesta avevano luogo soprattutto al momento di tornare in linea ed erano originate per lo più dalla mancata concessione di licenze o dal mancato rispetto dei turni di riposo.<br />
Soltanto in un caso le truppe forse protestarono secondo un piano preordinato: fu nel luglio 1917 a S. Maria La Longa, allorché una rivolta di eccezionale gravità si verificò fra i soldati della brigata Catanzaro (141° e 142° reggimento fanteria).<br />
Alcune settimane prima della rivolta, mentre il 142° reggimento si accingeva a ritornare in linea, si erano udite scariche di fucileria e grida di protesta, subito sedate dagli ufficiali. I carabinieri, dopo accurate indagini, il 14 luglio avevano individuato in nove militari i possibili istigatori di nuove proteste da mettere in atto in futuro. Questi furono fatti arrestare dal comando di brigata il 15 luglio, quando il reggimento si preparava a partire per la prima linea. Ma verso le ore 22,45 in entrambi i reggimenti con spari di fucile e grida di ribellione ebbero inizio manifestazioni di rivolta, provocate da “non pochi” facinorosi che, minacciando i loro commilitoni rimasti nelle baracche trattenuti dagli ufficiali, tentarono d’invadere il paese con l’uso di bombe a mano e mitragliatrici. Negli scontri notturni morirono 2 ufficiali e 9 soldati, mentre furono feriti altri 2 ufficiali e 25 soldati. Tutta la VI compagnia del 142° si ammutinò, costringendo l’ufficiale comandante ad allontanarsi. I carabinieri, la cavalleria e le auto blindate, chiamati in aiuto dai comandi, non intervennero perché nell’oscurità non c’era una separazione netta tra i ribelli e gli altri militari. All’alba la rivolta cessò e tutti raggiunsero i reparti.<br />
Al mattino furono fucilati 28 soldati: 16 perché arrestati “con le armi cariche, le canne ancora scottanti”, e 12 in seguito a decimazione della suddetta VI compagnia.<br />
Verso le ore 11 la Brigata Catanzaro iniziò il trasferimento a Villa Vicentina, ma la repressione continuò nei giorni seguenti con altre 4 fucilazioni, 135 rinvii a giudizio di militari, l’allontanamento dalla brigata di 463 soldati e 33 ufficiali e sottufficiali nonché la sostituzione dei comandanti della brigata e dei due reggimenti e il deferimento al tribunale militare del comandante della VI compagnia.<br />
Principale causa della rivolta sarebbe stata la propaganda sovversiva che esaltava la rivoluzione russa. Fra le cause secondarie bisogna, però, considerare la sospensione delle licenze ai numerosi siciliani del 141° e 142° e la convinzione dei soldati che il trasferimento in prima linea spettasse ad altra brigata e non alla “Catanzaro”, che era stata a lungo sul fronte carsico, ritenuto da tutti il più rischioso.<br />
Il reato più diffuso nell’Esercito italiano era quello di diserzione, per il quale i condannati furono 10.272 nel primo anno di guerra, 27.817 nel secondo e addirittura 55.034 nel terzo.<br />
Secondo il gen. Cadorna la Sicilia era un covo pericoloso di renitenti e disertori.<br />
La maggior parte di coloro che erano considerati disertori tornavano in trincea e morivano in combattimento: soltanto il 2% passava al nemico; il restante 98% era in buona parte costituito da uomini che non avevano avuto mai l’intenzione di abbandonare il reparto e che si erano assentati arbitrariamente per un brevissimo periodo oppure erano tornati in ritardo dalla licenza.<br />
Numerosi erano i disertori che, pentendosi, facevano spontaneamente ritorno al reparto, dove venivano processati e rispediti in trincea. <br />
Altrettanto di solito accadeva a chi invece di tornare volontariamente era stato arrestato dalla forza pubblica. <br />
Su 101.665 condanne per diserzione soltanto 370 furono condanne a morte; le altre furono condanne alla reclusione, dopo le quali i condannati dovevano in genere tornare in linea, al fine di impedire che la diserzione diventasse un mezzo per “imboscarsi” nelle prigioni. <br />
Nel 1917 fu molto avvertita l’opposizione fra Esercito e Paese. Soldati e ufficiali si irritavano al pensiero che alle loro spalle ci fosse una nazione sostanzialmente estranea alla guerra. Infatti nelle città italiane continuavano ad essere regolarmente frequentati bar, teatri, locali notturni e negozi, ivi compresi quelli di lusso, mentre le fabbriche di automobili non sapevano più come soddisfare le esigenze dei privati e i gioiellieri lavoravano ad ornare le signore di perle e brillanti. Nello stesso tempo i giornali denunciavano illeciti guadagni e frodi nelle forniture militari.<br />
Soldati ed ufficiali erano ossessionati dal fatto che l’Italia fosse piena d’imboscati. In particolare la fanteria odiava le altre armi (cioè: artiglieria, genio, servizi e cavalleria), perché erano meno esposte ai pericoli. In effetti annualmente la percentuale media delle perdite (morti + feriti) era del 39,8% per la fanteria, del 4,1% per l’artiglieria, del 4,2% per il genio, dello 0,3% per i servizi e del 3,5% per la cavalleria.<br />
I fanti erano in grandissima parte contadini, quindi l’opposizione tra fanti ed imboscati divenne opposizione tra contadini e borghesi, tra contadini e proletariato urbano. I fanti sostenevano che i contadini non avessero nessuna strada per imboscarsi, mentre borghesi ed operai ne avevano cento. In particolare gli operai delle industrie, specie se operanti per la produzione di ciò che era necessario all’Esercito, ottenevano l’esonero dal servizio. Invece ai contadini per i lavori agricoli nel 1915 non furono concessi né esoneri né licenze straordinarie, mentre nel 1916 ci furono brevi licenze e 2.438 esoneri e nel 1917 licenze temporanee di 30 o 40 giorni in numero superiore al passato.<br />
Gli organi che dovevano deciderne la concessione erano diretti non da militari, ma da borghesi, da autorità locali, soggetti ad ogni forma di pressione. In proposito Arrigo Serpieri ha scritto “Grande e terribile era la loro autorità; essi potevano decidere non solo un prezioso aiuto al contadino affaticato, ma anche, forse, della vita o della morte di un figlio, di un fratello di un parente”.<br />
Le domande presentate erano sempre molto più numerose delle licenze che potevano essere concesse, perciò una scelta obiettiva delle stesse era molto difficile, per non dire impossibile.<br />
Nel 1917 alla commissione della Provincia di Roma furono presentate 20.000 domande. Ne furono scelte soltanto 2.000, e la commissione fu perseguitata da lettere, telegrammi e interrogazioni per conto delle 18.000 famiglie deluse. <br />
Numerosissime agitazioni contro la guerra ebbero luogo in Italia nel 1916 e più ancora nel 1917. La più grave si verificò a Torino, dove il 22 agosto 1917 un mancato rifornimento di farina fu causa di una dimostrazione per il pane, la quale degenerò in vero e proprio moto antimilitarista, che durò circa una settimana, provocando trentacinque morti fra i rivoltosi, di cui tre donne, e circa duecento feriti, mentre tra la forza pubblica e i reparti militari, che avevano partecipato alla repressione con mitragliatrici e autoblindo, i morti furono tre. Furono arrestate circa mille persone che, processate per direttissima, furono condannate alla reclusione.<br />
Ma già nel gennaio-marzo 1916, a Firenze, le donne del contado cercarono d’inscenare manifestazioni pacifiste. Nell’aprile successivo, a Mantova, altri gruppi di donne dimostrarono contro la guerra. Verso la fine del 1916 le agitazioni si moltiplicarono in misura impressionante. Quasi ogni lunedì – giorno in cui venivano distribuiti i sussidi alle famiglie dei mobilitati – venivano segnalate dimostrazioni spontanee di donne che reclamavano l’aumento dei sussidi e soprattutto il ritorno dei congiunti. La direzione generale di Pubblica Sicurezza calcolò che dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917 ebbero luogo 500 manifestazioni, alle quali parteciparono decine e decine di migliaia di donne.<br />
Nel corso del 1917 gli interventisti più accesi reclamavano insistentemente provvedimenti di carattere eccezionale contro tutti i neutralisti in generale e contro i socialisti in particolare. Perciò diedero vita a comitati e leghe di resistenza interna per mobilitare i loro seguaci e dar la caccia ai neutralisti. Un settimanale, “Il fronte interno”, fu l’organo di questi comitati e diventò presto famoso per il suo tono esasperato e fazioso.<br />
Il 15 maggio 1917 il comitato milanese di resistenza interna avvertì che se il governo avesse continuato a tollerare il “disfattismo”, il popolo si sarebbe fatta giustizia da sé. E il successivo 24 maggio tutte le rappresentanze dei gruppi interventisti, riunite al Campidoglio per celebrare il 2° anniversario dell’entrata in guerra, rivolsero al governo un perentorio invito a non favorire i nemici della vittoria.<br />
Intanto il ministro Leonida Bissolati, cercando ad essere nello stesso tempo il rappresentante dell’interventismo in seno a governo e del governo presso il Comando supremo, agiva perché Cadorna fosse solidale con gli interventisti e contribuiva ad esasperare l’avversione del generalissimo verso il governo e il parlamento. <br />
Nacque così tra interventisti e Comando supremo un vero e proprio “idillio”, del quale numerosissime furono le conferme fino alla disfatta di Caporetto.<span style="font-size: 14pt;"> </span></div>
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<b><span style="font-size: 14.0pt;">Cause
e svolgimento della battaglia di Caporetto</span></b></div>
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Nel 1917 e nell’immediato dopoguerra quasi tutti gli studiosi si trovarono d’accordo nel sostenere che la causa principale della sconfitta di Caporetto dovesse essere ricercata in un cedimento morale dei combattenti. Successivamente, invece, la storiografia ha rovesciato tale interpretazione, affermando che la sconfitta fu determinata da cause essenzialmente militari.<br />
In ottobre le truppe italiane si trovavano in uno stato di relativa tranquillità, poiché tutti (da Cadorna fino all’ultimo dei fanti) erano convinti che sul fronte nulla d’importante sarebbe accaduto fino alla primavera del 1918. Una conferma a tale convinzione venne fornita dalla partenza dei primi contingenti di soldati per le licenze invernali. Infatti il giorno 20 circa 120mila militari erano già andati in licenza e i comandi avevano ordinato di far partire per primi i soldati siciliani, ai quali in passato era stato negato di rivedere la famiglia. Pertanto le brigate Enna e Caltanissetta appartenenti al IV corpo d’ armata, che presidiava la zona del fronte, attraverso la quale sarebbero passati gli austro-tedeschi, risultavano ridotte in misura anormale, perché il Comando supremo aveva appunto ordinato di privilegiare ed intensificare la partenze dei soldati siciliani che costituivano le stesse. Inoltre erano in licenza anche circa 500 uomini del 125° reggimento fanteria di quella XIX divisione del XXVII corpo d’armata, che sarebbe stata travolta nelle prime ore della battaglia.<br />
Viene di solito detto che l’offensiva austro-tedesca del 24 ottobre era attesa dai comandi italiani, i quali tra settembre e ottobre avrebbero perciò schierato la seconda armata secondo un piano controffensivo. Invece tra agosto e ottobre le truppe di detta armata erano ancora schierate dove si trovavano dopo l’operazione della Bainzizza e i contrattacchi austriaci. Non esisteva dunque alcun piano di difesa, anche perché, nonostante tutto, da parte degli italiani si continuava a credere che le voci di un’imminente offensiva nemica facessero parte di un bluff. <br />
Nelle due prime settimane di settembre dette voci acquistarono maggiore consistenza, e nella seconda quindicina pervennero anche informazioni relative ad una partecipazione germanica all’offensiva nemica in preparazione.<br />
Ma il gen. Cadorna, già scettico sull’imminenza di un’offensiva nemica, era persuaso che i tedeschi non sarebbero mai intervenuti sul fronte italiano finché Trieste non fosse stata minacciata: per questa ragione aveva deciso di attaccare in direzione di Trieste soltanto nella primavera del ’18, quando gli anglo-francesi e gli americani sarebbero stati in grado di tenere a bada l’esercito germanico. <br />
Egli il 4 ottobre decise dunque di trasferirsi per una vacanza di quindici giorni a Villa Camerini (Vicenza), proponendosi di decidere al ritorno il passaggio dei reparti ai quartieri invernali. Pochi giorni più tardi, il 13 ottobre, un pro-memoria dell’Ufficio Situazione del Comando supremo precisò addirittura che un’offensiva nemica nel settore Tolmino – Monte Santo dovesse considerarsi “molto probabile e prossima”. Il generalissimo però non se ne preoccupò e restò in vacanza, perché riteneva che la seconda armata possedesse forze in abbondanza, e perché nonostante tutto rimaneva convinto che l’offensiva autunnale fosse illogica.<br />
Rientrato a Udine il giorno 19, convocò il generale L. Capello e, dopo avergli consegnato un’alta onorificenza, gli ordinò di rendere idoneo alla controffensiva lo schieramento della seconda armata che, come già detto, era ancora nella posizione raggiunta al termine della battaglia della Bainzizza.<br />
Tutti e due i generali erano ben lontani dall’immaginare l’offensiva nemica così vicina e così poderosa come essa fu.<br />
Il 21 ottobre, cioè ad appena 72 ore dall’inizio della battaglia, un ufficiale ed un soldato boemi e due ufficiali romeni, disertori dall’esercito austro-ungarico, fornirono agli italiani precise notizie sulla minaccia incombente. Ma le loro dichiarazioni non furono interamente credute, in quanto essendo molto dettagliate sembravano vanterie.<br />
Ciò che invece provocò maggiore impressione tra i comandi furono i “tiri d’inquadramento” eseguiti nella mattinata del 21 da alcune batterie nemiche. Al Comando supremo l’atmosfera mutò e si pensò che l’indomani avrebbe avuto inizio il bombardamento che solitamente precedeva le offensive.<br />
Essendo il gen. Capello assente per malattia, Cadorna si occupò personalmente dei preparativi di difesa. I suddetti disertori romeni avevano precisato che l’attacco austro-tedesco sarebbe stato condotto in direzione di Plezzo, presidiato dal IV corpo d’armata del gen. A. Cavaciocchi. Ma il generalissimo, recatosi sul posto, espresse ancora una volta il suo scetticismo dicendo: “Io non credo che il nemico voglia cacciarsi nella conca di Plezzo. E poi vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!”<br />
Il 23 mattina Cadorna chiese il motivo per cui le batterie non erano state spostate in posizione difensiva al comandante del XXVIII corpo d’armata, gen. Pietro Badoglio. Questi addusse come scusa il tempo necessario per effettuare tale spostamento con tutte le munizioni e aggiunse di non ritenere imminente un attacco nemico, perché non c’era stato alcun bombardamento di preparazione.<br />
Gli austro-tedeschi sorpresero e poi travolsero gli italiani a Caporetto, perché nella preparazione e nella conduzione della battaglia applicarono i seguenti nuovi procedimenti tattici:<br />
<br />
a) Le truppe d’assalto vennero trasportate segretamente nelle zone loro assegnate, con movimenti compiuti soltanto di notte, oscurando gli alloggiamenti, occultando ogni indizio alle investigazioni aeree.<br />
<br />
b) I primi militari tedeschi cominciarono a giungere nella zona della battaglia un mese prima che questa avesse inizio.<br />
<br />
c) Le artiglierie austro tedesche eseguirono prima della battaglia pochi tiri di “aggiustamento” o di “inquadramento” distribuiti in più giornate, suscitando fra gli italiani incertezze circa le loro effettive intenzioni, al punto che Badoglio la mattina del 23 aveva rassicurato Cadorna, facendogli notare che non c’era stato ancora un vero bombardamento in preparazione di un attacco.<br />
<br />
d) La preparazione effettuata dall’artiglieria ebbe iniziò alle ore 2 del 24 ottobre, calò d’intensità fra le 4,30 e le 5,30 fin quasi a cessare; riprese poi violentissima, su una profondità di appena quattro-cinque chilometri, dalle 6,30 alle 8,30; dunque mancò il consueto lungo bombardamento, che dava tempo di adottare opportune contromisure.<br />
<br />
e) Fin dall’inizio del bombardamento le artiglierie austro-tedesche diressero il loro intensissimo fuoco non soltanto contro le prime posizioni (dove c’erano le fanterie), ma tiravano anche migliaia di colpi sulle batterie italiane nell’intento di distruggerle.<br />
<br />
f) Gli austro-tedeschi impiegarono contro le trincee e le batterie italiane proiettili a gas, contro i quali non esisteva una efficace difesa. In particolare a Plezzo un battaglione tedesco mise in funzione un migliaio di bombole contenenti fosgene per annientare i soldati italiani delle prime linee. Così in soli trenta secondi oltre seicento fanti morirono in silenzio con il fucile al loro fianco. Nel bombardamento, di cui in d), la pausa dalle 4,30 alle 6,30 era proprio finalizzata all’annientamento col gas dei reparti che si fossero portati sulle prime linee.<br />
<br />
g) Gli austro-tedeschi non dispersero il loro sforzo lungo un vasto tratto di fronte, ma lo concentrarono su due brevissimi spazi di fondovalle a Plezzo e Tolmino, punti deboli dello schieramento italiano, perché poco guarniti in conformità al principio che “fondamentale era il possesso delle cime”, le quali andavano strenuamente difese, mentre il possesso dei fondovalle ne sarebbe stata automatica conseguenza. <br />
<br />
h) Il fuoco delle artiglierie ebbe lo scopo di aprire due varchi, uno a Plezzo e l’altro a Tolmino, attraverso i quali passarono le fanterie senza pretendere, in un primo momento, di far cadere ai loro fianchi lunghi tratti della linea nemica, e senza attendere l’avanzata delle artiglierie.<br />
<br />
i) I reparti d’assalto austro-tedeschi erano addestrati e armati per poter applicare la tattica della “infiltrazione”. Cioè i reparti scelti che passavano per primi attraverso i varchi erano addestrati alla manovra, autonomi nell’armamento e guidati da capi, i quali anche nei gradi inferiori erano istruiti per agire di propria iniziativa, essendo previsto che, dopo l’inizio della battaglia, per parecchio tempo essi non avrebbero potuto più ricevere ordini. <br />
<br />
l) Infine le riserve furono avviate dove l’attacco progrediva e non contro i punti in cui gli italiani opponevano maggiore resistenza. Pertanto le colonne austro-tedesche irruppero attraverso i due varchi aperti, dilagarono oltre le prime linee, recisero le comunicazioni, colsero alle spalle i reparti italiani.<br />
<br />
L’attacco austro-tedesco, condotto con i suddetti procedimenti tattici, costrinse la seconda armata alla ritirata che assunse i caratteri di una vera e propria rotta, poiché numerosi comandi italiani fin dalle prime ore della battaglia non riuscirono più a controllare le loro truppe a causa del bombardamento e della penetrazione dei nemici, che interruppero i collegamenti. <br />
Durante la ritirata, però, molti reparti continuarono a combattere con valore e il 30 ottobre, a Pozzuolo del Friuli, due reggimenti di cavalleria furono massacrati dal nemico, dando luogo al più famoso episodio di resistenza, ma non certo all’unico. In pochi giorni la più volte citata seconda armata ebbe 11.600 morti e 21.950 feriti.<br />
Tuttavia è inevitabile che la ritirata dall’Isonzo al Piave sia ricordata soprattutto per l’enorme fiumana di sbandati che invase le strade del Veneto, e il grandissimo numero di prigionieri lasciati nelle mani dell’avversario. Gli austro-tedeschi catturarono dal 23 ottobre al 26 novembre 294mila italiani, oltre a 3.136 cannoni di vario calibro, a 1.732 bombarde, e anche enormi quantità di munizioni, materiali e viveri. Durante la ritirata si sbandarono circa 300mila soldati.<br />
La confusione impedì a molti comandi di ricevere le notizie ed impartire ordini necessari, perciò numerosi reparti restarono disorientati e paralizzati. <br />
Il violentissimo fuoco delle artiglierie nemiche, i gas, le infiltrazioni di colonne austro-tedesche indussero i primi reparti a ripiegare con l’idea di potersi fermare su un seconda linea, che pur doveva esistere: nessuno immaginava che potesse crollare l’intero fronte.<br />
All’inizio della battaglia Cadorna aveva deciso che la seconda armata resistesse ad oltranza, impartendo severissime disposizioni per prevenire o arrestare le ritirata. Fu poi costituito un “corpo d’armata speciale”, agli ordini del gen. Di Giorgio, col compito di garantire il possesso dei ponti sul Tagliamento e di organizzare pattuglie per la ricerca nelle immediate retrovie dei numerosi sbandati privi di armi, i quali apparivano stanchi, abbrutiti, quasi sempre rassegnati e tranquilli, ma inetti ad ogni opera di resistenza. Quindi era necessario avviarli subito ai campi di raccolta istituiti oltre il Piave, cosa che essi già facevano spontaneamente. Intanto quelli che erano riusciti a prendere un treno per “andare a casa”, si lasciavano facilmente fermare dai carabinieri e condurre a detti campi.<br />
Tuttavia nella confusione generale una grande massa di sbandati riuscì ad ecclissarsi e vagare per l’Italia, saccheggiando e rubando. Perciò in alcune località i carabinieri andavano a caccia dei saccheggiatori, con l’ordine di passarli sommariamente per le armi, dando poi alle fucilazioni eseguite larga pubblicità fra le truppe, anche con manifesti.<br />
Il 2 novembre il generale Andrea Graziani fu nominato “ispettore generale del movimento di sgombro”. Questi, coadiuvato da un gruppo di ufficiali, da carabinieri, e da reparti di cavalleria, intraprese, come egli stesso scrisse, “una vera lotta di aggressione morale e fisica contro le orde degli sbandati”. Infatti per più giorni, spostandosi rapidamente in automobile da un punto all’altro delle retrovie, cercò di dare ordine ai reparti, emanò bandi e minacciò di pena capitale i saccheggiatori, represse con la morte anche piccoli atti d’insubordinazione, essendo convinto che con poche punizioni esemplari si evitavano repressioni maggiori. Per impedire ai fuggiaschi di servirsi di trasporti, a tutti i veicoli che incontrava faceva asportare una ruota, che veniva gettata in un fiume o in un canale. Siccome poi numerosi sbandati, dopo essersi rifocillati nei campi di raccolta, se ne uscivano disperdendosi di nuovo per i campi, fece un bando per minacciarli di morte. Si calcola che solo nei primi giorni di novembre egli abbia fatto eseguire almeno 34 fucilazioni.<br />
Nel 1918 il gen. Graziani comandò la divisione ceco-slovacca schierata sul fronte italiano e per diserzione ne fece fucilare otto militari senza processo.<br />
Allorché il 2 novembre gli austro-tedeschi attraversarono il Tagliamento, il Comando supremo giudicò la situazione estremamente seria, perciò il giorno seguente il ministro Bissolati ne informò il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che il precedente 30 ottobre era subentrato a Paolo Boselli. <br />
Il Consiglio dei ministri deliberò di inviare subito al fronte il ministro della guerra, gen. Alfieri, munito di pieni poteri. Lo stesso Consiglio il 4 novembre prese in esame l’eventualità di affidare il Comando supremo al duca d’Aosta. La sera dello stesso giorno V. E. Orlando, mentre si recava a Rapallo per una conferenza interalleata con il premier inglese Lloyd George e quello francese Painlevè, ricevette una lettera di Cadorna, con la quale il generalissimo attribuiva la sconfitta di Caporetto alla propaganda disfattista (e quindi alla politica interna di Orlando), e nello stesso tempo avvertiva che sul Piave sarebbe stata possibile un’altra catastrofe, ma lasciava al governo la possibilità di decidere in merito ad una pace separata.<br />
<br />
A Rapallo la mattina del 6 novembre Lloyd George e Painlevè comunicarono senza cerimonie a Orlando di non avere fiducia in Cadorna. In particolare il premier britannico dichiarò: “[…] Io non credo che il Comando italiano sia tale da potergli affidare divisioni inglesi e francesi […].<br />
<br />
Il presidente Orlando rispose rassicurando gli alleati che era in corso una riorganizzazione dello Stato maggiore.<br />
Egli, infatti, il giorno dopo, poiché era in via di costituzione un nuovo Consiglio Superiore Interalleato, a far parte del quale poteva essere designato Cadorna, inviò da lui a Padova il gen. Porro e il colonnello Gatti affinché gli riferissero che era stato esonerato dal Comando supremo e avrebbe potuto assumere il nuovo incarico. L’incontro ebbe luogo la sera dell’8 novembre e il generalissimo, che non si aspettava l’esonero, dichiarò che non avrebbe mai accettato il nuovo incarico.<br />
<br />
Così uscì finalmente di scena il gen. Luigi Cadorna, inventore e accanito sostenitore della “giustizia del piombo”. <br />
<span style="font-size: 14pt;"> </span><i style="font-size: 14pt;"> </i></div>
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<i><span style="font-size: 14.0pt; line-height: 115%;"> <o:p></o:p></span></i></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm;">
<b><span style="font-size: 14.0pt;">Dal
tragico ottobre 1917 alla primavera 1918<o:p></o:p></span></b></div>
La sconfitta di Caporetto e l’esonero del gen. L. Cadorna determinarono la fine della separazione tra potere politico e militare, che aveva caratterizzato la Nazione italiana fin dall’inizio del conflitto. Nello stesso tempo il fatto che le truppe austro-tedesche fossero penetrate profondamente al di qua dei confini nazionali suscitava le più nere previsioni nell’animo di politici e militari italiani. Infatti all’inizio solo pochissimi credevano alla possibilità di fermare il nemico sul Piave. Invece molti erano coloro che ritenevano opportuno ritirarsi fino al Mincio. Di questo si discusse il 15 novembre 1917 in un Consiglio di guerra, durante il quale il gen. Armando Diaz, che dal 30 ottobre era il nuovo Comandante supremo, insisté sulla convenienza di restare schierati sul Piave. Opinione questa condivisa dal capo del governo, V. E. Orlando.<br />
<br />
Rimaneva comunque il timore di non poter resistere né sul Piave né sul Mincio, perciò numerosi erano coloro che sostenevano la necessità di una pace separata col nemico, della quale, però, il 10 novembre Luigi Einaudi affermò l’impossibile realizzazione, in quanto l’Italia dipendeva dai suoi alleati per le derrate alimentari, le materie prime, i crediti ecc. . Il successivo giorno 28 anche il ministro Francesco Saverio Nitti affermò che gli italiani non avrebbero potuto sopravvivere neppure un mese senza l’aiuto amichevole degli alleati.<br />
<br />
Tuttavia nell’inverno 1917-’18, proprio in ordine ad un’eventuale pace separata, il governo italiano e quello austriaco intavolarono trattative con la mediazione della Santa Sede. Trattative queste che presto furono ritenute inopportune, poiché agli italiani non conveniva negoziare col nemico, mentre gli alleati anglo-francesi si trovavano in gravi difficoltà sul fronte occidentale a causa di una poderosa offensiva austro-tedesca. <br />
L’invasione nemica, seguita alla disfatta di Caporetto, non portò la concordia fra gli italiani, infatti ci furono infiammate polemiche subito dopo la nomina a presidente del Consiglio di V. E. Orlando, che numerosi interventisti indicavano fra i maggiori responsabili della stessa disfatta per la sua politica interna “floscia, irresoluta e snervata”, quando egli faceva parte del governo Boselli. In particolare l’on. Luigi Albertini sosteneva che il governo Orlando fosse il prodotto di una torbida atmosfera parlamentare e il risultato di una combinazione che poteva essere giudicata con favore da giolittiani e socialisti, cioè da neutralisti.<br />
Al fine di combattere il cosiddetto “disfattismo parlamentare”, un centinaio di deputati e senatori, fra cui F. Martini, Antonio Salandra e lo stesso Albertini, si costituirono in “fascio di difesa nazionale”.<br />
Intanto i contadini in Valdinievole (Toscana) gridavano “Viva i tedeschi” (V. F. Martini), quelli delle Marche erano “esultanti” per l’avvenuta disfatta, credendo e sperando nella pace (V. L. Bissolati), il popolo minuto di Torino restava “irriducibile” (V. On De Fabris), quello di Milano cominciava ad augurarsi l’arrivo dei tedeschi (V. U. Notari), e nel “popolino” napoletano serpeggiavano propositi di rivolta (V. Lettera inviata il 15 dicembre da Benedetto Croce al presidente Orlando). <br />
Il Comando del 3° Gruppo Legioni Carabinieri (Roma), in un rapporto sull’ordine pubblico in Toscana, Umbria, Lazio e Sardegna, relativo al periodo 1° settembre - 31 dicembre 1917, segnalò per due sole provincie su dodici, cioè per Roma e Pisa, un miglioramento delle condizioni dello spirito pubblico, le quali erano, invece, rimaste “normali” per Perugia, Cagliari e Sassari. A Firenze le stesse condizioni continuavano ad essere “anormali” per la carenza di generi di prima necessità e per la propaganda dei sovversivi. A Lucca ci si lamentava per il prolungarsi della guerra, mentre ad Arezzo, Massa, Livorno, Siena e Grosseto il “malcontento generale” era motivato dalla difficoltà per gli approvvigionamenti.<br />
Dopo Caporetto neppure le popolazioni rurali della province di Verona, Mantova e Padova, benché fossero sotto la diretta minaccia dell’invasione nemica, furono animate da sentimenti patriottici. <br />
Nel novembre 1917 si notarono sintomi di ripresa fra le truppe, soprattutto nei primi giorni della resistenza sul Piave. Infatti molti reparti si difesero coraggiosamente contro gli assalti nemici. Tuttavia nel complesso lo spirito combattivo dell’esercito italiano continuò a destare non poche apprensioni, per cui ci fu un alternarsi di buone e cattive notizie.<br />
Intanto gli sbandati, dopo il passaggio del Piave, vennero inviati alla rinfusa nei campi di raccolta. In un secondo momento gli stessi vennero suddivisi secondo l’arma a cui appartenevano: 200.000 fanti furono raccolti a Castelfranco Emilia (MO), 80.000 artiglieri a Mirandola (MO), 13.000 genieri a Guastalla (RE) e il carreggio a Copparo (FE). I militari, così suddivisi, cominciarono ad essere inquadrati in reparti organici e riforniti di viveri, vestiario ed armi. I corpi rimessi in efficienza venivano avviati al fronte, dove erano utilizzati con piena fiducia.<br />
Insieme agli sbandati nei campi di raccolta furono radunate alcune migliaia di disertori che al gen. Diaz erano sembrati per la maggior parte “imbevuti” di idee pacifiste e antimilitariste. <br />
Il 14 novembre 3.500 disertori, che erano nella caserma del Macao a Roma, cercarono di ribellarsi e l’ordine venne ristabilito da un reparto di cavalleria. La sera dello stesso giorno i suddetti partirono da detta caserma e, benché scortati da carabinieri e militari armati, durante tutto il percorso cantarono l’Inno dei lavoratori e l’Internazionale e gridarono: “Abbasso Sonnino! Noi non vogliamo la guerra”.<br />
A metà dicembre 1917 il gen. A. Diaz informò il capo del governo che il nemico aveva “enormemente intensificato” lungo tutto il fronte una intensa propaganda demoralizzatrice e pacifista, mediante il lancio di manifestini dagli aerei e dalle trincee, e con il tentativo di stabilire comunicazioni fra le trincee contrapposte. A questo si aggiungeva l’atteggiamento antipatriottico dei contadini nelle immediate retrovie. Era stata anche diffusa la falsa notizia che a Natale ci sarebbe stata la pace, inoltre il 21 dicembre, una fonte vaticana informò addirittura che, sempre per Natale, c’era il pericolo di uno sciopero militare.<br />
Per questi motivi il Comando supremo impartì l’ordine di intensificare la vigilanza delle truppe dipendenti, di promuovere un’azione di contropropaganda patriottica e di spegnere con prontezza ed energia ogni focolaio di propaganda pacifista. <br />
Prima del 25 dicembre furono quindi adottate le dovute precauzioni. Infatti nuclei speciali di carabinieri furono appositamente costituiti o rinforzati, mentre reparti pronti ad ogni evenienza e raggruppamenti di mitragliatrici e di autoblindo furono collocati nei luoghi ritenuti più vulnerabili.<br />
Gli austro-tedeschi, forse informati delle preoccupazioni dei comandi italiani, proprio alla vigilia di Natale, impegnando al massimo le proprie truppe, tentarono di superare la resistenza dei nostri reparti; questi viceversa, resistendo tenacemente, inflissero loro gravi perdite.<br />
Carabinieri, autoblindo e mitragliatrici, appostati per domare la temuta rivolta, vennero quindi ritirati in buon ordine, e il Natale 1917 venne ricordato dagli italiani come un “Natale eroico”. <br />
Le voci di “scioperi militari” al fronte e di complotti socialisti nel Paese indussero il Comando supremo a stabilire un’intesa col governo per stroncare la propaganda disfattista. Fu quindi emanato il cosiddetto “decreto Sacchi”, che prevedeva pene severe per chiunque commettesse o istigasse a commettere un qualsiasi fatto capace di “deprimere lo spirito pubblico”. Applicando questa legge furono poi arrestati il segretario nazionale del Partito socialista, Costantino Lazzari, ed il vice segretario, Nicola Bombacci.<br />
Però nella realtà, dopo Caporetto, l’esercito fu più pressato dalla propaganda “disfattista” degli austriaci che non da quella dei neutralisti italiani. Infatti, mentre aerei e razzi nemici lanciavano continuamente sulle nostre armate attestate sul Piave manifestini ed altro materiale propagandistico, gruppi speciali di militari austriaci capaci di parlare italiano venivano inviati sulle prime linee e cercavano di mettersi in comunicazione con le opposte trincee per fare propaganda e nello stesso tempo per assumere informazioni.<br />
Alcuni argomenti utilizzati dagli austriaci per avvilire lo spirito guerresco degli italiani erano: la pace conclusa con i sovietici e la “fraternizzazione” tra austriaci e russi; le vittorie conseguite dai tedeschi sul fronte occidentale e nella guerra sottomarina; il sostenere che Inghilterra e Stati Uniti fossero potenze imperialistiche che speculavano sulla guerra ed intendessero asservire il mondo; la corruzione del mondo politico italiano; l’insistenza sul fatto che le spose e le fidanzate dei combattenti tradissero mariti e promessi sposi con gli imboscati; il sostenere che il Tirolo e l’Istria non fossero abitate da italiani; il sottolineare la forza degli imperi centrali e la debolezza dell’Italia.<br />
Una volta iniziata la resistenza sul Piave erano stati riscontrati segni di ripresa spirituale, ma presto ebbe inizio un susseguirsi di buoni e cattivi stati d’animo.<br />
Secondo Giuseppe Lombardo Radice sul Piave “si resisteva”, ma c’era diffidenza da parte dei soldati verso la propaganda patriottica, e permaneva negli animi “una esagerata idea della potenza del nemico ed un sordo scetticismo per tutto ciò che si diceva circa la nostra capacità di risorgere e di vincere”. Né i comandanti si trovavano in uno stato d’animo molto diverso da quello delle truppe, in quanto la massima aspirazione patriotica nella media dei giovani ufficiali era quella di affermarsi con un’efficace resistenza, per poter riavere con trattative di pace le province invase”. Essi chiedevano insomma la pace con la mediazione vaticana.<br />
Rino Alessi, a pag. 206 della sua opera “Dall’Isonzo al Piave”, ha scritto che esistevano brigate stanche, si riudivano canzoni di scherno per la guerra, e lo scetticismo si diffondeva fra soldati e ufficiali; alla mense di questi ultimi, anzi, si udivano talvolta “discorsi anarchici”. <br />
Il fatto, riferito da Alessi, che gli ufficiali parlassero come sovversivi sta a significare che il ragionamento di molti militari era il seguente: poiché dopo Caporetto il sogno di conquistare Trento e Trieste era svanito e dal momento che l’Austria con una pace separata avrebbe certamente restituito all’Italia i territori invasi, per chi e per che cosa si continuava a combattere? Si continuava a combattere – era la risposta – non più per l’Italia ma per la Francia e la Gran Bretagna. <br />
All’inizio del novembre 1917, mentre la rotta di Caporetto era ancora in corso, alcune divisioni inglesi e francesi giunsero in Italia e si fermarono tra Mantova, Verona e Brescia. Il Comando supremo italiano invano chiese che almeno una parte di esse fosse subito impiegata contro il nemico. Soltanto il 5 dicembre i comandi alleati consentirono ai primi contingenti di schierarsi sulla linea del Piave, che era ormai tenuta saldamente dalle nostre truppe. Perciò gli italiani ebbero la sensazione che gli anglo-francesi fossero venuti in Italia non come alleati, ma per compiere quasi un’opera di polizia militare. Ad esempio, don Minzoni s’indispettì moltissimo al vedere in qual modo gli ufficiali britannici “ispezionassero e criticassero” lo schieramento adottato dal reggimento di fanteria del quale egli era cappellano.<br />
Sentimenti ostili verso la Gran Bretagna erano presenti fra gli italiani già prima di Caporetto, e nel marzo 1916 Filippo Turati aveva dichiarato in parlamento che i britannici erano interessatissimi a prolungare la guerra, dato che grazie ad essa riuscivano a concludere “eccellenti affari”.<br />
Il risentimento verso gli inglesi superava di gran lunga quello verso i francesi, eppure, dopo Caporetto non dall’Inghilterra ma dalla Francia giunse in Italia un uomo politico intenzionato ad assicurare il predominio militare del suo paese sull’esercito di Diaz. Si trattava del deputato Abel Ferry, che nel dicembre 1917 era stato inviato dal parlamento francese per indagare sulle cause di Caporetto e sui problemi più urgenti dell’esercito italiano. Egli compilò una lunga relazione, nella quale rivolgeva ai quadri delle nostre truppe critiche come le seguenti: lo stato maggiore era di origine aristocratica ed aveva introdotto una disciplina di tipo germanico; gli ufficiali di truppa restavano distanti dai soldati, “non par nature, mais par ordre”; la qualità degli stessi ufficiali lasciava molto a desiderare, anche perché i gradi erano assegnati non ai meritevoli ma ai medio e piccolo borghesi, secondo un criterio sociale; i soldati invece erano buoni, capaci di resistere alla fame e al freddo più dei francesi, e di combattere con slancio. Ferry riferì che, secondo l‘opinione degli ufficiali francesi, l’esercito italiano era eccellente dal punto di vista umano, ma scadente dal punto di vista tecnico. Per rimetterlo in sesto toccava dunque ai francesi intervenire, magari, inviando in Italia 200 – 300 ufficiali istruttori.<br />
Dunque con la ritirata di Caporetto gli italiani, già poco stimati dai francesi, avevano perso di colpo il prestigio militare conquistato con due anni di dure battaglie. Ma non si teneva conto del fatto che i soldati italiani erano poveri, mal vestiti e scarsamente nutriti, mentre quelli francesi e britannici giunti nel Veneto risultavano al confronto ricchi e privilegiati.<br />
Tuttavia la presenza di truppe alleate suscitò sentimenti contrastanti, perché se da una parte destarono inquietudini, dall’altra promossero confronti e ripensamenti che misero in crisi molte norme comportamentali superate o errate. Per esempio, il fatto che i soldati francesi e inglesi ricevessero un trattamento migliore fu uno dei motivi che indussero il Comando supremo a prendere provvedimenti a favore delle truppe. <br />
Alla fine del gennaio 1918 il Ministero dell’Interno chiese ai prefetti di raccogliere notizie sullo spirito delle truppe mediante interrogatori ai soldati che erano in licenza invernale.<br />
Si ebbe così, con notizie raccolte in circa settanta province e circondari, una informazione complessiva, che non giustificava né i giudizi pessimistici, circolanti anche in ambienti governativi, né i giudizi ottimistici di chi immaginava un esercito trasformato dalla resistenza sul Piave. Molti prefetti dichiararono che lo stato d’animo delle truppe era migliorato rispetto all’inverno precedente, definendolo ottimo, buono o soddisfacente; ma nello stesso tempo sottolinearono i preoccupanti segni di stanchezza e di malcontento che inquietavano perfino il presidente Orlando, il quale aveva detto il 15 ottobre al giornalista Olindo Malagodi di ritenere che gli interventisti con i loro discorsi sulla ritirata Caporetto, intesa come “sciopero” o “rivolta politico militare”, avessero finito con l’insinuare nei soldati l’idea di mettere in atto ciò che prima della disfatta non avevano nemmeno pensato di fare.<br />
Il 9 marzo, al Comando supremo, ci fu una riunione, alla quale parteciparono il presidente Orlando, i ministri Bissolati e Nitti, il gen. Diaz e i comandanti delle varie armate. I generali intervenuti dichiararono concordi che c’era stato un grande cambiamento dall’ottobre ‘17 in poi, che il morale delle truppe era “buono”, che l’esercito era ormai ricostituito in piena forza e che la posizione strategica sul Piave risultava “incomparabilmente migliore” di quella sull’Isonzo. <br />
Purtroppo il 21 marzo tornò l’apprensione alla notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte occidentale minacciando direttamente Parigi e Calais. Tuttavia in aprile le angosce scomparvero: l’offensiva tedesca in Francia era stata arrestata.<br />
Gli ultimi mesi del conflitto<br />
<br />
1) Nell’aprile 1918 sul fronte del Piave, all’infuori di qualche squadriglia di aviazione, non erano rimasti altri reparti tedeschi. Era dunque lecito supporre che l’offensiva nemica, ritenuta imminente, non ci sarebbe stata almeno per tutto il mese in corso, poiché gli austriaci erano rimasti soli e senza mezzi per poterla condurre a fondo. Questa notizia tranquillizzò il presidente V. E. Orlando che, che recatosi in zona di guerra, poté constatare personalmente il migliorato spirito combattivo delle truppe.<br />
Miglioramento questo riguardo al quale presso il Comando supremo c’era ancora qualche dubbio, che venne dissipato il 12 aprile in un lungo colloquio tra il gen. A. Diaz e il responsabile dell’ufficio informazioni, col Marchetti, al quale fu comunque raccomandato di tenere gli occhi bene aperti.<br />
L’11 maggio gli uffici informazioni di tutte le armate riferirono che il morale dei soldati era “buono” e, sette giorni dopo, giunsero addirittura a qualificarlo “ottimo”.<br />
<br />
2) Tra le tante ragioni che modificarono lo stato d’animo dei soldati, ebbero grande importanza i provvedimenti che migliorarono le loro condizioni di vita. Innanzitutto fu aumentato il vitto: la “razione di guerra” fu portata da 3.067 (novembre 1917) a 3.580 calorie (giugno 1918), aumentando la quantità di pane e di carne. Furono creati gli spacci cooperativi, che fornivano a buon mercato viveri, bevande e oggetti di prima necessità. Venne disposta la concessione ai soldati di una seconda licenza annuale di 10 giorni, in aggiunta a quella invernale di 15 giorni. Furono concessi esoneri per lavori agricoli in numero sempre più considerevole. Con due decreti nel dicembre 1917 fu disposta a favore di militari e graduati l’emissione di polizze gratuite di assicurazione per 500 e per 1.000 lire, l’importanza delle quali fu spiegata alle truppe con manifesti e conferenze a cura dell’I.N.A..<br />
Il 1° novembre 1917 fu istituito il Ministero per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra. Nel dicembre fu creata l’Opera Nazionale Combattenti per l’assistenza ai militari dopo la smobilitazione e per creare nelle campagne un ceto di produttori associati, costituito da fanti contadini.<br />
<br />
3) Dall’inizio del conflitto nell’esercito italiano un minimo di propaganda era dovuta ad iniziative più o meno spontanee di ufficiali e deputati che si trovavano in zona di guerra e con la loro parola incitavano i soldati alla resistenza. In pratica si faceva affidamento sulle cosiddette “conferenze patriottiche”.<br />
Dopo la ritirata di Caporetto passò del tempo prima che autorità politiche e militari si rendessero conto della necessità di uscire dall’improvvisazione ed impiegare un numero adeguato di uomini e mezzi nella propaganda. Uno dei primi tentativi in tal senso fu compiuto da Giuseppe Lombardo Radice presso il Comando dell’Arma del Genio del V Corpo d’Armata. Furono istituiti innanzitutto gli “ufficiali di collegamento con le prime linee”, incaricati di indagare sullo spirito delle truppe, di elencare gli elementi sospetti, di assistere ed incoraggiare gli elementi migliori di ogni reparto, scegliendo con cautela fra di essi i propri fiduciari. Detti ufficiali dovevano essere sempre al corrente delle vicende politiche e compiere un’azione di propaganda “diretta”, distribuendo materiale propagandistico.<br />
Ma particolare importanza veniva attribuita alla propaganda “indiretta”, effettuata secondo il seguente pro-memoria: <br />
«Si fa diramando a tutti gli ufficiali subalterni degli ‘spunti di conversazione con i soldati’. Lo scopo precipuo che il Comando si propone è quello di far circolare fra tutte le truppe dipendenti lo stesso gruppo di idee, che siano come i ‘nuclei vitali’ del pensiero che deve animare i soldati. Spostandosi un reparto e venendo i suoi soldati a contatto con quelli di un altro, hanno così occasione di sentire da superiori e da compagni di altri corpi ed armi le stesse idee. Unità di pensiero a tutta la grande unità che, come ha un capo militare nel suo generale, così deve avere un’anima sola.»<br />
Anche il gen. Capello, che dopo Caporetto aveva avuto il comando di un’armata costituita in gran parte di sbandati, aveva istituito nel novembre 1917 un ufficio propaganda, col compito di organizzare conferenze, inchieste, spettacoli fra le truppe. Solo il 1° febbraio 1918 il Comando supremo prescrisse che tutte le armate designassero un ufficiale con l’esclusivo incarico della propaganda fra le truppe.<br />
Tra la fine di febbraio e i primi di marzo un’attiva opera di propaganda fu resa necessaria e improcrastinabile da circostanze come le seguenti:<br />
<ul>
<li>smentire i messaggi contenuti nei manifestini, ci cui gli austriaci inondavano le retrovie:</li>
<li>partecipare all’organizzazione messa i atto dagli alleati per una forte pressione propagandistica sul nemico;</li>
<li>"nobilitare” agli occhi delle masse il nuovo volto che assumeva il conflitto dopo la rivoluzione russa e l’intervento degli Stati Uniti. </li>
</ul>
Molto utile ad ogni attività propagandistica fu il grandissimo numero di giornali per i soldati, detti “giornali di trincea”. A metà giugno erano circa cinquanta i periodici stampati per le truppe italiane.<br />
<br />
4) Nella primavera del 1918 “la propaganda di massa”, le cui possibilità erano ancora praticamente sconosciute, cominciò ad essere adoperata con ricchezza di mezzi, ma nello stesso tempo con ingenuità ed empirismo. Tuttavia si rivelò subito uno strumento efficace per ridare slancio ai combattenti.<br />
Cartoline, opuscoli, libri e manifesti furono diffusi a centinaia di migliaia di copie sia dalle autorità militari che dai comitati ed associazioni civili.<br />
Intanto, a partire dal marzo 1918, le varie armate cominciarono a dare un assetto definitivo ai servizi di propaganda, e coloro che prime erano gli “ufficiali di collegamento con le prime linee” diventarono “ufficiali P.” (ufficiali per la propaganda) che, oltre a tenere lezioni agli altri ufficiali e conversazioni alle truppe, dovevano fra l’altro cercare di: eliminare le cause di malcontento, curando vitto, igiene e vestiario; aiutare i soldati a scrivere alla famiglia; tenere vivo il buonumore e spronare al gioco; impiantare campi sportivi cinematografi; distribuire carta da lettere e pubblicazioni. <br />
Inoltre gli “ufficiali P.” dovevano: individuare gli elementi buoni, patriottici e fidati; sorvegliare i sospetti e premiare i buoni; combattere l’autolesionismo in accordo con medici e cappellani.<br />
Agli stessi “ufficiali venivano anche suggeriti particolari argomenti di conversazione, come ad esempio: il rafforzare l’odio contro il nemico che assassinava donne, bambini e impiegava le mazze ferrate; l’evidenziare l’importanza dei miglioramenti concessi (razione viveri, assicurazione gratuita ecc.).<br />
<br />
5) Sempre dal marzo 1918 ebbe inizio un’intensa propaganda finalizzata a rompere la coesione dell’esercito austro–ungarico, che era composto da tedeschi, ungheresi, boemi, slovacchi, croati, sloveni ecc. .<br />
I risultati ottenuti con tale propaganda furono poi giudicati molto buoni dal punto di vista militare, anche perché con essa si minava la compattezza di un esercito in cui tedeschi e ungheresi erano considerati popoli predominanti, mentre gli altri erano gli oppressi, i forzati.<br />
<br />
6) Quando entrarono in guerra gli Stati Uniti d’America molti italiani pensavano che essi, essendo privi di qualità militari, non fossero in grado di contribuire positivamente alla lotta contro gli Imperi Centrali.<br />
Invece gli U.S.A. in breve conquistarono l’opinione pubblica italiana, perché possedevano il prestigio della grande potenza, esaltavano gli ideali della democrazia e soprattutto inviavano uomini e copiosi mezzi per soccorrere la popolazione civile e l’esercito.<br />
Grande ammirazione riscuoteva da parte degli italiani il presidente U.S.A., Thomas Woodrow Wilson, che dopo il suo famoso discorso dei “quattordici punti”, pronunciato l’8 gennaio 1918 dinanzi al Senato americano, era considerato massimo artefice di pace e di salvezza.<br />
<br />
7) Dopo Caporetto in molti ambienti militari e politici il clero era considerato corresponsabile della crisi morale, con la quale veniva solitamente spiegata la sconfitta: al papa si rinfacciava il discorso sulla “inutile strage”, mentre i cappellani venivano accusati di “disfattismo politico”. Questo atteggiamento presto assunse il carattere di totale diffidenza. In particolare don Giovanni Minzoni, che dirigeva con grandi impegno e competenza la “case del soldato”, venne improvvisamente degradato a vice direttore, mentre la direzione delle stesse case venne affidata ad un maggiore dei carabinieri.<br />
Nel corso del 1918 gli “ufficiali P” assunsero addirittura la funzione di controllori dei cappellani.<br />
<br />
8) Gli austro–tedeschi speravano che il proprio successo nell’offensiva di Caporetto potesse provocare la rottura del fronte interno italiano e, quindi, la guerra civile come era avvento in Russia. Ma il contegno assunto dopo la disfatta dal Partito socialista e dalla classe operaia deluse i governi degli Imperi Centrali. Infatti C. Treves e F. Turati addirittura affermarono che il proletariato avrebbe salvato la patria senza rinnegare se stesso, cioè confermarono di non volersi staccare dalla formula “non aderire e non sabotare”.<br />
Si può, dunque, dire che nel 1918 in Italia gli ideali wilsoniani prevalessero su quelli leninisti, in quanto all’epoca era in voga la formula: «Wilson o Lenin».<br />
<br />
9) Il generale Armando Diaz, già comandante sul Carso del XXII Corpo d’armata fu nominato Comandante supremo dopo l’esonero di Luigi Cadorna.<br />
Con l’avvento di Diaz divennero molto rari i disaccordi e le tensioni tra il Comando e il Governo.<br />
Il presidente V. E. Orlando scrisse nelle sue memorie che il periodo Diaz era stato “il solo periodo della storia della guerra in tutti i paesi belligeranti”, in cui ci fosse stata “perfetta armonia e completa e leale collaborazione in tutti i sensi – tecnica compresa – fra il capo civile e quello militare.” <br />
<br />
10) Quanto alla disciplina dei soldati il comandante supremo Diaz, pur non avendo ripudiato ufficialmente le numerose rigide regole introdotte da Cadorna, certamente non permetteva né i giudizi sommari né le decimazioni, nonostante che i soldati continuassero a disertare, mentre sostanzialmente lo spirito dell’esercito tendeva a migliorare.<br />
I nuovi rapporti instaurati tra Comando e Governo fecero sì che le diserzioni dei militari non divenissero occasione per uno scambio di reciproche accuse. I due poteri collaborarono nella ricerca delle cause e nell’applicazione dei rimedi.<br />
<br />
11) Nei primi mesi del 1918 i soldati austriaci avevano patito la fame, e solo a giugno avevano cominciato a ricevere normali razioni alimentari. Intanto i loro comandi, in attesa della prossima offensiva, cercavano di aumentare la combattività sia col dire che in Italia i magazzini di alimentari erano fornitissimi sia col dare istruzioni sul come gli stessi potevano essere saccheggiati durante un prossimo attacco, senza che nulla andasse sprecato. Nello stesso tempo colonne di carri, dette colonne di bottino”, venivano predisposte nelle retrovie.<br />
Comunque l’esercito austro–ungarico era molto più armato che non prima di Caporetto, perché aveva 680 battaglioni e 7.000 pezzi d’artiglieria, contro i 574 battaglioni e i 5.255 cannoni dell’ottobre 1917.<br />
Gli austriaci, però, nel giugno 1918, rimasti senza l’appoggio dei generali tedeschi, dimenticarono l’esperienza di Caporetto. Infatti dispersero le forze su un fronte molto lungo, non riuscirono a sfruttare l’elemento sorpresa e impiegarono le artiglierie con criteri molto meno efficaci. <br />
I comandi italiani, viceversa, dimostrarono di avere appreso la lezione di Caporetto. Infatti, disponendo di un buon servizio d’informazioni, riuscirono a conoscere in anticipo le mosse del nemico, iniziarono tempestivamente i bombardamenti, schierarono le truppe in profondità nel caso che gli austriaci fossero riusciti a passare il Piave.<br />
Sebbene all’inizio dei combattimenti la spirito dei nostri soldati fosse abbastanza alto, allorché gli austriaci lanciarono circa 170mila proiettili a gas ci furono momenti di panico, che, però, furono presto superati con una rinnovata volontà di resistenza.<br />
<br />
12) Il felice esito della battaglia del Piave ridiede animo agli italiani e fece ritenere che la crisi di Caporetto fosse stata definitivamente superata. La popolazione civile apparve disposta ad affrontare nuovi disagi, mentre nella psicologia dei soldati sembrò essersi prodotto un mutamento profondo e universale. C’erano, dunque, le condizioni affinché l’esercito italiano non continuasse a stare sulla difensiva.<br />
Francesi, inglesi e americani chiedevano con insistenza che Diaz lanciasse il suo esercito all’attacco, spinti a ciò dal desiderio che l’Italia, impegnando sul fronte sud buona parte delle forze nemiche, rendesse loro più facile il compito sul fronte ovest.<br />
Anche il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, temendo che l’Italia finisse col doversi presentare alla Conferenza di pace senza aver neppure tentato di riconquistare i territori perduti nel 1917, sollecitava il Comandante supremo a passare all’offensiva. Badoglio e Nitti, condividendo l’opinione di Diaz che la guerra non sarebbe finita prima del 1919, ritenevano come lui che fosse opportuno conservare intatte le energie delle truppe per lo sforzo finale che sarebbe stato compiuto solo allora.<br />
Intanto i tedeschi subivano pesanti perdite sul fronte occidentale, mentre manifestazioni pacifiste avvenivano in Austria e Germania e i governi degli Imperi Centrali sembravano desiderosi di uscire dal conflitto.<br />
Pertanto il presidente V. E. Orlando riconobbe anche lui che fosse necessario prendere al più presto l’iniziativa di una battaglia sul Piave.<br />
Ma il Comandante supremo continuò a tergiversare e decise l’offensiva solo quando fu evidente che la guerra stava proprio volgendo al termine, per cui Vienna avrebbe potuto accettare improvvisamente la pace.<br />
Quindi nella tanto esaltata battaglia di Vittorio Veneto (che ebbe inizio il 26 ottobre 1918 e non il 24) in effetti, come scrisse L. Albertini, “gli italiani raccolsero, dopo due tre giorni di lotta il frutto delle ribellioni che dissolvevano l’esercito austro- ungarico”, le cui condizioni morali e materiali erano oltremodo precarie soprattutto a causa della mancanza di cibo.<br />
Nonostante tutto gli austriaci non rinunziarono alla lotta e all’inizio opposero una energica resistenza. Ma dopo alcune ore le loro prime linee cedettero e non ci fu più battaglia. A tal proposito G. Prezzolini scrisse: “Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani debbono lasciarsi dire.”<br />
Che nel 1918 a Vittorio Veneto gli italiani non abbiano vinto, ma soltanto disordinato e confuso la tragica ritirata dell’esercito austro–ungarico è inconfutabilmente dimostrato tanto dalla foto di copertina (Trento – La fuga degli Austriaci 2–11-18) quanto dalla relazione riportata qui di seguito. Si tratta di due documenti prodotti da persone presenti in zona di guerra.<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 14.0pt;">Relazione Weber<o:p></o:p></span></b></div>
«<i>L’ultimo atto del gigantesco dramma è incominciato. Una vera e propria fiumana uscita dall’inferno di fuoco attraverso cento camminamenti, sentieri, campi straripa sugli argini, si gonfia impetuosa sulle strade: uomini, cannoni, automobili, cavalli, carri e di nuovo uomini, uomini, uomini. La terra brucia sotto i piedi, il terrore ottenebra il cervello, ognuno si sente nemico dell’altro.<br />Non appena si leva il nuovo giorno, mi arrampico su un gigantesco pioppo, tra i cui rami avevamo collocato un secondo osservatorio. Il quadro che si presenta ai miei occhi è addirittura babelico: sulle due uniche strade che attraversano la zona, si muovono compatte masse di uomini, mentre a passo di corsa nuovi gruppi sbucano dai filari di viti e vengono inghiottiti, strappati, trascinati via dalla fiumana. <br />Più a nord, attraverso le nubi prodotte dalle esplosioni della granate italiane, si distinguono altre masse in movimento. Sono i resti dell’esercito in sfacelo sparpagliati in settanta chilometri di fronte e spietatamente bombardati dall’artiglieria nemica.<br />Adesso i primi palloni frenati si alzano lungo il Piave, terribilmente vicini, proprio a ridosso dell’argine. Le batterie tuonano sempre più potentemente.<br />La strada sembra la salvezza ed è invece la fine di innumerevoli soldati che vengono fatti a pezzi dall’ultimo bombardamento della guerra, però quelli che rimangono incolumi vi si aggrappano saldamente e continuano la marcia, per essere raggiunti, quindici chilometri più in là, dalle granate dei cannoni di lunga portata.<br />La fiumana nella quale ci dobbiamo immergere passa vicino a noi. Avanti dunque, soltanto avanti! Chi non può camminare è perduto, chi si piega verrà polverizzato, chi inciampa sarà gettato vivo nella tomba. La macina gigantesca degli stivali fangosi, degli zoccoli dei cavalli, delle ruote dei carri, coprirà le sue grida di aiuto e passerà sul suo corpo.<br />Le fruste schioccano sulle groppe dei cavalli. Una mano si aggrappa a un carro, per aiutare le gambe vacillanti. Che nessuno osi gravare del suo peso i nostri cavalli! Non ci saranno invocazioni e neppure minacce: la violenza soltanto può procurare spazio e salvezza.<br />Il fucile che portiamo sulle spalle ci servirà contro il vicino che oserà mettersi attraverso la strada; la galletta nel tascapane è un segreto nascosto tenacemente ad altri che non ne hanno più. L’ultima scatoletta di carne viene aperta e mangiata in piena corsa, prima che una mano più forte l’afferri.<br />Avanti, soltanto avanti! Non è un popolo che si ritira lottando per la sua salvezza: sono nove popoli, tutti armati e messi sulle stesse strade, che si urtano l’un l’altro pieni di odio e di rancore. <br />Alle loro spalle incalza il nemico, bramoso di bottino e di prigionieri. Gli shrapnel scoppiano sulle file dei fuggitivi, li abbattono a decine; le sue granate battono gli incroci stradali e i villaggi; i suoi aeroplani scaricano mitragliatrici e lanciano bombe. Una disfatta come questa non si era ancora vista nella storia del mondo.</i>»<br />
<div style="text-align: right;">
F. Weber</div>
<div style="text-align: right;">
Tenente d’artiglieria austriaco</div>
<div style="text-align: right;">
<br /></div>
<br />
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<b><span style="font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">B I B L I O G R A F I A<o:p></o:p></span></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<br /></div>
<b>Alessi Rino,</b> Dall’Isonzo al Piave, Ed. I Record – Mondadori, Milano,1966 . <br />
<b>Comisso Giovanni</b>, Giorni di Guerra, Ed. Oscar Mondadori, Milano<br />
<b>Hemingway Ernest</b>, Addio alle armi, Ed. Oscar Mondadori, Milano, 2014.<br />
<b>Melograni Piero</b>, Storia politica della Grande Guerra/1915-1918, Ed. Oscar Storia Mondadori, Milano, 2015. <br />
<b>Montanelli Indro</b>, Storia d’Italia, volume VI, RCS Quotidiani, Milano, 2003.<br />
<b>Thompson Mark</b>, La Guerra Bianca, Il Saggiatore Tascabili, Milano, 2012. <br />
<b>Ungaretti Giuseppe</b>, I poeti italiani/7, Ed. de “L’Unità”.<br />
<br />
<br />
<b> Questa pubblicazione è stata completata il 1° dicembre 2016.</b><br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
<b>
</b>
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Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-30117363030793077802016-11-10T12:35:00.000+01:002016-11-10T12:35:00.935+01:00E’ proprio la xilella fastidiosa il batterio che colpisce le querce di Galatina<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtodvhhWJbyLc2iAb0x2kJpzcnXwlpgu41AN_-cZFOjUmelTm0fPa-OS56BAOBoN-kxFLojUAiR6RdNtdmJ7-v-2HEmzUYa4Vv_N-74dN-rxMfWwM593y9dexOauEJuh-E-zLwjQkPe2LR/s1600/xilella.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="193" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtodvhhWJbyLc2iAb0x2kJpzcnXwlpgu41AN_-cZFOjUmelTm0fPa-OS56BAOBoN-kxFLojUAiR6RdNtdmJ7-v-2HEmzUYa4Vv_N-74dN-rxMfWwM593y9dexOauEJuh-E-zLwjQkPe2LR/s400/xilella.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
A convincermi che sia la xilella fastidiosa la causa del disseccamento di due querce esistenti a Galatina-viale Don Bosco è stata una ricerca condotta navigando su internet a partire dal termine ‘xilella’.<br />
<br />
Perciò dopo aver letto l’interessante nota, apparsa il 3 novembre 2016 sul giornale on line galatina.it, nella quale il dott. Francesco Coluccia sostiene che responsabile del disseccamento dei lecci sarebbe la cocciniglia chermococcus (kermes vermilio), sono andato ancora sul web, partendo dalle voce kermes vermilio e ho subito rilevato che detta cocciniglia lascia sulle foglie della pianta aggredita tracce della sua presenza. Queste tracce sono particolarmente vistose in prossimità del peduncolo con cui ogni foglia è attaccata al ramo.<br />
<br />
Invece ho constatato che le foglie disseccate delle due querce di viale Don Bosco sono pulite in tutte le loro parti, cioè senza alcuna traccia lasciata da parassiti. Questo mi porta ad affermare che è proprio la xilella fastidiosa il batterio che fa disseccare le querce di Galatina, e non soltanto quelle di viale Don Bosco.<br />
<br />
Infatti passeggiando per la Città è triste e preoccupante constatare quanto numerose siano le annose piante in avanzato o iniziale stato di essiccazione.<br />
<br />
Si riporta qui di seguito un incompleto elenco dei luoghi dove esse si trovano:<br />
<br />
<ul>
<li>su entrambi i marciapiedi del viale S. Caterina Novella e soprattutto, accanto al ristorante “I Vitelloni”, al di là del muro di cinta dello stabile che da decenni rimane incompiuto;</li>
<li>nel giardino recintato antistante il palazzo dell’ex Tribunale ( questo è forse il caso più vistoso); </li>
<li>nel giardino del Poliambulatorio di via Roma;</li>
<li>su entrambi i marciapiedi di via Monte Grappa;</li>
<li>in piazza F. Cesari ha cominciato a seccare un grande albero che è di fronte alla Clinica S. Francesco.</li>
</ul>
<br />
Quindi in Galatina dette zone di disseccamento sono diffuse a macchia di leopardo.<br />
<br />
Il signor Commissario Prefettizio e i Dirigenti Comunali sono vivamente pregati di intervenire tempestivamente al fine di evitare la scomparsa di gran parte dell’importante e salutare verde pubblico della Città.<br />
<div>
<br /></div>
<div style="text-align: right;">
<b>Pietro Congedo</b></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-34766839727586335832016-09-30T20:08:00.001+02:002016-09-30T20:08:53.549+02:00Ricchezza cospicua ed inalienabile di Galatina<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMmKhBW7jJTE9OpsBbxhZO_cXJfv2f_xT0UvtFqwXEf1WXYRUbM28Nq-WVRV4qUOgRbqezHxpRR-JqGgosLpZUZX2wnv8YzyQZecpJAxeUarUzDhWFvz0vRaSabecyvwfNqpS-Ew93mwKY/s1600/Cattura.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMmKhBW7jJTE9OpsBbxhZO_cXJfv2f_xT0UvtFqwXEf1WXYRUbM28Nq-WVRV4qUOgRbqezHxpRR-JqGgosLpZUZX2wnv8YzyQZecpJAxeUarUzDhWFvz0vRaSabecyvwfNqpS-Ew93mwKY/s400/Cattura.JPG" width="270" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">"De arcanis catholicae veritatis", cinquecentina del 1516</td></tr>
</tbody></table>
Galatina dispone di una cospicua ricchezza che è rappresentata dal patrimonio librario della Biblioteca Comunale “Pietro Siciliani” ed in particolare dai libri rari e di pregio, che in essa sono conservati. <br />
<br />
La costituzione della “Siciliani”, iniziata alla fine del XIX secolo, è avvenuta soprattutto con l’acquisizione dei fondi librari che erano appartenuti ai Conventi “S. Caterina” dei Frati Minori Riformati e “Spirito Santo” dei Frati Minori Cappuccini nonché delle librerie di Pietro Siciliani (1832 -1885), professore di filosofia teoretica ed incaricato di pedagogia nell’Università di Bologna, e dell’artista Pietro Cavoti.<br />
<br />
I libri delle due suddette Case religiose vennero concessi a Galatina dal Prefetto di Lecce il 13 maggio 1867. Il sindaco pro tempore, Giuseppe Galluccio, quando entrò effettivamente in possesso degli stessi, dichiarò di aver ricevuto n. 2.271 volumi dei Cappuccini e n. 1.774 dei Minori Riformati, aggiungendo con disinvoltura che fra essi non vi erano libri rari. Ma le cose stavano ben diversamente!<br />
<br />
Infatti il direttore onorario della “Siciliani”, prof. Pantaleo Duma, docente di latino e greco, dopo attento esame dell’intera raccolta libraria, pubblicò nel 1931 il primo catalogo di incunabuli alle pp. 67-83 dell’ Annuario del R. Liceo-Ginnasio di Galatina per gli anni 1929-30 e 1930-31, facendo fra l’altro presente quanto segue: <br />
«Sono incunabuli i più antichi libri a stampa, cioè le edizioni fatte nel periodo di tempo che va dall’ invenzione della stampa (intorno al 1475) all’anno 1.500: opere pregevolissime sia perché rare – e la loro rarità aumenta col passar degli anni – sia perché indispensabili per la storia dell’arte tipografica. Di questi incunabuli nella Biblioteca Comunale di Galatina esistono centoundici esemplari, provenienti tutti dalle biblioteche dei conventi di S. Caterina e dello Spirito Samto, editi dai più rinomati e antichi tipografi italiani e stranieri.<br />
Il numero è considerevole se si pensa che la Biblioteca di Foggia ne possiede solo tre, quella di Barletta uno, Ancona quindici, Cosenza quaranta, Siracusa dieci; e costituisce un vero tesoro bibliografico che, conosciuto, sarà certamente invidiato anche da Biblioteche di città molto importanti […]».<br />
<br />
Nel 1962 il prof. Salvatore Ferrol (1917-1998), docente di lettere e preside di Scuola Media, pubblicò un nuovo catalogo, intitolato “Incunaboli Galatinesi” (Ed. Tipografia Vergine – Galatina, pp. V + 81), nel quale sono elencati 133 volumi, cioè 22 in più rispetto a quanti ne aveva individuati Pantaleo Duma. Nell’elenco c’è anche l’unico incunabolo che non proviene da uno dei sopraccitati Conventi, infatti apparteneva a Pietro Cavoti e riguarda due libri di Francesco Petrarca.<br />
<br />
Il Ferrol nell’introduzione alla sua opera fece presente che i Latini con la parola “incunabulun” indicavano le fasce che servivano per avvolgere i neonati. Quindi l’olandese Cornelius Van Beughen quando, per la prima volta nel 1688 adoperò tale termine per designare i primi libri, volle certamente considerarli come i primi vagiti del volume a stampa. <br />
<br />
Nel 1979 è stato pubblicato a cura del prof. Donato Valli da ‘La Nuova Italia’ di Firenze il “Catalogo della Biblioteca ‘Siciliani’ di Galatina”, nel quale sono elencati e descritti 141 incunabuli e 1334 cinquecentine, cioè libri stampati nel XVI secolo.<br />
<br />
Successivamente la prof.ssa Pia Italia Vergine ha pubblicato “BIBLIOGRAPHIA ANTIQUA LUPIENSIS/Incunabuli delle Biblioteche pubbliche e private di Lecce e provincia” – prefazione di Donato Valli, ed. Congedo, Galatina, 2001, pp. LIV + 308. Nell’introduzione e nel testo di quest’opera è detto che a Lecce e provincia esistono in tutto 279 incunabuli, di cui 240 nelle 11 biblioteche pubbliche, e precisamente 140 (centoquaranta) nella Biblioteca “P. Siciliani” di Galatina e complessivamente 100 nelle altre 10.<br />
<br />
Quindi, mentre Valli nel 1979 ha elencato e descritto 141 incunabuli della “Siciliani”, la prof.ssa Vergine nel 2001 ne ha trovati 140, ovvero uno in meno. Ciò è dovuto al fatto che nel 1991 venne rubato il prezioso incunabulo “Cristoforo Colombo, Epistula de insulis nuper inventis, 4 cc” (cioè la lettera di 8 facciate scritta da C. Colombo per informare la regina di Spagna sulle isole da lui scoperte nel 1492), stampato da Stefan Plank nel 1493. Infatti questo ed altri otto incunaboli di piccolo spessore, collegati da un filo di cotone, costituivano un unico fascicolo, perciò ad un malintenzionato era stato facile sottrarlo tagliando il filo. Quando il furto venne scoperto fu regolarmente denunciato, ma il responsabile non venne mai individuato.<br />
<br />
Tuttavia sette anni dopo, e precisamente il 9 maggio 1997, il giornale “Quotidiano di Lecce” informò che il suddetto incunabulo era stato “battuto” in un’asta di Londra e ovviamente aggiudicato ad un prezzo adeguato.<br />
Questo episodio, anche se dovuto ad un riprovevole furto, conferma che il valore di ogni incunabulo è inestimabile.<br />
<br />
Notevole è anche il valore di ogni cinquecentina, come testimonia la preziosa opera del grande umanista galatinese, il francescano Pietro Colonna detto il Galatino, “De arcanis catholicae veritatis”, edita nel 1516, della quale esiste nella “Siciliani” una copia proveniente da “S. Caterina”.<br />
Il prof. Donato Valli nella sua sopraccitata opera ha elencato, come già detto, 1334 cinquecentine, precisando altresì che:<br />
<ul>
<li>426 provengono dal Convento “S. Caterina” dei Frati Minori Riformati;</li>
<li>827 appartenevano al Convento “Spirito Santo” dei Cappuccini;</li>
<li>66 provengono dalla Biblioteca del prof. Pietro Siciliani, che del XIX secolo;15 appartenevano alla biblioteca di Pietro Cavoti, risaliente al 1800.</li>
</ul>
Da queste ulteriori notizie fornite dal Valli si desume che pregio e rarità sono caratteristiche anche delle cinquecentine, le quali al pari degli incunabuli devono dunque essere protette e conservate con cura.<br />
<br />
Nonostante Galatina disponga della suddetta cospicua ma inalienabile ricchezza, è purtroppo attualmente gravata da debiti per circa 8.000.000 (otto milioni) di euro. A tal proposito la Corte dei Conti nel novembre 2015 ha bacchettato le Amministrazioni comunali che si sono susseguite dal 2009 al 2015, le quali avrebbero utilizzato tutti i sotterfugi possibili per accaparrarsi la liquidità che il sistema non riusciva più a produrre per inerzia, lentezza e incapacità. Perciò il commissario prefettizio per la gestione provvisoria del Comune, dott. Guido Aprea, e il sub commissario dott. Antonio Vincenzo Calignano, nominati dopo le dimissioni del sindaco Cosimo Montagna, sono particolarmente impegnati ad evitarne il default finanziario. <br />
<br />
<div style="text-align: right;">
<b>Pietro Congedo</b></div>
<br />Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-83939674825720903592016-09-10T19:41:00.002+02:002016-09-10T19:41:27.478+02:00Il “Convento dei Domenicani” di Galatina oggi “Palazzo della Cultura”<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEihyphenhyphenru0v7CBVAFNL_BxkCOKxCV7qq8UZPvy5oLk8gJIBnY6ODqjpdD97RDJVoMytySQ0QjNucDbAuBkCGmF0QDmpZ8srm_yqHt3Lgr4EccdIS2-wBKFuhiwAX1eDzGPzHv89qfwmTLGDARG/s1600/Cultura.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEihyphenhyphenru0v7CBVAFNL_BxkCOKxCV7qq8UZPvy5oLk8gJIBnY6ODqjpdD97RDJVoMytySQ0QjNucDbAuBkCGmF0QDmpZ8srm_yqHt3Lgr4EccdIS2-wBKFuhiwAX1eDzGPzHv89qfwmTLGDARG/s320/Cultura.JPG" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Palazzo della Cultura di Galatina</td></tr>
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<br />
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L’Ordine dei Frati Predicatori (Ordo Fratrum Praedicatorum) [O.P.] è un Ordine religioso maschile, detto comunemente ‘dei Domenicani’, fondato circa 800 anni fa nell’antica provincia francese di Linguadoca dallo spagnolo Domenico Guzmàn con lo scopo di lottare contro le eresie.</div>
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Domenico e i suoi seguaci scelsero di combattere le dottrine eretiche sia attraverso la predicazione che attraverso l’esempio di una severa ascesi personale, vivendo in povertà e mendicità.</div>
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L’Ordine dei Predicatori fu approvato da papa Onorio III con le bolle del 22 dicembre 1216 e del 21 gennaio 1217. </div>
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Si tratta del secondo Ordine religioso giunto a Galatina, poiché, come è noto, già nel 1391 il conte di Soleto, Raimondello Orsini – Del Balzo, aveva affidato la Chiesa e il Convento “Santa Caterina” ai Frati Minori Francescani, i quali ne fecero un centro molto attivo per la latinizzazione dei riti religiosi.</div>
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I Frati Predicatori arrivarono a Galatina in un periodo d’oro del loro Ordine. Un insieme di circostanze favorevoli li aveva portati nel Salento tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500. I loro conventi ne costellarono le contrade come oasi di grande spiritualità e di sapere.</div>
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Essi non ricevettero in Galatina una chiesa ed un convento già costruiti, come li avevano avuti i francescani. </div>
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Tuttavia nel 1464, mentre era sindaco Federico Mezio, avo dell’omonimo vescovo di Termoli (1551 – 1621), il domenicano fra Clemente Lombardo, che teneva la predicazione quaresimale, ottenne dall’Università di Galatina un suolo al di fuori delle mura cittadine, in località “Fontana”, nel quale con la benedizione dell’arcivescovo di Otranto, Stefano Pendinelli (1454 – 1480) fu posta la prima pietra per la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna della Grazia .</div>
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Lo stesso fra Clemente cominciò a raccogliere fondi e personale, perché la sua iniziativa avesse successo.</div>
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<br /></div>
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Nel 1479, secondo un antico documento, erano già stati costruiti l’abside e l’altare maggiore della chiesa, mentre il frate fondatore era già coadiuvato da alcuni novizi. Era quindi già sentita la necessità di provvedere alla costruzione di un convento. </div>
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Numerosi erano i cittadini che vi contribuivano con offerte, mentre l’Università nel 1489 concesse ai frati l’esazione a tempo indeterminato del dazio del pesce. Tributo questo che nel 1700 era ancora esatto dai domenicani.</div>
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<br /></div>
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Le norme in vigore prevedevano che una tale costruzione avvenisse con l’autorizzazione papale e con il consenso del vescovo locale. Pertanto il nuovo arcivescovo di Otranto, il francescano fra Serafino da Squillace, accertata l’esistenza dell’autorizzazione del pontefice, il 16 giugno 1494 a Napoli diede il suo assenso, che confermò poi con un secondo documento emesso in Galatina il 1° giugno 1498.</div>
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Inizialmente fu costruita una chiesa più piccola di quella attuale, come riferisce una significativa iscrizione, che si trova sulla parete perimetrale esterna di sinistra, quasi ad altezza d’uomo, scolpita su tre conci orizzontali di pietra leccese e datata 1508.</div>
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<br /></div>
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Nello stesso anno 1508 ebbe luogo a Roma il Capitolo Generale dei Domenicani, il quale accettò formalmente il convento da erigere in Galatina, designando priore fra Andrea da Modugno e lettore maestro Andrea da Lecce. Quindi si diede inizio alla costruzione dei locali conventuali ed il maestro generale il 13 novembre 1508 nominò fra Giacomo Silvano di Manfredonia soprintendente dei lavori. </div>
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Essendo questi durati a lungo, i suddetti due ufficiali designati non potettero prendere possesso delle loro cariche. Pertanto il 12 giugno 1509 il maestro Tommaso De Vio diede facoltà al vicario di Puglia di sollevare dai loro incarichi il priore Andrea da Modugno e il lettore maestro Andrea da Lecce. </div>
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<br /></div>
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Quando la costruzione del convento fu ultimata, si rese perciò necessaria una seconda accettazione formale dello stesso, la quale fu effettuata dal Capitolo Generale di Roma del 1525, che demandò al reverendo Provinciale la nomina del priore e degli altri ufficiali.</div>
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<br /></div>
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Nel 1485 era diventato duca di Galatina Giovanni Castriota, al quale nel 1514 succedette il figlio Ferdinando che morì nel 1561. Padre e figlio esercitarono il potere con ogni sorta di vessazioni nei confronti dei sudditi. Tuttavia scelsero come loro cappella la chiesa dei domenicani e con i frati furono particolarmente generosi, forse per ingraziarsi la popolazione ferocemente ostile alla loro dominazione.</div>
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Il convento costruito dai Domenicani nel 1606 aveva una rendita di oltre 422 ducati e ospitava 12 frati, mentre nel 1613 i monaci erano otto. Nel 1650 insieme a sei padri c’erano un chierico e due conversi. Intorno al 1690 vi aveva sede lo studio e vi abitavano quattro padri, quattro chierici, due conversi ed un terziario.</div>
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Fra Alessandro Tommaso Arcudi, eletto priore del convento nel 1702, durante il suo governo realizzò importanti opere, tra cui una “commoda libraria”, nella quale furono raccolti tutti i libri esistenti nel convento e tanti altri. </div>
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A partire dal 1720 i frati dovettero provvedere alla ricostruzione della chiesa annessa al convento, che “per antichità stava cadente e quasi diruta”. I relativi lavori per difficoltà di carattere finanziario durarono a lungo, infatti furono ultimati nel MDCCXXXVIII, come testimonia una specie di cartiglio sorretto da due angeli e passante dietro lo stemma domenicano, collocato a coronamento dell’ovale raffigurante la Madonna della Grazia, posto sul portale centrale della chiesa.</div>
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In Galatina i frati Domenicani, oltre ad esercitare la predicazione, promossero tramite confraternite il culto del Rosario e del Nome di Gesù. Inoltre promossero l’insegnamento rivolto ai laici e misero a disposizione del popolo la loro biblioteca.</div>
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Nel 1736 nel convento abitavano diciassette frati, dieci padri e sette conversi, mentre nel 1756 i frati erano quattordici, di cui otto padri, insieme a tre studenti e conversi. </div>
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Per effetto delle leggi eversive emanate dai re napoleonidi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, il convento dei Domenicani di Galatina fu soppresso nel 1809 e il suo edificio il 21 settembre di quell’anno fu incamerato dallo Stato, con la drammatica espulsione di dieci frati, sei padri e quattro conversi.</div>
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Dopo la tempesta napoleonica i Domenicani non tornarono più a Galatina. </div>
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Con la Restaurazione, cioè dopo il 1816, il re Ferdinando IV di Borbone concesse al Monastero di clausura femminile di S. Gregorio Armeno di Napoli il dominio diretto sull’ex Convento dei Domenicani di Galatina, ed assegnò ai Padri Agostiniani di Sogliano Cavour analogo dominio sul giardino “S. Domenico”, attiguo al medesimo ex Convento.</div>
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Le scuole pubbliche di Galatina furono istituite nel 1836 e fino al 1854 furono gestite dalla cosiddetta “Commissione Comunale delle Scuole” sia sotto l’aspetto amministrativo che scolastico, ivi compresi il reperimento dei docenti e l’assunzione degli stessi, che era possibile solo col parere favorevole dell’Arcivescovo di Otranto.</div>
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Siffatta gestione delle scuole si protrasse per diciotto anni, rivelandosi disastrosa a causa della persistente mancanza di docenti, cure e metodo. </div>
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Per superare un tale stato di precarietà l’Amministrazione Comunale fu a più riprese in trattative con i Padri delle Scuole Pie (detti Scolopi), i quali accettarono di prendersi cura delle scuole galatinesi solo quando il Comune fu in grado di assicurare loro la sede nell’ex Convento dei Domenicani e una rendita di circa 2.000 ducati.</div>
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Ma detto stabile non fu subito disponibile, poiché il Monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, che ne era proprietario, lo aveva dato in enfiteusi a Carmine Colaci e Vincenzo Castrioto, i quali furono convinti dall’Arcivescovo di Otranto, mons. Grande, a cederne il dominio utile, ma essi pretesero il pagamento delle migliorie apportate allo stabile, il valore delle quali fu stabilito in ducati 1195,20. </div>
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Assolte tutte le formalità necessarie, il 25 ottobre 1853 nel parlatorio del Monastero femminile di clausura di S. Gregorio Armeno di Napoli, dinanzi alla grata di ferro e, alla presenza del notaio Alessandro Tambone, si costituirono P. Pompeo Vita, delegato delle Scuole Pie, la Madre Abbadessa, Donna Teresa Brancaccio, e il canonico Domenico Zamboi, procuratore speciale del Comune di Galatina, e si procedette alla stipula del contratto di enfiteusi, col quale fu fissato in ducati 51 il canone annuo dovuto dal Comune di Galatina al Monastero napoletano .</div>
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L’acquisizione da parte degli Scolopi dell’ex Convento dei Domenicani divenne definitiva il 14 novembre 1853, quando il cassiere delle Scuole versò agli enfiteuti uscenti, Carmine Colaci e Vincenzo Castrioto, la somma di ducati 1.195,20.</div>
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I Padri delle Scuole Pie, a differenza dei Domenicani, si premurarono ad intestare l’edificio al proprio Ordine, ponendone lo stemma al di sopra del portone esterno e scrivendone il motto, “ad maius pietatis incrementum”, sull’ingresso allo scalone che porta al piano superiore</div>
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Essi sfruttarono tutte le potenzialità del grande stabile acquisito. Infatti ottennero dal Re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone il Decreto 3 ottobre 1854, che all’art. 1 disponeva: “Nella Casa de’ P. P. delle Scuole Pie di Galatina, oltre alle Pubbliche Scuole, è stabilito un Collegio con convitto e pernottazione per la educazione morale e letteraria dei giovanetti.” </div>
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Scuole e Collegio di Galatina vennero gestite dagli Scolopi con diligenza e grande competenza. Ma ciò potettero farlo con tranquillità solo fino all’annessione al Regno Sabaudo delle Province Napoletane (1861). Infatti in primo momento, per effetto del R. D. 13 ottobre 1861, dovettero adottare i regolamenti e i programmi previsti dalla legge 13 novembre 1859, n° 37, nota come legge Casati, che era in vigore nel Regno di Sardegna. Ma quando entro in vigore il R.D. 7 luglio 1866, che sopprimeva tutti gli Ordini Religiosi, mentre gli Scolopi uscivano di scena e la gestione delle Scuole tornava all’apposita Commissione Comunale presieduta dal Sindaco pro tempore, quello che era stato il Convento dei Domenicani, fu di nuovo incamerato dallo Stato a causa dell’ avvenuta soppressione del Monastero femminile di S. Gregorio Armeno di Napoli.</div>
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L’Amministrazione Comunale di Galatina il 2 febbraio 1867 chiese, tramite la Prefettura, al Fondo per il Culto la devoluzione a favore delle Scuole dei beni già appartenuti ai Domenicani, per i quali il Comune dal 1853 pagava il canone di enfiteusi. Il Prefetto di Lecce il successivo 12 febbraio assicurò di aver inoltrato la richiesta a detto ufficio con parere favorevole. Ma l’iter della pratica fu tanto complesso da richiedere l’ausilio di un importante avvocato. Pertanto solo in data 6 febbraio 1868 l’ex Convento dei Domenicani e l’annesso giardino furono devoluti dal Fondo per il Culto al Ginnasio - Convitto di Galatina. </div>
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Il 5 novembre 1873 la Commissione Comunale compilò un nuovo regolamento per il Ginnasio – Convitto, che all’art. 1 recitava: “Lo stabilimento letterario sistente (sic) in Galatina prenderà da oggi innanzi il nome di Ginnasio Convitto Galatino, in memoria dell’illustre cittadino Pietro Galatino”. </div>
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Il 2 maggio 1896 il Consiglio Comunale di Galatina, al fine di ottenere benefici fiscali, chiese al Prefetto di Lecce la promozione degli atti amministrativi necessari per il riconoscimento come Opera Pia del Ginnasio – Convitto.</div>
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Umberto I, re d’Italia, con suo decreto del 3 marzo 1898, dichiarò il “Ginnasio-Convitto Pietro Galatino” Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza (I.P.A.B.), amministrato dalla Commissione che fu eletta dal Consiglio Comunale con delibera n. 50/1899, nella quale comparve per la prima volta la denominazione “Pio Istituto Pietro Colonna detto il Galatino”, poi generalmente usata nella forma ridotta: “Pio Istituto Pietro Colonna”. Sede di questo fu l’ex Convento dei Domenicani anche dopo la regificazione delle Scuole, avvenuta nel 1907.</div>
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Detta Opera Pia gestiva le Scuole e il Convitto. La chiusura di quest’ultimo fu adottata con delibera n. 16/1969 dalla Commissione Amministrativa, presieduta dal prof. Paolo Congedo. Il Liceo Classico di Galatina è rimasto nel “Pio Istituto Pietro Colonna” fino al trasferimento nella sua nuova sede in via Pietro Colonna, avvenuto nel 1981.</div>
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Attualmente al piano terra, oltre alla prestigiosa Biblioteca Comunale “Pietro Siciliani” che occupa un’intera ala, ci sono altri uffici a carattere culturale, mentre una parte del piano superiore è stata destinata al Museo Civico “Pietro Cavoti”. Pertanto, dopo l’estinzione dell’I.P.A.B. “Pio Istituto P. Colonna”, avvenuta nel 2004 con un decreto del Presidente della Regione Puglia, l’ex Convento dei Domenicani molto opportunamente è stato denominato “Palazzo della Cultura”.</div>
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Pietro Congedo </div>
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Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-55768516390941884802016-09-02T16:11:00.001+02:002016-09-02T16:12:43.657+02:00Dall'aberrante luteranesimo nazista al martirio di Dietrich Bonhoeffer<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMQl_-oXl9j84_jmfborNQhgUVWzf6XMwBfAP5BJnKDZY96xDYsRnezIvVhhmc5d-rtMbKfszOXpr5vGC3uVsJUq7izGblBiNaQ9NB9oslT4ZC7ADue23NB84cOY1ad1vXwzsY6-nOAurr/s1600/Dietrich+Bonhoeffer.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMQl_-oXl9j84_jmfborNQhgUVWzf6XMwBfAP5BJnKDZY96xDYsRnezIvVhhmc5d-rtMbKfszOXpr5vGC3uVsJUq7izGblBiNaQ9NB9oslT4ZC7ADue23NB84cOY1ad1vXwzsY6-nOAurr/s320/Dietrich+Bonhoeffer.jpg" width="228" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: small; text-align: start;">Dietrich Bonhoeffer</span></td></tr>
</tbody></table>
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Dopo la sconfitta subita nella Prima Guerra Mondiale la Germania divenne una repubblica federale (9 novembre 1918), la cui costituzione fu redatta da una assemblea nazionale insediata nella città di Weimar, donde la denominazione “Repubblica di Weimar”.<br />
<br />
Questa repubblica federale nella sua breve e travagliata esistenza fu ben lungi dal risolvere gli enormi problemi politico–sociali della nazione, mentre sul piano religioso, sotto l’influenza del marxismo pre-bolscevico, assunse una posizione di totale laicità. Quindi nessuna chiesa cristiana (luterana o cattolica o riformata calvinista) era centralmente riconosciuta. Pertanto si ebbero 28 chiese regionali (una per ogni Land) organizzate secondo il diritto comune, ma senza rapporti con i governi. Questo finì col generare la diffidenza dei fedeli nei riguardi dell’ordinamento della Repubblica di Weimar. Nello stesso tempo i pastori e i fedeli luterani erano portati a vedere di buon occhio l’ascesa al potere di Adolf Hitler, il quale diventerà cancelliere del Terzo Reich il 30 gennaio 1933.<br />
<br />
Il futuro Führer, nato nell'asburgica Austria da un padre nominalmente cattolico, ma anticlericale e scettico, e da una madre devota praticante cattolica, venne battezzato da bambino e cresimato all’età di 15 anni. Ma in età adulta non partecipò più alla messa e ai sacramenti, pur non abbandonando formalmente il cattolicesimo. <br />
<br />
Nella sua opera Mein Kamphf termini quali “il Creatore”, il “Signore dell’universo” o “la provvidenza” sono molto frequenti, ma egli in privato disprezzava a tal punto il Cristianesimo da sostenere che esso, con la sua morale della compassione, non fosse assolutamente compatibile con una “fede energica ed eroica in Dio e nella natura”, che avrebbe dovuto essere propria del popolo tedesco; professava quindi una fede consistente in una sorta di fusione personale di immanentismo misticheggiante e neo-paganesimo, non privi di influenze teosofiche.<br />
<br />
Il 24 febbraio 1920 in una birreria di Monaco espose i 25 punti programmatici del nazional-socialismo (nazismo) [ovvero dell’N.S.D.A.P.], dichiarando di voler riconoscere e proteggere ogni professione religiosa che non fosse contraria ai valori germanici e della razza ariana. In altri termini riteneva positiva ogni religione che si conformasse al nazional-socialismo, opponendosi all'ateismo marxista ed al giudaismo.<br />
<br />
Nacque così una “Chiesa luterana tedesca” di stampo nazista, i cui aderenti erano detti “Cristiani Tedeschi”(Deutsche Christen).<br />
Il motto di questi era «Una Nazione – Un Popolo – Una Chiesa», il loro grido di battaglia «La Germania è la nostra missione, Cristo la nostra forza». A dirigere la nuova chiesa, nata dall'unificazione delle 28 chiese regionali (una per Land), venne posto il “Vescovo di Stato”, nominato nella persona di Ludwig Müller, un oscuro pastore, i cui maggiori meriti erano quelli di essere stato un nazista della prima ora e di dimostrare una cieca ed assoluta fedeltà a Hitler. Comunque Muller fu in effetti un semplice esecutore degli ordini del Ministero degli Affari Religiosi, retto da Hanns Kerri, altro fervente nazista.<br />
<br />
Riguardo al primo Sinodo della “Chiesa luterana tedesca”, nel quotidiano inglese The Times del 17 aprile 1933 si leggeva: «Il grande Congresso dei “Cristiani Germanici” è stato tenuto nell'antico palazzo della Dieta prussiana per presentare le linee delle chiese evangeliche di Germania nel nuovo clima portato dal nazional-socialismo. Il pastore Hossenfelder ha cominciato enunciando: “Lutero ha detto che un contadino può essere più pio mentre ara la terra di una suora mentre prega. Noi diciamo che è vicino alla volontà di Dio un nazista dei Gruppi d’Assalto, quando combatte, mentre non lo è una Chiesa che non si unisce al giubilo per il Terzo Reich. […]. Il pastore dottor Wieneke-Soldin ha aggiunto: “La croce a forma di svastica e la croce cristiana sono una cosa sola. Se Gesù dovesse apparire oggi tra noi sarebbe il leader della nostra lotta contro il marxismo e contro il cosmopolitismo antinazionale”. L’idea basilare di questo cristianesimo riformato è che l’Antico Testamento, essendo un libro ebraico, debba essere proibito nel culto e nelle scuole di catechismo domenicali. Il Congresso ha infine adottato questi due principi: 1) Dio mi ha creato tedesco. Essere tedesco è un dono del Signore. Dio vuole che mi batta per il mio germanesimo; 2) Servire in guerra non è una violazione della coscienza cristiana ma obbedienza a Dio.».<br />
<br />
Detto Sinodo impressionò l’opinione pubblica di tutto il mondo anche perché tutti i pastori riuniti indossavano l’uniforme bruna, stivali e distintivi nazisti e nei loro sermoni non esitavano ad affermare che “Cristo è venuto a noi attraverso Hitler”.<br />
Oltre alla menzionata volontà di cancellare l’autorità dell’Antico Testamento, motivo di grande perplessità erano il proposito di ripulire il Nuovo Testamento dell’apporto del rabbino Paolo e dei suoi accoliti e, soprattutto, l’accoglimento del cosiddetto “Paragrafo Ariano” della legge 7 aprile 1933, il quale nella versione originale disponeva: “Gli impiegati pubblici che non sono di discendenza ariana devono essere messi a riposo. I titolari di cariche onorifiche devono essere licenziati dal loro ufficio”. Pertanto venne interdetta l’ordinazione di pastori non ariani e furono introdotte restrizioni per l’accesso al battesimo di chi non avesse buoni requisiti di sangue.<br />
Ma non tutti i luterani tedeschi erano nazisti, poiché molti erano coloro che reagivano alle aberrazioni hitleriane.<br />
<br />
Proprio reagendo all’introduzione del “Paragrafo Ariano”, nel settembre 1933, alcuni pastori berlinesi fra cui Martin Niemöller e Dietrich Bonhoeffer costituirono d’urgenza un’associazione, la quale da un lato dichiarò che il suddetto paragrafo era incompatibile con la fede cristiana, dall'altro organizzò l’assistenza alle persone colpite dalle misure razziali.<br />
Tale gruppo formò il “Movimento Neoriformatore”, un precursore della “Chiesa Confessante”, la quale fu ufficialmente costituita con il Sinodo del 29/31 maggio 1934 a Wuppertal-Barmen. In tale occasione fu formulata la seguente “dichiarazione”, detta appunto di Barmen, che divenne il fondamento teologico della “Chiesa Confessante”:<br />
<br />
«Noi crediamo che Gesù Cristo, così come ci viene attestato nella Sacra Scrittura, sia l’unica parola di Dio.<br />
Ad essa dobbiamo prestare ascolto; in essa dobbiamo confidare e ad essa dobbiamo obbedire in vita e in morte.<br />
<br />
Noi crediamo che, come Gesù Cristo rappresenta la grazia senza condizioni, il perdono di tutti i nostri peccati, così, con uguale serietà, egli sia l’espressione della forte pretesa che Dio fa valere nei confronti di tutta la nostra vita.<br />
Per mezzo suo ci accade di sperimentare una felice liberazione dagli empi legami di questo mondo per un libero, riconoscente servizio alle sue creature.<br />
<br />
Noi crediamo che la Chiesa cristiana sia la comunità di fratelli e sorelle in cui Gesù Cristo, nella parola e nel sacramento mediante lo Spirito Santo, agisce in modo presente come il Signore.<br />
Essa è soltanto sua proprietà e desidera vivere soltanto della sua consolazione e della sua direttiva, nell’attesa della sua manifestazione.<br />
<br />
Noi crediamo che i diversi ministeri nella Chiesa non legittimino alcuna supremazia degli uni sugli altri, bensì siano alla base dell’esercizio del servizio affidato e comandato a tutta la comunità.<br />
<br />
Noi crediamo che la Chiesa faccia appello al regno di Dio, al suo comandamento e alla sua giustizia e perciò debba ricordare ai governanti e ai governati le loro responsabilità.<br />
Essa si affida ed obbedisce alla potenza della parola mediante la quale Dio regge ogni cosa.<br />
Noi crediamo che il compito della Chiesa, fondamento della libertà, consista nel rivolgere a tutto il popolo la notizia della libera grazia di Dio.»<br />
<br />
La “dichiarazione di Barmen” ribadiva la centralità di Cristo quale fondamento della fede della Chiesa e respingeva quindi criteri e istanze estranee ai principi cristiani e dunque anche le pretese totalitarie del regime nazista nonché il tentativo di appropriarsi del messaggio evangelico per scopi politici.<br />
Dopo il sinodo andarono costituendosi molte comunità legate alla Chiesa confessante, che rifiutavano di sottomettersi alle gerarchie ufficiali della Chiesa del Terzo Reich.<br />
<br />
Come già detto, quando nel settembre 1933 il Sinodo nazionale della Chiesa evangelica hitleriana approvò il “paragrafo ariano”, in prima linea per dichiarare l’incompatibilità dello stesso con la fede cristiana fu Dietrich Bonhoeffer, nato a Breslavia il 4 febbraio 1906, il quale, oltre ad essere pastore luterano a Berlino, era docente universitario di teologia, pioniere del movimento ecumenico internazionale, scrittore prolifico e poeta nonché figura centrale nella lotta contro il regime nazista. <br />
Bonhoeffer non si limitò a collaborare alla formazione del “Movimento Neoriformatore”, in quanto nello stesso tempo si impegnò ad informare e sensibilizzare il movimento ecumenico sulla gravità della situazione, rifiutò il posto di pastore a Berlino, per solidarietà con coloro che venivano esclusi dal ministero per ragioni razziali, e decise di trasferirsi in una congregazione di lingua tedesca a Londra.<br />
Nell’aprile 1935 tornò in Germania per dirigere, prima a Zingst e poi a Finkenwalde, un seminario clandestino per la formazione di pastori per la Chiesa Confessante, che fu chiuso dalla Gestapo nel settembre 1937. Successivamente egli continuò in clandestinità l’attività d’insegnante, ma nel gennaio 1938 la Gestapo lo bandì da Berlino e nel settembre 1940 gli vietò di parlare in pubblico.<br />
Intanto nel 1939 egli si era avvicinato ad un gruppo di resistenza e cospirazione contro Hitler, del quale gruppo fu lui il legame fondamentale tra il movimento ecumenico internazionale e la cospirazione contro il nazismo. La sua attività per aiutare un gruppo di ebrei ad uscire dalla Germania portò alla sua carcerazione nell’aprile 1943. Durante i due anni di prigionia che precedettero la sua morte, nelle lettere all’amico Eberhard Bethge esplorò il significato della fede cristiana in un “mondo diventato adulto”, chiedendosi: “ Chi è Cristo per noi oggi? Il cristianesimo è troppo spesso fuggito dal mondo, cercando di trovare un ultimo rifugio per Dio in un angolo “religioso”, al sicuro dalla scienza e dal pensiero critico. Ma Bonhoeffer affermò che è proprio l’umanità nella sua forza e maturità che Dio reclama e trasforma in Gesù Cristo “la persona per gli altri”.<br />
Dopo un fallito attentato contro Hitler il 20 luglio 1944, , Bonhoeffer fu trasferito nella prigione di Berlino, poi nel campo di concentramento di Buchenwald e infine in quello di Flossembürg, dove fu impiccato insieme ad altri cospiratori il 9 aprile 1945.<br />
<br />
Fra i numerosi scritti del martire Dietrich Bonhoeffer c’è la poesia “Luce”, riportata qui di seguito, nella quale è evidente l’assoluto affidamento dell’autore a Dio, sola vera luce che illumina la sua solitudine, fa cessare in lui paura e amarezza, mentre gli indica la retta via da percorrere:<br />
<br />
<br />
"<i>Luce</i><br />
<i>In me è buio, ma da te c’è luce</i><br />
<i>io sono solo, ma tu non mi lasci</i><br />
<i>sono pusillanime, ma da te c’è aiuto</i><br />
<i>sono irrequieto, ma da te c’è pace</i><br />
<i>in me c’è amarezza, ma da te c’è pazienza</i><br />
<i>le tue vie non comprendo, ma tu conosci</i><br />
<i>la retta via per me</i>"<br />
<div>
<br /></div>
<div style="text-align: right;">
<b>Pietro Congedo</b></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-11492151681371257512016-06-20T15:41:00.003+02:002016-06-20T15:41:23.635+02:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Gli ultimi mesi del conflitto<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEggRwwVL6QjlpP-INnqiCv9RS9w0YHiT3X57NbZ3EnT1Up09eC57IYUuez5hzM_IJrw7rYTOzigT9TbmHOPwdBIglXR_8A4rTnfeyorCmbTS1X6XwHUcO24b_J-N6tvcmvQRi1XHP58hAQq/s1600/LaDomenica_DodicesimaPuntata.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEggRwwVL6QjlpP-INnqiCv9RS9w0YHiT3X57NbZ3EnT1Up09eC57IYUuez5hzM_IJrw7rYTOzigT9TbmHOPwdBIglXR_8A4rTnfeyorCmbTS1X6XwHUcO24b_J-N6tvcmvQRi1XHP58hAQq/s400/LaDomenica_DodicesimaPuntata.jpeg" width="286" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Copertina del numero 10 - 17 Novembre 1918</td></tr>
</tbody></table>
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-1- Nell'aprile 1918 sul fronte del Piave, all'infuori di qualche squadriglia di aviazione, non erano rimasti altri reparti tedeschi. Era dunque lecito supporre che l’offensiva nemica, ritenuta imminente, non ci sarebbe stata almeno per tutto il mese in corso, poiché gli austriaci erano restati soli e senza mezzi per poterla condurre a fondo. <br />
Questa notizia tranquillizzò Il presidente V. E. Orlando che, recatosi in zona di guerra, poté constatare personalmente il migliorato spirito combattivo delle truppe. Miglioramento questo riguardo al quale presso il Comando supremo c’era ancora qualche dubbio, che venne dissipato il 12 aprile in un lungo colloquio tra il gen. A. Diaz e il responsabile dell’ufficio informazioni, col. Marchetti, al quale fu comunque raccomandato di tenere gli occhi bene aperti. L’11 maggio gli uffici informazioni di tutte le armate riferirono che il morale dei soldati era “buono” e, sette giorni dopo, giunsero addirittura a qualificarlo “ottimo”. <br />
<br />
-2- Tra le tante ragioni che modificarono lo stato d’animo dei soldati, ebbero grande importanza i provvedimenti che migliorarono le loro condizioni di vita. Innanzitutto fu aumentato il vitto: la “razione di guerra” fu portata da 3.067 (novembre 1917) a 3.580 calorie (giugno 1918), aumentando la quantità di pane e carne. Furono creati gli spacci cooperativi, che fornivano a buon mercato viveri, bevande e oggetti di prima necessità. Venne disposta la concessione ai soldati di una seconda licenza annuale di 10 giorni, in aggiunta a quella invernale di 15 giorni.<br />
<br />
Furono concessi esoneri per lavori agricoli in numero sempre più considerevole. Con due decreti del dicembre 1917 fu disposta a favore dei militari e dei graduati l’emissione di polizze gratuite di assicurazione per 500 e per 1.000 lire, l’importanza delle quali fu spiegata alle truppe con manifesti e conferenze a cura dell’I.N.A.Il 1° novembre 1917 fu istituito il Ministero per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra. Nel dicembre fu creata l’Opera Nazionale Combattenti per l’assistenza ai militari dopo la smobilitazione e per creare nelle campagne un ceto di produttori associati, costituito da fanti-contadini.<br />
<br />
-3- Dall'inizio del conflitto nell'esercito italiano un minimo di propaganda era dovuta ad iniziative più o meno spontanee di ufficiali e deputati che si trovavano in zona di guerra e che con la loro parola incitavano i soldati alla resistenza. In pratica si faceva affidamento sulle cosiddette “conferenze patriottiche”. Dopo la ritirata di Caporetto passò del tempo prima che autorità politiche e militari si rendessero conto della necessità di uscire dall'improvvisazione ed impiegare un numero adeguato di uomini e di mezzi nella propaganda. Uno dei primi tentativi in tal senso fu compiuto da Giuseppe Lombardo Radice presso il comando dell’arma del genio del V corpo d’armata.<br />
Furono istituiti innanzitutto gli “ufficiali di collegamento con le prime linee”, incaricati di indagare sullo spirito delle truppe, di elencare gli elementi sospetti, di assistere ed incoraggiare gli elementi migliori di ogni reparto, scegliendo con cautela fra di essi i propri fiduciari. Detti ufficiali dovevano essere sempre al corrente delle vicende politiche e compiere un’azione di propaganda “diretta”, distribuendo materiale propagandistico. Ma particolare importanza veniva attribuita alla propaganda “indiretta”, effettuata sulla base del seguente pro-memoria: «Si fa diramando a tutti gli ufficiali subalterni degli ‘spunti di conversazione coi soldati’.<br />
<br />
Lo scopo precipuo che il Comando si propone è quello di far circolare fra tutte le truppe dipendenti lo stesso gruppo di idee, che siano come i ‘nuclei vitali’ del pensiero che deve animare i soldati. Spostandosi un reparto e venendo i suoi soldati a contatto con quelli di un altro, hanno così occasione di sentire da superiori e da compagni di altri corpi ed armi le stesse idee. Unità di pensiero a tutta la grande unità, che, come ha un capo militare nel suo generale, così deve avere un’anima sola.».<br />
<br />
Anche il gen. Capello, che dopo Caporetto aveva avuto il comando di un’armata costituita in gran parte da sbandati, aveva istituito fin dal novembre 1917 un ufficio propaganda, con il compito di organizzare conferenze, inchieste, spettacoli fra le truppe. Solo il 1° febbraio 1918 il Comando supremo prescrisse che tutte le armate designassero “un ufficiale” con l’esclusivo incarico della propaganda fra le truppe. Tra la fine di febbraio e i primi di marzo un’opera attiva di propaganda fu resa necessaria e improcrastinabile da circostanze come le seguenti:<br />
<br />
<ul>
<li>smentire i messaggi contenuti nei manifestini di cui gli austriaci inondavano le retrovie;</li>
<li>partecipare all’organizzazione messa in atto dagli alleati per una forte pressione propagandistica sul nemico;</li>
<li>"nobilitare" agli occhi delle masse il nuovo volto che andava assumendo il conflitto dopo la rivoluzione russa e l’intervento degli Stati Uniti. </li>
</ul>
<br />
Molto utile ad ogni attività propagandistica fu il grandissimo numero di giornali per i soldati, detti “giornali di trincea”.<br />
Prima di Caporetto si pubblicava a Roma un quindicinale, “Il soldato”, e a Milano un settimanale, “Il giornale del soldato”. Entrambi i periodici venivano diffusi soprattutto nelle caserme e nei depositi. Mentre qua e là, in zona di guerra, veniva stampato qualche foglio, poi diffuso limitatamente in uno o in pochi reparti.<br />
<br />
Nei primi mesi dopo la disfatta non ci furono importanti iniziative giornalistiche.<br />
A gennaio 1918 apparve “La trincea”, settimanale dei soldati che erano nella zona del Grappa. In febbraio uscì “L’Astico”, giornale delle truppe schierate nella Val d’Astico, che più tardi divenne organo dell’intera l armata. Il primo giornale a grande tiratura fu “La tradotta”, settimanale della III armata, apparso il 21 marzo. Nello stesso periodo il Servizio Informazioni dell’Esercito diede vita a un altro settimanale, “La Giberna”. Poi fu la volta di “la Ghirba”, organo della V armata, e di “Il razzo”, organo della VII armata. La VI armata ebbe a giugno il suo foglio, il “Signor Sì”, al quale collaborarono soldati inglesi, francesi e cecoslovacchi, poiché l’armata era interalleata. A metà giugno erano circa cinquanta i periodici che venivano stampati per le truppe italiane.<br />
<br />
Dopo Caporetto anche i giornali quotidiani pubblicati nel Paese furono distribuiti in zona di guerra in quantità nettamente superiore rispetto al passato. Nello stesso tempo le autorità militari strinsero con le amministrazioni delle varie testate speciali accordi, secondo i quali i giornali avrebbero pubblicato articoli adatti alla propaganda fra le truppe, ed in compenso i comandi avrebbero acquistato varie migliaia di copie al prezzo di sette centesimi e mezzo, come i rivenditori. Gli stessi comandi rivendevano ai soldati quelle copie al prezzo di dieci centesimi, in quanto il darle in regalo avrebbe indotto gli acquirenti a non ritenere veritiere le notizie pubblicate.<br />
<br />
Tra i tanti quotidiani che aderirono a detti accordi c’erano: “Il Corriere della Sera”, “Il Popolo d’Italia”, “Il Resto del Carlino”, “Il Secolo” di Milano, “L’Arena di Verona”.<br />
<br />
-4- Nella primavera del 1918 la “propaganda di massa”, le cui possibilità erano ancora praticamente sconosciute, cominciò ad essere adoperata con ricchezza di mezzi e, nello stesso tempo, con ingenuità ed empirismo. Tuttavia si rivelò subito uno strumento efficace per ridare slancio ai combattenti.<br />
Cartoline, opuscoli e libri furono diffusi a centinaia di migliaia di copie sia dalle autorità militari che da comitati e associazioni civili, mentre i muri dei centri abitati, le pareti interne ed esterne delle baracche militari e delle “case del soldato” vennero tappezzati di manifesti multicolori raffiguranti il bersagliere in atto di lanciarsi all’attacco, la popolana scarmigliata e furibonda che chiedeva vendetta o i soldati italiani che insieme a quelli alleati schiacciavano l’Austria e la Germania.<br />
Fu disposto che le decorazioni al valore fossero assegnate in maggior numero a soldati e sottufficiali.<br />
L’on. Antonio Salandra propose l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini mobilitati, anche al di sotto del 21° anno di età.<br />
Intanto, a partire dal marzo 1918, le varie armate cominciarono a dare un assetto organizzativo ai servizi di propaganda, e coloro che prima erano gli “ufficiali di collegamento con le prime linee” diventarono “ufficiali I. P.” (ufficiali per informazioni e propaganda) o semplicemente “ufficiali P.”. Questi, tenendo lezioni agli altri ufficiali e conversazioni alle truppe, dovevano fra l’altro cercare di: eliminare le cause di malcontento, curando vitto, igiene e vestiario; aiutare i soldati a scrivere alla famiglia; tenere vivo il buonumore e spronare al gioco; impiantare campi sportivi e cinematografi; distribuire carta da lettere e pubblicazioni. Inoltre gli “ufficiali P” dovevano: individuare gli elementi buoni, patriottici e fidati; sorvegliare i sospetti e premiare i buoni; combattere l’autolesionismo in accordo con medici e cappellani.<br />
Agli stessi “ufficiali P” venivano anche suggeriti argomenti di conversazione con la truppa, come ad esempio: il rafforzare l’odio contro il nemico che assassinava donne, bambini e impiegava le mazze ferrate; l’evidenziare l’importanza dei miglioramenti concessi (razione viveri, assicurazione gratuita ecc. ); il dimostrare che gli ingegneri, i tecnici e gli operai delle fabbriche non erano imboscati.<br />
<br />
-5- La confidenza acquistata con le tecniche propagandistiche consentì agli italiani di preparare, a partire dal marzo 1918, un’intensa azione di propaganda fra le truppe nemiche, la quale poteva senza dubbio essere utile a rompere la coesione dell’esercito austro-ungarico, che era composto da tedeschi, ungheresi, boemi, slovacchi, croati, sloveni ecc.. <br />
Il 29 marzo il presidente V. E. Orlando nominò U. Ojetti commissario alla propaganda sul nemico. Il giorno seguente Pietro Badoglio, vice capo di stato maggiore, convocò gli “ufficiali P” delle armate italiane. Questi nel corso del convegno stabilirono che la propaganda avrebbe prodotto risultati immediati solo se fosse stata data pubblicità alla proclamazione d’indipendenza dei popoli “asburgici”, con l’autorizzazione dei governi alleati. Autorizzazione questa che nel giro di poche ore pervenne, sia pure con riserva, da Londra, Parigi e Roma.<br />
Lo stesso gen. Badoglio impartì l’ordine di stampare volantini nelle varie lingue delle <br />
truppe nemiche. Fra il 7 e l’8 aprile i lanci ebbero inizio, e in pochi mesi 51 milioni di volantini e oltre 9 milioni di copie di un settimanale furono lanciati con aerei dirigibili e razzi speciali.<br />
I risultati ottenuti con la nuova propaganda furono giudicati molto buoni dal punto di vista militare, sia in occasione della battaglia di giugno che in quella finale di Vittorio Veneto. D’altronde la stessa propaganda tendeva a minare la compattezza di un esercito in cui tedeschi ed ungheresi erano considerati popoli predominanti, mentre gli altri erano gli oppressi, i forzati.<br />
Una prova evidente della disintegrazione dell’esercito austro-ungarico fu l’aver potuto costituire, nel maggio 1918, con circa 14mila disertori e prigionieri di quell'esercito la cosiddetta “divisione cecoslovacca”, i soldati della quale parteciparono alle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto, indossando la divisa grigioverde degli alpini. <br />
<br />
-6- Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America molti italiani pensavano che essi non fossero in grado di contribuire positivamente alla lotta contro gli Imperi Centrali, in quanto la mancanza di qualità militari li rendeva incapaci di affrontare le difficoltà di fronte alle quali gli esperti eserciti europei si erano arrestati.<br />
Invece gli U.S.A. in breve conquistarono l’opinione pubblica italiana, perché possedevano il prestigio della grande potenza, esaltavano gli ideali della democrazia e soprattutto inviavano in Italia uomini e copiosi mezzi per soccorrere ed assistere le popolazioni civili e l’esercito. Infatti la Croce Rossa Americana spedì aiuti molto generosi e l’associazione protestante YMCA creò un gran numero di “case del soldato” sul fronte del Piave, mentre nelle retrovie istituì posti di ristoro lungo le ferrovie e in prossimità delle prime linee, organizzò spettacoli cinematografici, teatrali e musicali per migliaia di soldati.<br />
Giustamente, dunque, don Minzoni in una conferenza alle truppe disse che in Italia l’enorme apporto alla guerra dato dall’America era più morale che materiale. In effetti gli Stati Uniti, che avevano mobilitato 3.800.000 uomini, inviarono in Italia un contingente di appena 3.800 unità, perché ritennero opportuno impiegare quasi tutte le loro truppe sul fronte occidentale.<br />
La stampa italiana dedicava larghissimo spazio alle notizie giunte dall’America e di essa si parlava con simpatia perfino nelle nostre zone rurali, dalle quali molti italiani erano emigrati negli Stati Uniti.<br />
Grande ammirazione riscuoteva da parte degli italiani il presidente U.S.A., Thomas Woodrow Wilson, che dopo il suo famoso discorso dei “quattordici punti”, pronunciato l’8 gennaio 1918 dinanzi al Senato americano, era considerato massimo artefice di pace e di salvezza.<br />
Il Partito socialista si fece interprete della passione del popolo che, come scrisse C. Treves, “per un felice istinto di vita e di salvezza andava spontaneamente verso Wilson”. Contadini, operai e borghesi si sentirono affratellati da questa comune idolatria verso il presidente americano.<br />
<br />
-7- Dopo Caporetto l’organizzazione dei cappellani militari si mobilitò per rinsaldare lo spirito dell’esercito. In particolare don Giovanni Minzoni diede nuovo e maggiore impulso all’organizzazione delle “case del soldato” che dirigeva dalla fondazione. Tuttavia in molti ambienti militari e politici il clero era considerato corresponsabile della crisi morale, con la quale veniva solitamente spiegata la stessa sconfitta: al papa si rinfacciava il discorso sulla “inutile strage”, mentre erano accusati di “disfattismo politico” i cappellani, i quali ritenevano invece che l’atmosfera del nuovo Comando supremo andava venandosi “a poco a poco d’un lieve anticlericalismo scettico, quasi di un laicismo faceto, un umorismo ridicoleggiante abitudini pie e osservanze ritenute sino allora sacre ed utili, con un curioso e strano dileggio irriverente”(V. G. Minzoni ).<br />
Siffatto atteggiamento presto assunse il carattere di totale diffidenza. Infatti don Minzoni venne improvvisamente degradato a vice-direttore delle “case del soldato”, delle quali fu nominato direttore un maggiore dei carabinieri.<br />
Nel corso del 1918 l’attività dei cappellani assunse un valore diverso e più circoscritto rispetto al passato, quando erano stati i soli ad occuparsi dei problemi spirituali delle truppe. Problemi questi che dopo Caporetto diventarono la preoccupazione costante di tutti, dei militari come dei politici. In particolare gli “ufficiali P” assunsero la funzione di controllori dei cappellani che, nonostante i dissapori, continuarono a svolgere con rinnovato ardore quell’opera patriottica, per la quale si erano tanto prodigati fin dall’inizio del conflitto.<br />
<br />
-8- Gli austro-tedeschi nel programmare l’offensiva di Caporetto erano convinti che un insuccesso militare italiano potesse provocare la rottura del fronte interno del Paese e forse la guerra civile come era avvenuto in Russia. Ma il contegno assunto dopo la disfatta dal Partito socialista e dalla classe operaia deluse i governi degli Imperi Centrali. Infatti si notarono subito i segni di un risveglio patriottico in gran parte della classe operaia, fino ad allora rimasta contraria o indifferente alla guerra: “Quando il nemico calpesta il suolo della patria abbiamo solo il dovere di resistergli” scriveva l’on. Rigola, segretario generale della Confederazione Generale del Lavoro, mentre C. Treves e F. Turati affermavano che il proletariato avrebbe salvato la patria senza rinnegare se stesso, cioè confermavano di non volersi staccare dalla formula “non aderire e non sabotare”. <br />
Si può, dunque, dire che nel 1918 In Italia gli ideali wilsoniani prevalessero su quelli leninisti, in quanto all’epoca era in voga la formula: «Wilson o Lenin”.<br />
Il 24 maggio, terzo anniversario dell’intervento, il sindaco socialista di Bologna, Zanardi, espose il gonfalone sul palazzo municipale e prese parte ad una manifestazione dei caduti; dopo qualche giorno egli accolse a nome della città Vittorio Emanuele III, offrendogli un mazzo di fiori tricolori, e il sovrano ebbe parole di elogio per l’amministrazione socialista.<br />
Questi ed altri episodi dello stesso tipo evidenziano efficacemente la piena adesione degli italiani agli ideali wilsoniani.<br />
<br />
-9- Il generale Armando Diaz, già comandante sul Carso del XXII corpo d’armata, fu nominato Comandante supremo dell’esercito dopo l’esonero di Luigi Cadorna. Egli non era molto noto, perciò sia l’opinione pubblica che gli ambienti militari, non avendolo considerato fra i possibili candidati, furono colti di sorpresa <br />
Tuttora non è ben chiaro come si giunse alla sua nomina.<br />
Subito dopo fra i quadri dell’esercito si diffuse un certo disagio, ma dopo qualche giorno tutti si mostrarono rassicurati e soddisfatti.<br />
Con l’avvento di Diaz divennero molto rari i disaccordi e le tensioni tra Comando e Governo: tra i due poteri si stabilì un rapporto di collaborazione o, come più d’uno disse, di sostanziale subordinazione, nel senso che il potere militare era sottomesso<br />
al potere civile.<br />
“Io non sono che il rappresentante militare del governo” aveva dichiarato il generale A. Diaz dal primo giorno, rovesciando il concetto cadorniano secondo il quale il Comandante supremo era sì responsabile di fronte al governo, ma doveva rimanere rigorosamente autonomo.<br />
Il presidente V. E. Orlando, nelle sue memorie scrisse che il periodo Diaz era stato “il solo periodo in tutta la storia della guerra, in tutti i paesi belligeranti”, in cui ci fosse stata “perfetta armonia e completa e leale collaborazione in tutti i sensi – tecnica compresa – fra il capo civile e quello militare”.<br />
In media il capo del governo e il nuovo capo di stato maggiore si incontravano tre o quattro volte al mese, al Comando supremo o a Roma: “Erano colloqui interminabili fra me e lui”, raccontò il presidente, aggiungendo che nel corso di quegli incontri l’uno accettava spesso i consigli dell’altro.<br />
Le poche volte in cui fra i due poteri ci furono tensioni o contrasti, gli stessi non furono avvelenati né da questioni di principio né da fratture insanabili. <br />
<br />
-10- Quanto alla disciplina dei soldati il Comandante supremo Diaz, pur non avendo ripudiato ufficialmente le numerose rigide regole introdotte da Cadorna, certamente non permetteva né i giudizi sommari né le decimazioni, nonostante che i soldati continuassero a disertare, mentre sostanzialmente lo spirito dell’esercito tendeva a migliorare. <br />
I nuovi rapporti instaurati tra Comando e governo fecero sì che le diserzioni dei militari non divenissero occasione per uno scambio di reciproche accuse. I due poteri intendevano collaborare per esaminare le cause e applicare i rimedi. <br />
In ordine alle diserzioni, un increscioso episodio, severamente deplorato dall’opinione pubblica, si verificò a Torino all’inizio di giugno. Carabinieri e truppe circondarono interi quartieri popolari, entrando in tutte le abitazioni per un’operazione di polizia che portò all’arresto di 98 disertori, 53 renitenti e 6 favoreggiatori; altri 11 disertori si costituirono spontaneamente. Ovviamente finirono tutti dinanzi ai Tribunali di guerra, sull’attività dei quali è significativo il seguente racconto che Attilio Frescura scrisse nel suo “Diario di un imboscato”: «Oggi, 5 luglio ’18, sono stato giudice al tribunale di guerra. Dalle 9 alle 13 abbiamo giudicato quattordici imputati. Uno ogni 17 minuti, insomma, senza tener conto del tempo perso per chiacchierare o prendere il caffè. L’interrogatorio durava pochi minuti, il difensore si limitava a raccomandare l’imputato alla clemenza del tribunale, e il verdetto era deciso dai giudici in un battibaleno. Tutti e quattordici gli imputati erano accusati dello stesso reato: ritardo nel rientrare dalla licenza. La maggioranza di essi aveva ritardato due o tre giorni, ma i giudici, in camera di consiglio, facevano il conto delle ore di quel ritardo per tramutarle in anni di galera. Risultato: l’ergastolo.<br />
Gli imputati erano tipi niente affatto interessanti, bravi ragazzi ‘senza luci ed ombre’, incappati in un processo senza rendersene ben conto. … »<br />
Quindi i Tribunali militari nei riguardi degli accusati erano severi al punto di condannare alla massima pena detentiva anche coloro che rientravano da una licenza con un ritardo di due o tre giorni.<br />
<br />
-11- Nei primi mesi del 1918 i soldati austriaci avevano patito la fame, e soltanto a giugno cominciarono a ricevere normali razioni alimentari. Intanto i loro comandi, in attesa di un prossima offensiva, cercavano di aumentarne la combattività sia col dire che in Italia i magazzini di alimentari erano fornitissimi sia col dare istruzioni sul come gli stessi potevano essere saccheggiati durante un prossimo attacco, senza che nulla andasse sprecato. Nello stesso tempo colonne di carri, dette “colonne di bottino”, venivano predisposte nelle retrovie.<br />
Comunque l’esercito austriaco era molto più armato che non a Caporetto, perché aveva 680 battaglioni e 7.000 pezzi d’artiglieria, contro i 574 battaglioni e i 5255 cannoni dell’ ottobre 1917.<br />
Ma gli austro–ungarici, nel giugno 1918, rimasti senza l’appoggio dei generali tedeschi, non seppero far tesoro degli ammaestramenti tattici di Caporetto. Infatti dispersero le forze su un fronte troppo lungo, non riuscirono a sfruttare l’elemento sorpresa e impiegarono le artiglierie con criteri molto meno efficaci.<br />
I comandi italiani, viceversa, dimostrarono di avere appreso la lezione di Caporetto. Infatti, disponendo di un buon servizio informazioni, riuscirono a conoscere in anticipo le mosse del nemico, iniziarono tempestivamente i bombardamenti, schierarono le truppe in profondità nell’eventualità che gli austriaci fossero riusciti a passare il Piave. <br />
Sebbene all’inizio dei combattimenti lo spirito dei nostri soldati fosse abbastanza alto, allorché gli austriaci lanciarono circa 170mila proiettili a gas ci furono momenti di panico, che, però furono presto superati con una rinnovata volontà di resistenza.<br />
All’efficienza dimostrata dalle truppe italiane contribuì l’innovazione di far giungere in linea reggimenti composti esclusivamente da giovanissimi. Fino a Caporetto le nuove leve erano sempre servite per colmare i vuoti nei vari reggimenti, col risultato che l’entusiasmo giovanile si contraeva, si smarriva al contatto col pessimismo o col cinismo dei veterani. Inoltre nell’autunno-inverno 1917 si temeva che i nuovi arrivati fossero contagiati dal “disfattismo” di coloro che avevano partecipato alla ritirata. Perciò il Comando supremo ordinò la costituzione di battaglioni complementari composti soltanto da reclute della classe 1899, i quali vennero mandati in linea dal novembre 1917. L’effetto psicologico di questa immissione di forze fresche fu grandissimo, come fu constatato nella cosiddetta battaglia del Piave o del solstizio, che iniziò il 15 giugno 1918 e, dopo otto giorni di durissima lotta, terminò il 23, allorché il Comando austriaco, a causa della difesa ostinata e aggressiva degli italiani, ordinò la sospensione dell’offensiva e il ripiegamento sulla riva sinistra del fiume Piave. <br />
<br />
-12- Il felice esito della battaglia del Piave ridiede animo agli italiani e fece ritenere che la crisi di Caporetto fosse stata definitivamente superata. La popolazione civile apparve disposta ad affrontare nuovi disagi, mentre nella psicologia dei soldati sembrò essersi prodotto un mutamento profondo ed universale.<br />
C’erano, dunque, tutte le condizioni affinché l’esercito italiano non continuasse a stare sulla difensiva. <br />
Francesi, inglesi e americani chiedevano con insistenza che Diaz lanciasse il suo esercito all’attacco, spinti a ciò dal desiderio che l’Italia, impegnando sul fronte sud la maggior parte delle forze nemiche, rendesse ad essi più facile il compito sul fronte occidentale.<br />
Anche il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, temendo che l’Italia finisse col doversi presentare alla Conferenza di pace senza aver neppure tentato di riconquistare i territori perduti nel 1917, sollecitava il Comandante supremo a passare all’offensiva. Badoglio e Nitti, condividendo l’opinione di Diaz che la guerra non sarebbe finita prima del 1919, ritenevano come lui che fosse opportuno conservare intatte le energie delle truppe per lo sforzo finale, il quale sarebbe stato compiuto solo allora.<br />
Intanto i tedeschi subivano pesanti perdite sul fronte occidentale, mentre manifestazioni pacifiste avvenivano in Austria e Germania e i governi degli Imperi Centrali sembravano desiderosi di uscire dal conflitto.<br />
Pertanto il presidente V. E. Orlando riconobbe anche lui che fosse necessario prendere al più presto l’iniziativa di una battaglia sul Piave.<br />
Ma il Comandante supremo continuò a tergiversare e decise l’offensiva solo quando fu evidente che la guerra stava proprio volgendo al termine, per cui Vienna avrebbe potuto accettare improvvisamente la pace.<br />
Quindi nella tanto esaltata battaglia di Vittorio Veneto (che ebbe inizio in 26 ottobre ’18 e non il 24) in effetti, come scrisse L. Albertini, “gli italiani raccolsero, dopo due o tre giorni di lotta, il frutto delle ribellioni che dissolvevano l’esercito austro-ungarico”, le cui condizioni morali e materiali erano oltremodo precarie soprattutto a causa della mancanza di cibo.<br />
Nonostante tutto gli austriaci non rinunziarono alla lotta e, all’inizio opposero una energica resistenza. Ma dopo alcune ore le loro prime linee cedettero e non ci fu più battaglia. A tal proposito G. Prezzolini scrisse: “Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani debbono lasciarsi dire.” <br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-16947152533683444772016-06-14T15:32:00.002+02:002016-06-14T15:32:59.958+02:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Dal tragico ottobre 1917 alla quasi lieta primavera 1918<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQbVN9QjqAc3RJLt_r7EclYP8UUbowHvTkGbYm68sEyGH2vI-_Bmv05_n6QGtWJ_GZz2lUVCUuwh2XBzemqP83vZU2jt1mGx-gIAtC27i6uwfk5mjeEYEBQ8xje7U83tGbRRw2qJD50l_F/s1600/caporetto.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="202" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQbVN9QjqAc3RJLt_r7EclYP8UUbowHvTkGbYm68sEyGH2vI-_Bmv05_n6QGtWJ_GZz2lUVCUuwh2XBzemqP83vZU2jt1mGx-gIAtC27i6uwfk5mjeEYEBQ8xje7U83tGbRRw2qJD50l_F/s400/caporetto.jpg" width="400" /></a></div>
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La sconfitta di Caporetto e l’esonero del gen. L. Cadorna determinarono la fine della separazione tra potere politico e militare, che aveva caratterizzato la Nazione italiana fin dall'inizio del conflitto. Nello stesso tempo il fatto che le truppe austro-tedesche fossero penetrate profondamente al di qua dei confini nazionali suscitava le più nere previsioni nell'animo di politici e militari italiani. Infatti all'inizio solo pochissimi credevano alla possibilità di fermare il nemico sul Piave. Invece molti erano coloro che ritenevano opportuno ritirarsi fino al Mincio. Di questo si discusse il 15 novembre 1917 in un Consiglio di guerra, durante il quale il gen. Armando Diaz, che dal 30 ottobre era il nuovo Comandante supremo, insisté sulla convenienza di restare schierati sul Piave. Opinione questa condivisa dal capo del governo, V. E . Orlando.<br />
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Rimaneva comunque il timore di non poter resistere né sul Piave né sul Mincio, perciò numerosi erano coloro che sostenevano la necessità di una pace separata col nemico, della quale, però, il 10 novembre Luigi Einaudi affermò l’impossibile realizzazione, in quanto l’Italia dipendeva dai suoi alleati per le derrate alimentari, le materie prime, i crediti ecc.. Il successivo giorno 28 anche il ministro Francesco Saverio Nitti affermò che gli italiani non avrebbero potuto sopravvivere neppure un mese senza l’aiuto amichevole degli alleati.<br />
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Tuttavia nell'inverno 1917-’18, proprio in ordine ad un’eventuale pace separata, il governo italiano e quello austriaco intavolarono trattative con la mediazione della Santa Sede. Trattative queste che presto furono ritenute inopportune, poiché agli italiani non conveniva negoziare col nemico, mentre gli alleati anglo-francesi si trovavano in gravi difficoltà sul fronte occidentale a causa di una poderosa offensiva austro-tedesca. <br />
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L’invasione nemica, seguita alla disfatta di Caporetto, non portò la concordia fra gli italiani, infatti ci furono infiammate polemiche subito dopo la nomina a presidente del Consiglio di V. E. Orlando, che numerosi interventisti indicavano fra i maggiori responsabili della stessa disfatta per la sua politica interna “floscia, irresoluta e snervata”, quando egli faceva parte del governo Boselli. In particolare l’on. Luigi Albertini sosteneva che il governo Orlando fosse il prodotto di una torbida atmosfera parlamentare e il risultato di una combinazione che poteva essere giudicata con favore da giolittiani e socialisti, cioè da neutralisti.<br />
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Al fine di combattere il cosiddetto “disfattismo parlamentare”, un centinaio di deputati e senatori, fra cui F. Martini, Antonio Salandra e lo stesso Albertini, si costituirono in “fascio di difesa nazionale”.<br />
Intanto i contadini in Valdinievole (Toscana) gridavano “Viva i tedeschi” (V. F. Martini), quelli delle Marche erano “esultanti” per l’avvenuta disfatta, credendo e sperando nella pace (V. L. Bissolati), il popolo minuto di Torino restava “irriducibile” (V. On De Fabris), quello di Milano cominciava ad augurarsi l’arrivo dei tedeschi (V. U. Notari), e nel “popolino” napoletano serpeggiavano propositi di rivolta (V. Lettera inviata il 15 dicembre da Benedetto Croce al presidente Orlando). <br />
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Il Comando del 3° Gruppo Legioni Carabinieri (Roma), in un rapporto sull’ordine pubblico in Toscana, Umbria, Lazio e Sardegna, relativo al periodo 1° settembre - 31 dicembre 1917, segnalò per due sole provincie su dodici, cioè per Roma e Pisa, un miglioramento delle condizioni dello spirito pubblico, le quali erano, invece, rimaste “normali” per Perugia, Cagliari e Sassari. A Firenze le stesse condizioni continuavano ad essere “anormali” per la carenza di generi di prima necessità e per la propaganda dei sovversivi. A Lucca ci si lamentava per il prolungarsi della guerra, mentre ad Arezzo, Massa, Livorno, Siena e Grosseto il “malcontento generale” era motivato dalla difficoltà per gli approvvigionamenti.<br />
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Dopo Caporetto neppure le popolazioni rurali della province di Verona, Mantova e Padova, benché fossero sotto la diretta minaccia dell’invasione nemica, furono animate da sentimenti patriottici.<br />
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Nel novembre 1917 si notarono sintomi di ripresa fra le truppe, soprattutto nei primi giorni della resistenza sul Piave. Infatti molti reparti si difesero coraggiosamente contro gli assalti nemici. Tuttavia nel complesso lo spirito combattivo dell’esercito italiano continuò a destare non poche apprensioni, per cui ci fu un alternarsi di buone e cattive notizie.<br />
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Intanto gli sbandati, dopo il passaggio del Piave, vennero inviati alla rinfusa nei campi di raccolta. In un secondo momento gli stessi vennero suddivisi secondo l’arma a cui appartenevano: 200.000 fanti furono raccolti a Castelfranco Emilia (MO), 80.000 artiglieri a Mirandola (MO), 13.000 genieri a Guastalla (RE) e il carreggio a Copparo (FE). I militari, così suddivisi, cominciarono ad essere inquadrati in reparti organici e riforniti di viveri, vestiario ed armi. I corpi rimessi in efficienza venivano avviati al fronte, dove erano utilizzati con piena fiducia.<br />
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Insieme agli sbandati nei campi di raccolta furono radunate alcune migliaia di disertori che al gen. Diaz erano sembrati per la maggior parte “imbevuti” di idee pacifiste e antimilitariste.<br />
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Il 14 novembre 3.500 disertori, che erano nella caserma del Macao a Roma, cercarono di ribellarsi e l’ordine venne ristabilito da un reparto di cavalleria. La sera dello stesso giorno i suddetti partirono da detta caserma e, benché scortati da carabinieri e militari armati, durante tutto il percorso cantarono l’Inno dei lavoratori e l’Internazionale e gridarono: “Abbasso Sonnino! Noi non vogliamo la guerra”.<br />
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A metà dicembre 1917 il gen. A. Diaz informò il capo del governo che il nemico aveva “enormemente intensificato” lungo tutto il fronte una intensa propaganda demoralizzatrice e pacifista, mediante il lancio di manifestini dagli aerei e dalle trincee, e con il tentativo di stabilire comunicazioni fra le trincee contrapposte. A questo si aggiungeva l’atteggiamento antipatriottico dei contadini nelle immediate retrovie. Era stata anche diffusa la falsa notizia che a Natale ci sarebbe stata la pace, inoltre il 21 dicembre, una fonte vaticana informò addirittura che, sempre per Natale, c’era il pericolo di uno sciopero militare.<br />
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Per questi motivi il Comando supremo impartì l’ordine di intensificare la vigilanza delle truppe dipendenti, di promuovere un’azione di contropropaganda patriottica e di spegnere con prontezza ed energia ogni focolaio di propaganda pacifista.<br />
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Prima del 25 dicembre furono quindi adottate le dovute precauzioni. Infatti nuclei speciali di carabinieri furono appositamente costituiti o rinforzati, mentre reparti pronti ad ogni evenienza e raggruppamenti di mitragliatrici e di autoblindo furono collocati nei luoghi ritenuti più vulnerabili.<br />
Gli austro-tedeschi, forse informati delle preoccupazioni dei comandi italiani, proprio alla vigilia di Natale, impegnando al massimo le proprie truppe, tentarono di superare la resistenza dei nostri reparti; questi viceversa, resistendo tenacemente, inflissero loro gravi perdite.<br />
Carabinieri, autoblindo e mitragliatrici, appostati per domare la temuta rivolta, vennero quindi ritirati in buon ordine, e il Natale 1917 venne ricordato dagli italiani come un “Natale eroico”. <br />
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Le voci di “scioperi militari” al fronte e di complotti socialisti nel Paese indussero il Comando supremo a stabilire un’intesa col governo per stroncare la propaganda disfattista. Fu quindi emanato il cosiddetto “decreto Sacchi”, che prevedeva pene severe per chiunque commettesse o istigasse a commettere un qualsiasi fatto capace di “deprimere lo spirito pubblico”. Applicando questa legge furono poi arrestati il segretario nazionale del Partito socialista, Costantino Lazzari, ed il vice segretario, Nicola Bombacci.<br />
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Però nella realtà, dopo Caporetto, l’esercito fu più pressato dalla propaganda “disfattista” degli austriaci che non da quella dei neutralisti italiani. Infatti, mentre aerei e razzi nemici lanciavano continuamente sulle nostre armate attestate sul Piave manifestini ed altro materiale propagandistico, gruppi speciali di militari austriaci capaci di parlare italiano venivano inviati sulle prime linee e cercavano di mettersi in comunicazione con le opposte trincee per fare propaganda e nello stesso tempo per assumere informazioni.<br />
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Alcuni argomenti utilizzati dagli austriaci per avvilire lo spirito guerresco degli italiani erano: la pace conclusa con i sovietici e la “fraternizzazione” tra austriaci e russi; le vittorie conseguite dai tedeschi sul fronte occidentale e nella guerra sottomarina; il sostenere che Inghilterra e Stati Uniti fossero potenze imperialistiche che speculavano sulla guerra ed intendessero asservire il mondo; la corruzione del mondo politico italiano; l’insistenza sul fatto che le spose e le fidanzate dei combattenti tradissero mariti e promessi sposi con gli imboscati; il sostenere che il Tirolo e l’Istria non fossero abitate da italiani; il sottolineare la forza degli imperi centrali e la debolezza dell’Italia.<br />
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Una volta iniziata la resistenza sul Piave erano stati riscontrati segni di ripresa spirituale, ma presto ebbe inizio un susseguirsi di buoni e cattivi stati d’animo.<br />
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Secondo Giuseppe Lombardo Radice sul Piave “si resisteva”, ma c’era diffidenza da parte dei soldati verso la propaganda patriottica, e permaneva negli animi “una esagerata idea della potenza del nemico ed un sordo scetticismo per tutto ciò che si diceva circa la nostra capacità di risorgere e di vincere”. Né i comandanti si trovavano in uno stato d’animo molto diverso da quello delle truppe, in quanto la massima aspirazione patriottica nella media dei giovani ufficiali era quella di affermarsi con un’efficace resistenza, per poter riavere con trattative di pace le province invase”. Essi chiedevano insomma la pace con la mediazione vaticana.<br />
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Rino Alessi, a pag. 206 della sua opera “Dall'Isonzo al Piave”, ha scritto che esistevano brigate stanche, si riudivano canzoni di scherno per la guerra, e lo scetticismo si diffondeva fra soldati e ufficiali; alla mense di questi ultimi, anzi, si udivano talvolta “discorsi anarchici”.<br />
Il fatto, riferito da Alessi, che gli ufficiali parlassero come sovversivi sta a significare che il ragionamento di molti militari era il seguente: poiché dopo Caporetto il sogno di conquistare Trento e Trieste era svanito e dal momento che l’Austria con una pace separata avrebbe certamente restituito all’Italia i territori invasi, per chi e per che cosa si continuava a combattere? Si continuava a combattere – era la risposta – non più per l’Italia ma per la Francia e la Gran Bretagna. <br />
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All’inizio del novembre 1917, mentre la rotta di Caporetto era ancora in corso, alcune divisioni inglesi e francesi giunsero in Italia e si fermarono tra Mantova, Verona e Brescia. Il Comando supremo italiano invano chiese che almeno una parte di esse fosse subito impiegata contro il nemico. Soltanto il 5 dicembre i comandi alleati consentirono ai primi contingenti di schierarsi sulla linea del Piave, che era ormai tenuta saldamente dalle nostre truppe. Perciò gli italiani ebbero la sensazione che gli anglo-francesi fossero venuti in Italia non come alleati, ma per compiere quasi un’opera di polizia militare. Ad esempio, don Minzoni s’indispettì moltissimo al vedere in qual modo gli ufficiali britannici “ispezionassero e criticassero” lo schieramento adottato dal reggimento di fanteria del quale egli era cappellano.<br />
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Sentimenti ostili verso la Gran Bretagna erano presenti fra gli italiani già prima di Caporetto, e nel marzo 1916 Filippo Turati aveva dichiarato in parlamento che i britannici erano interessatissimi a prolungare la guerra, dato che grazie ad essa riuscivano a concludere “eccellenti affari”.<br />
Il risentimento verso gli inglesi superava di gran lunga quello verso i francesi, eppure, dopo Caporetto non dall’Inghilterra ma dalla Francia giunse in Italia un uomo politico intenzionato ad assicurare il predominio militare del suo paese sull’esercito di Diaz. Si trattava del deputato Abel Ferry, che nel dicembre 1917 era stato inviato dal parlamento francese per indagare sulle cause di Caporetto e sui problemi più urgenti dell’esercito italiano. Egli compilò una lunga relazione, nella quale rivolgeva ai quadri delle nostre truppe critiche come le seguenti: lo stato maggiore era di origine aristocratica ed aveva introdotto una disciplina di tipo germanico; gli ufficiali di truppa restavano distanti dai soldati, “non par nature, mais par ordre”; la qualità degli stessi ufficiali lasciava molto a desiderare, anche perché i gradi erano assegnati non ai meritevoli ma ai medio e piccolo borghesi, secondo un criterio sociale; i soldati invece erano buoni, capaci di resistere alla fame e al freddo più dei francesi, e di combattere con slancio. Ferry riferì che, secondo l‘opinione degli ufficiali francesi, l’esercito italiano era eccellente dal punto di vista umano, ma scadente dal punto di vista tecnico. Per rimetterlo in sesto toccava dunque ai francesi intervenire, magari, inviando in Italia 200-300 ufficiali istruttori.<br />
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Dunque con la ritirata di Caporetto gli italiani, già poco stimati dai francesi, avevano perso di colpo il prestigio militare conquistato con due anni di dure battaglie. Ma non si teneva conto del fatto che i soldati italiani erano poveri, mal vestiti e scarsamente nutriti, mentre quelli francesi e britannici giunti nel Veneto risultavano al confronto ricchi e privilegiati.<br />
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Tuttavia la presenza di truppe alleate suscitò sentimenti contrastanti, perché se da una parte destarono inquietudini, dall'altra promossero confronti e ripensamenti che misero in crisi molte norme comportamentali superate o errate. Per esempio, il fatto che i soldati francesi e inglesi ricevessero un trattamento migliore fu uno dei motivi che indussero il Comando supremo a prendere provvedimenti a favore delle truppe.<br />
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Alla fine del gennaio 1918 il Ministero dell’Interno chiese ai prefetti di raccogliere notizie sullo spirito delle truppe mediante interrogatori ai soldati che erano in licenza invernale.<br />
Si ebbe così, con notizie raccolte in circa settanta province e circondari, una informazione complessiva, che non giustificava né i giudizi pessimistici, circolanti anche in ambienti governativi, né i giudizi ottimistici di chi immaginava un esercito trasformato dalla resistenza sul Piave. Molti prefetti dichiararono che lo stato d’animo delle truppe era migliorato rispetto all'inverno precedente, definendolo ottimo, buono o soddisfacente; ma nello stesso tempo sottolinearono i preoccupanti segni di stanchezza e di malcontento che inquietavano perfino il presidente Orlando, il quale aveva detto il 15 ottobre al giornalista Olindo Malagodi di ritenere che gli interventisti con i loro discorsi sulla ritirata Caporetto, intesa come “sciopero” o “rivolta politico militare”, avessero finito con l’insinuare nei soldati l’idea di mettere in atto ciò che prima della disfatta non avevano nemmeno pensato di fare.<br />
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Il 9 marzo, al Comando supremo, ci fu una riunione, alla quale parteciparono il presidente Orlando, i ministri Bissolati e Nitti, il gen. Diaz e i comandanti delle varie armate. I generali intervenuti dichiararono concordi che c’era stato un grande cambiamento dall'ottobre ‘17 in poi, che il morale delle truppe era “buono”, che l’esercito era ormai ricostituito in piena forza e che la posizione strategica sul Piave risultava “incomparabilmente migliore” di quella sull'Isonzo. <br />
Purtroppo il 21 marzo tornò l’apprensione alla notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte occidentale minacciando direttamente Parigi e Calais. Tuttavia in aprile le angosce scomparvero: l’offensiva tedesca in Francia era stata arrestata.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-1694289153686236352016-05-23T09:23:00.000+02:002016-05-23T09:23:41.012+02:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Il 1917 prima di Caporetto<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2IikTn6YaSy3L1zFSIr3mx9wl8lGvRb4JXkWY9q6TYwZ3TYoMs5qbow8fs_2uARGMC2Afg7AwFxjzRl4udZkFgzpH_VwlSaI7Xzzkg0UAZX_yKraaiokI1pzSi1HjQ26-V4DYo_9O__1l/s1600/fucilazione.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2IikTn6YaSy3L1zFSIr3mx9wl8lGvRb4JXkWY9q6TYwZ3TYoMs5qbow8fs_2uARGMC2Afg7AwFxjzRl4udZkFgzpH_VwlSaI7Xzzkg0UAZX_yKraaiokI1pzSi1HjQ26-V4DYo_9O__1l/s400/fucilazione.jpg" width="400" /></a></div>
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Due avvenimenti sconvolgenti, quali la caduta in marzo del governo zarista russo e l’entrata in guerra (6 aprile) degli Stati Uniti d’America contro gli Imperi centrali, segnarono nei primi mesi del 1917 l’inizio di una nuova epoca storica.<br />
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Intanto l’Esercito italiano, nonostante la depressione degli animi e i contrasti tra potere politico e potere militare, poteva godere di una vera e propria tregua, poiché dai primi di novembre 1916 a metà maggio 1917 non ci furono operazioni militari di rilievo. Questo permise agli uomini in armi di ritemprare le forze, mentre le giovani reclute della classe 1897 portavano al fronte, secondo A. Omodeo, “un’ondata di freschezza”.<br />
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Invece l’esercito austro-ungarico, meno omogeneo di quello italiano in quanto costituito da soldati di varie nazionalità, era profondamente minato dall'indisciplina.<br />
Infatti frequentemente accadeva che ufficiali romeni o cechi o boemi disertassero per informare gli italiani sulle operazioni che stava preparando il proprio esercito, nei cui baraccamenti non mancavano mai le scritte inneggianti alla pace, nonostante il costante impegno dei comandi a farle cancellare.<br />
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Anche in Germania era grave il contrasto tra il potere politico e quello militare. Contro quest’ultimo s’indirizzava, in una prima fase, il malcontento delle popolazioni. Tuttavia nell'estate del 1917 entrambi i poteri persero la fiducia di tutti gli strati sociali, nei quali si andava sempre più diffondendo il desiderio che fossero iniziate trattative di pace.<br />
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Sul fronte francese, fra l’aprile e l’ottobre 1917, circa 40mila soldati si ammutinarono, compiendo atti d’indisciplina e manifestando al canto dell’Internazionale. D'altronde tutti i francesi erano esausti per i sacrifici patiti fin dall'agosto 1914, e a Parigi soldati e scioperanti fraternizzavano, inneggiando alla rivoluzione russa e alla pace. <br />
Allo scoppio della rivoluzione a Pietrogrado (12 marzo 1917) il giornalista Rino Alessi informava il suo direttore che gli avvenimenti di Russia non avevano “nessuna ripercussione” al fronte e che l’esercito rimaneva “calmissimo”.<br />
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In effetti i comandi superiori italiani avevano ordinato agli ufficiali di spiegare ai soldati che gli avvenimenti russi dovevano essere considerati come un vera fortuna per l’Intesa, poiché il governo rivoluzionario avrebbe certamente dato maggiore impulso alla guerra contro gli Imperi centrali.<br />
In aprile, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, aumentò la speranza in una svolta decisiva foriera di pace.<br />
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Il fermento dovuto a questi avvenimenti internazionali si traduceva, dunque, nella speranza di una imminente fine della guerra. Ma a partire dal 12 maggio ebbe inizio la X battaglia dell’Isonzo a cui seguì l’offensiva dell’Ortigara. Il sostanziale fallimento di entrambe le operazioni produsse sullo spirito delle truppe conseguenze considerate gravi e preoccupanti dalle autorità politiche e anche da alcuni comandanti militari. Ai primi di luglio Il Vescovo di campo, mons. Bartolomasi, ritenne suo dovere recarsi a Roma per informare della situazione il capo del governo Boselli.<br />
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Il gen. Cadorna diede sì l’ordine di sospendere i combattimenti, ma concedendo solo due mesi di tregua alle truppe, che a suo avviso non avevano esaurito il loro spirito combattivo. In effetti la tregua servì alla preparazione dell’undicesima battaglia dell’Isonzo che si prevedeva più impegnativa delle precedenti in quanto l’obiettivo principale era la conquista dell’altopiano della Bainzizza. Questo preoccupava molto i politici. In particolare, il 1° agosto, l’on. Giovanni Amendola scrisse al ministro Bissolati, scongiurandolo d’intervenire affinché si rinunziasse all'offensiva, per non sottoporre le truppe ad una nuova e logorante prova.<br />
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Ma, contrariamente a quel che si pensava, i grandiosi preparativi della battaglia ebbero ripercussioni molto positive sullo stato d’ animo dei soldati, come se tutti sperassero che alla conquista della Bainzizza sarebbe seguita la pace.<br />
L’andamento delle operazioni all'inizio fu incoraggiante, ma dopo pochi giorni fu evidente il loro fallimento: modesti furono i risultati territoriali dell’offensiva e del tutto negativi quelli strategici, dato che la nuova prima linea risultava più vulnerabile della precedente, mentre erano stati perduti circa 100mila uomini.<br />
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Ovviamente lo spirito delle truppe subì un nuovo tracollo, sempre per evidenti ragioni d’indole militare: la Bainsizza, infatti aveva dimostrato che la guerra di logoramento, mentre estenuava entrambe le parti contendenti, consentiva solo risultati locali, ma non portava all'attesa soluzione finale del conflitto.<br />
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Nel 1917 ci fu un vero e proprio scadimento disciplinare dell’Esercito italiano: aumentò il numero dei processi per reati d’indisciplina, insubordinazione e diserzione; non mancarono gli autolesionisti che diminuirono dopo il mese maggio, ma soltanto in seguito a due fucilazioni ammonitrici.<br />
Spesso i militari in viaggio verso il fronte sparavano o lanciavano pietre dai treni, insultavano i borghesi, gli operai e i ferrovieri considerandoli imboscati, effettuavano danneggiamenti ed altri atti di protesta, accompagnati da grida inneggianti alla pace.<br />
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Dal maggio all'ottobre 1917 si contarono circa 60 processi per ammutinamento con rivolta. In genere gli atti d’indisciplina nascevano spontaneamente, si svolgevano in forma disordinata, terminavano rapidamente dopo l’intervento dei comandi, prima che le repressioni fossero poste in atto. Le manifestazioni di protesta avevano luogo soprattutto al momento di tornare in linea ed erano originate per lo più dalla mancata concessione di licenze o dal mancato rispetto dei turni di riposo.<br />
Soltanto in un caso le truppe forse protestarono secondo un piano preordinato: fu nel luglio 1917 a S.Maria La Longa, allorché una rivolta di eccezionale gravità si verificò fra i soldati della brigata Catanzaro (141° e 142° reggimento fanteria).<br />
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Alcune settimane prima della rivolta, mentre il 142° reggimento si accingeva a ritornare in linea, si erano udite scariche di fucileria e grida di protesta, subito sedate dagli ufficiali. I carabinieri, dopo accurate indagini, il 14 luglio avevano individuato in nove militari i possibili istigatori di nuove proteste da mettere in atto in futuro. Questi furono fatti arrestare dal comando di brigata il 15 luglio, quando il reggimento si preparava a partire per la prima linea. Ma verso le ore 22,45 in entrambi i reggimenti con spari di fucile e grida di ribellione ebbero inizio manifestazioni di rivolta, provocate da “non pochi” facinorosi che, minacciando i loro commilitoni rimasti nelle baracche trattenuti dagli ufficiali, tentarono d’invadere il paese con l’uso di bombe a mano e mitragliatrici. Negli scontri notturni morirono 2 ufficiali e 9 soldati, mentre furono feriti altri 2 ufficiali e 25 soldati. Tutta la VI compagnia del 142° si ammutinò, costringendo l’ufficiale comandante ad allontanarsi. I carabinieri, la cavalleria e le auto blindate, chiamati in aiuto dai comandi, non intervennero perché nell'oscurità non c’era una separazione netta tra i ribelli e gli altri militari. All'alba la rivolta cessò e tutti raggiunsero i reparti.<br />
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Al mattino furono fucilati 28 soldati: 16 perché arrestati “con le armi cariche, le canne ancora scottanti”, e 12 in seguito a decimazione della suddetta VI compagnia.<br />
Verso le ore 11 la Brigata Catanzaro iniziò il trasferimento a Villa Vicentina, ma la repressione continuò nei giorni seguenti con altre 4 fucilazioni, 135 rinvii a giudizio di militari, l’allontanamento dalla brigata di 463 soldati e 33 ufficiali e sottufficiali nonché la sostituzione dei comandanti della brigata e dei due reggimenti e il deferimento al tribunale militare del comandante della VI compagnia.<br />
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Principale causa della rivolta sarebbe stata la propaganda sovversiva che esaltava la rivoluzione russa. Fra le cause secondarie bisogna, però, considerare la sospensione delle licenze ai numerosi siciliani del 141° e 142° e la convinzione dei soldati che il trasferimento in prima linea spettasse ad altra brigata e non alla “Catanzaro”, che era stata a lungo sul fronte carsico, ritenuto da tutti il più rischioso.<br />
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Il reato più diffuso nell’Esercito italiano era quello di diserzione, per il quale i condannati furono 10.272 nel primo anno di guerra, 27.817 nel secondo e addirittura 55.034 nel terzo.<br />
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Secondo il gen. Cadorna, la Sicilia era un covo pericoloso di renitenti e disertori.<br />
La maggior parte di coloro che erano considerati disertori tornavano in trincea e morivano in combattimento: soltanto il 2% passava al nemico; il restante 98% era in buona parte costituito da uomini che non avevano avuto mai l’intenzione di abbandonare il reparto e che si erano assentati arbitrariamente per un brevissimo periodo oppure erano tornati in ritardo dalla licenza.<br />
Numerosi erano i disertori che, pentendosi, facevano spontaneamente ritorno al reparto, dove venivano processati e rispediti in trincea.<br />
Altrettanto di solito accadeva a chi invece di tornare volontariamente era stato arrestato dalla forza pubblica.<br />
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Su 101.665 condanne per diserzione soltanto 370 furono condanne a morte; le altre furono condanne alla reclusione, dopo le quali i condannati dovevano in genere tornare in linea, al fine di impedire che la diserzione diventasse un mezzo per “imboscarsi” nelle prigioni.<br />
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Nel 1917 fu molto avvertita l’opposizione fra Esercito e Paese. Soldati e ufficiali si irritavano al pensiero che alle loro spalle ci fosse una nazione sostanzialmente estranea alla guerra. Infatti nelle città italiane continuavano ad essere regolarmente frequentati bar, teatri, locali notturni e negozi, ivi compresi quelli di lusso, mentre le fabbriche di automobili non sapevano più come soddisfare le esigenze dei privati e i gioiellieri lavoravano ad ornare le signore di perle e brillanti. Nello stesso tempo i giornali denunciavano illeciti guadagni e frodi nelle forniture militari.<br />
Soldati ed ufficiali erano ossessionati dal fatto che l’Italia fosse piena d’imboscati. In particolare la fanteria odiava le altre armi (cioè: artiglieria, genio, servizi e cavalleria), perché erano meno esposte ai pericoli. In effetti annualmente la percentuale media delle perdite (morti + feriti) era del 39,8% per la fanteria, del 4,1% per l’artiglieria, del 4,2% per il genio, dello 0,3% per i servizi e del 3,5% per la cavalleria.<br />
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I fanti erano in grandissima parte contadini, quindi l’opposizione tra fanti ed imboscati divenne opposizione tra contadini e borghesi, tra contadini e proletariato urbano. I fanti sostenevano che i contadini non avessero nessuna strada per imboscarsi, mentre borghesi ed operai ne avevano cento. In particolare gli operai delle industrie, specie se operanti per la produzione di ciò che era necessario all'Esercito, ottenevano l’esonero dal servizio. Invece ai contadini per i lavori agricoli nel 1915 non furono concessi né esoneri né licenze straordinarie, mentre nel 1916 ci furono brevi licenze e 2.438 esoneri e nel 1917 licenze temporanee di 30 o 40 giorni in numero superiore al passato.<br />
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Gli organi che dovevano deciderne la concessione erano diretti non da militari, ma da borghesi, da autorità locali, soggetti ad ogni forma di pressione. In proposito Arrigo Serpieri ha scritto “Grande e terribile era la loro autorità; essi potevano decidere non solo un prezioso aiuto al contadino affaticato, ma anche, forse, della vita o della morte di un figlio, di un fratello di un parente”.<br />
Le domande presentate erano sempre molto più numerose delle licenze che potevano essere concesse, perciò una scelta obiettiva delle stesse era molto difficile, per non dire impossibile.<br />
Nel 1917 alla commissione della Provincia di Roma furono presentate 20.000 domande. Ne furono scelte soltanto 2.000, e la commissione fu perseguitata da lettere, telegrammi e interrogazioni per conto delle 18.000 famiglie deluse. <br />
<br />
Numerosissime agitazioni contro la guerra ebbero luogo in Italia nel 1916 e più ancora nel 1917. La più grave si verificò a Torino, dove il 22 agosto 1917 un mancato rifornimento di farina fu causa di una dimostrazione per il pane, la quale degenerò in vero e proprio moto antimilitarista, che durò circa una settimana, provocando trentacinque morti fra i rivoltosi, di cui tre donne, e circa duecento feriti, mentre tra la forza pubblica e i reparti militari, che avevano partecipato alla repressione con mitragliatrici e autoblindo, i morti furono tre . Furono arrestate circa mille persone che, processate per direttissima, furono condannate alla reclusione.<br />
<br />
Ma già nel gennaio-marzo 1916, a Firenze, le donne del contado cercarono d’inscenare manifestazioni pacifiste. Nell'aprile successivo, a Mantova, altri gruppi di donne dimostrarono contro la guerra. Verso la fine del 1916 le agitazioni si moltiplicarono in misura impressionante. Quasi ogni lunedì – giorno in cui venivano distribuiti i sussidi alle famiglie dei mobilitati – venivano segnalate dimostrazioni spontanee di donne che reclamavano l’aumento dei sussidi e soprattutto il ritorno dei congiunti. La direzione generale di Pubblica Sicurezza calcolò che dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917 ebbero luogo 500 manifestazioni, alle quali parteciparono decine e decine di migliaia di donne.<br />
<br />
Nel corso del 1917 gli interventisti più accesi reclamavano insistentemente provvedimenti di carattere eccezionale contro tutti i neutralisti in generale e contro i socialisti in particolare. Perciò diedero vita a comitati e leghe di resistenza interna per mobilitare i loro seguaci e dar la caccia ai neutralisti. Un settimanale, “Il fronte interno”, fu l’organo di questi comitati e diventò presto famoso per il suo tono esasperato e fazioso.<br />
<br />
Il 15 maggio 1917 il comitato milanese di resistenza interna avvertì che se il governo avesse continuato a tollerare il “disfattismo”, il popolo si sarebbe fatta giustizia da sé. E il successivo 24 maggio tutte le rappresentanze dei gruppi interventisti, riunite al Campidoglio per celebrare il 2° anniversario dell’entrata in guerra, rivolsero al governo un perentorio invito a non favorire i nemici della vittoria.<br />
<br />
Intanto il ministro Leonida Bissolati, cercando ad essere nello stesso tempo il rappresentante dell’interventismo in seno a governo e del governo presso il Comando supremo, agiva perché Cadorna fosse solidale con gli interventisti e contribuiva ad esasperare l’avversione del generalissimo verso il governo e il parlamento.<br />
<br />
Nacque così tra interventisti e Comando supremo un vero e proprio “idillio”, del quale numerosissime furono le conferme fino alla disfatta di Caporetto.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-41391062692604029172016-05-06T17:44:00.000+02:002016-05-06T17:55:15.346+02:00Galatina era Città ma non riesce più ad essere tale<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqAWUXDsL2voKM0dVdcxCtiGXwEDVKK_LGoeOTFbKr95YZxfd76qXm6wqIcIMxwEFVmVlHDdKmkJDG6R-NL78D5kjkpuw_z7mYRc49DSIK9FyRrCOr6NvyQI7uItsZL-biL1blxUqURduf/s1600/piazza.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqAWUXDsL2voKM0dVdcxCtiGXwEDVKK_LGoeOTFbKr95YZxfd76qXm6wqIcIMxwEFVmVlHDdKmkJDG6R-NL78D5kjkpuw_z7mYRc49DSIK9FyRrCOr6NvyQI7uItsZL-biL1blxUqURduf/s400/piazza.jpg" width="400" /></a></div>
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Nel lungo articolo “Galatina è ancora città? ” [<a href="http://pietrocongedo.blogspot.it/2014/07/galatina-e-ancora-citta.html" target="_blank">vedi post del <span id="goog_763646082"></span>07/07/2014<span id="goog_763646083"></span> in questo blog</a>], ricordai che Galatina aveva ottenuto il titolo di Città già 1792 dal Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, ma che divenne effettivamente URBS con l’acquisizione dei necessari requisiti, la quale fu resa possibile dalla buona amministrazione dei nostri antenati, particolarmente tra il secolo XIX e la prima metà del XX.<br />
<br />
Il primo di tali requisiti fu lo sviluppo agricolo-industriale, in virtù del quale:<br />
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<li>divenne notevole la produzione di vino, ottenuta con la lavorazione di grandi quantità di uve locali in numerosi palmenti sparsi nell’abitato, in tanti stabilimenti vinicoli sorti in prossimità della stazione ferroviaria (attiva dal 1881) nonché nella Cantina Sociale Cooperativa, sorta intorno al 1950 in viale Ionio; </li>
<li>era frequente l’esportazione mediante vagoni-cisterna sia dello stesso vino che dell’alcool prodotto dalla S.I.S (Società Italiana Spiriti), la quale aveva acquistato e trasformato in distilleria l’imponente stabilimento vinicolo della S. A. F.lli Folonari, che allora era il più grande d’Europa;</li>
<li>fra le due guerre, ogni primavera, si esportavano in Germania carri ferroviari carichi di “patate sieglinde” (dette appunto “di Galatina”), prodotte in grande quantità anche nei paesi del circondario.</li>
</ul>
A questo bisogna aggiungere che a Noha, dopo la prima guerra mondiale, per iniziativa di Giuseppe Galluccio, era sorta la S.A.L.P.A. (Società Anonima Lavorazione Prodotti Agricoli) che, oltre al vino, produceva marmellate e, in un certo periodo, anche il “brandy Galluccio”.<br />
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<br />
<br />
Accanto alle industrie alimentari in passato furono fiorenti a Galatina la concia delle pelli e la lavorazione dei tabacchi orientali. Della prima nel 1855 si contavano 25 botteghe artigiane per un totale di 182 conciatori, mentre a metà del secolo scorso lo stabilimento conciario dei F.lli Marrocco era fra i più importanti della Puglia.<br />
<br />
Per la lavorazione dei i tabacchi grezzi esistevano 16 concessioni governative speciali (dette “fabbriche”), le quali annualmente arrivavano a lavorare fino a 50mila quintali di prodotto, impiegando operaie, dette tabacchine, per un totale di 350mila giornate lavorative.<br />
<br />
Purtroppo nulla di quanto sopra elencato viene più prodotto o lavorato a Galatina, dove ora è fiorente solo l’orticoltura, poiché i due stabilimenti vinicoli esistenti, “Valle dell’Asso” e “Santi Dimitri”, lavorano esclusivamente le uve prodotte direttamente dai rispettivi proprietari, peraltro appartenenti alla stessa famiglia.<br />
<br />
In passato Galatina è stata sede degli Uffici del Registro e delle Imposte Dirette; ma alla loro soppressione, avvenuta alcuni decenni fa, non è seguita l’istituzione di un ufficio dell’ Agenzia delle Entrate.<br />
Il Tribunale e l’Ufficio del Giudice di Pace sono stati soppressi dal D. Lgs. 155/2012. Quindi i galatinesi, mentre per i disbrigo delle pratiche fiscali possono recarsi a Maglie o a Lecce, devono recarsi necessariamente a Lecce per ogni problema di carattere giudiziario, grande o piccolo che sia.<br />
<br />
Nel 2° dopoguerra Galatina esprimeva due padri costituenti, gli on.li Beniamino De Maria e Luigi Vallone (eletti deputati anche in successive legislature) nonché il senatore Mario Finizzi. Tutti e tre sono stati anche Sindaci e, solo come tali, sono stati “onorati” dagli Amministratori e dai Dirigenti comunali con l’intitolazione ad ognuno di essi di una delle tre strade della zona campestre Contrada Notaro Iaco.<br />
Ormai da decenni nessun galatinese siede in Parlamento e neppure nel Consiglio Provinciale o in quello Regionale. Quindi Galatina, che supera i 27mila abitanti, è oggi un ben fornito “serbatoio di voti” a disposizione di candidati non galatinesi. <br />
<br />
Del Quartiere fieristico, costruito per eventi commerciali in genere, ma soprattutto per la Fiera Campionaria di fine giugno (istituita come “Mostra Mercato” nel lontano 1949), c’è soltanto da dire che, mentre la stessa non viene più effettuata da alcuni anni, nel febbraio 2016 con sentenza del Tribunale Civile di Lecce è stato dichiarato fallito l’Ente Fiera di Galatina e del Salento.<br />
Fallimento questo già duramente deplorato lo scorso anno, quando esso era ancora nell’aria, da Tommaso Moscara in un editoriale, apparso sul quotidiano on line INONDAZIONI.it del 28 ottobre 2015, che si concludeva significativamente con la seguente amara constatazione: “Ormai è fin troppo chiaro, a Galatina non si risorgono i morti, ma muoiono i vivi.”<br />
<br />
A questo punto sarebbe interessante sapere dall’Assessore comunale alle attività produttive, Alberto Russi, se il progetto della “Nuova Campionaria” da lui pomposamente presentato nel convegno – concerto del 26 giugno 2015 è ancora valido o se va anch’esso inserito nell’elenco delle occasioni perdute da Galatina. <br />
<br />
Scrivendo a suo tempo il sopraccitato articolo, non ho fatto alcuna osservazione né sugli Istituti Scolastici né sull’Ospedale “S. Caterina Novella”, in quanto ritenevo che le loro condizioni non fossero preoccupanti.<br />
Invece relativamente ai primi la Fondazione Agnelli (che dal 2008 si occupa delle Scuole col suo progetto “Eduscopio.it / confronto scelgo studio”) nel 2015, riferendosi alle scuole secondarie superiori, da cui provengono gli studenti di Lecce e Provincia, che conseguono i migliori risultati all’università, ha appurato che per nessun tipo di scuola Galatina è al primo posto, poiché il Liceo Classico “P. Colonna” occupa il terzo posto, il Liceo Scientifico e Linguistico “A. Vallone” il quinto, l’Istituto Tecnico Commerciale “M. Laporta” l’ottavo, ossia il penultimo posto.<br />
<br />
Rimanendo in tema scolastico, corre l’obbligo segnalare la grave perdita di carattere occupazionale subita da Galatina per effetto della riforma Tremonti – Gelmini, la quale, riducendo a sole tre ore settimanali le ‘attività di laboratorio’, ha trasformato in Liceo Artistico l’antico e glorioso l’Istituto d’Arte “G. Toma”. Questo, infatti, fu fondato alla fine del XIX secolo, come “Scuola di arti e mestieri”, e da allora aveva sempre licenziato o diplomato lavoratori sia dipendenti che autonomi. Quindi a Galatina non si vedranno più sorgere, come prima di detta infausta riforma, laboratori di ebanisti, di arredatori, di orafi ecc. .<br />
<br />
La suddetta riduzione a tre ore settimanali delle ‘attività di laboratorio’ è stata imposta anche agli Istituti Professionali, quindi neppure da questi usciranno più diplomati in grado d’inserirsi subito dignitosamente nel mondo del lavoro. <br />
<br />
L’Ospedale di Galatina, fondato nel 1401 da Raimondo del Balzo Orsini, nel corso della sua plurisecolare esistenza ha conosciuto ombre e luci.<br />
Ombra molto scura è stata la sua totale inefficienza, durata oltre due secoli (1494 – 1706) e dovuta all’incuria dei monaci della Congregazione Olivetana. A questi, infatti, il nosocomio era stato concesso, insieme al ricco patrimonio cateriniano, dal re di Napoli Alfonso II d’Aragona, con l’obbligo dell’hospitalitas nei riguardi dei poveri e degli infermi. Invece detti religiosi ne utilizzarono le cospicue rendite per costruire la propria Abbazia con la monumentale Chiesa, ora detta di S. Biagio.<br />
<br />
Un’altra ombra, sia pure di minore durata, gravò dal 1939 al 1954 su detta Istituzione, quando da Ospedale di III categoria fu dal Prefetto di Lecce declassato ad Infermeria a causa dell’insipienza del podestà pro tempore.<br />
Attualmente un’ombra scura tende ad allungarsi definitivamente sull’Ospedale “S. Caterina Novella”, il quale, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, aveva conosciuto, grazie all’impegno del sottosegretario alla Sanità, on Beniamino De Maria, uno strepitoso sviluppo fino a divenire uno dei più importanti ospedali del Salento; ma ora per lo stesso si attende solo la formalizzazione del già deciso declassamento a “ospedale di base”, cioè al minimo grado esistente per i nosocomi italiani. <br />
<br />
Si dice e si scrive che Galatina sia ai primi posti per numero di malati di tumore, quindi al fine di mettere in guardia o rassicurare i cittadini sarebbero più che mai opportuni “il monitoraggio della qualità dell’aria e dell’acqua potabile e la pubblicazione dei dati certificati dell’agenzia incaricata” [V. Quindicinale “il galatino” : punto 9) del Cahier de doléances].<br />
<br />
Di questo passo la nostra Galatina rischia di finire nel sud del Sud d’Italia.<br />
Circa la possibilità odierna di risalire la china ci e solo consentito di sognare la presenza in Municipio di Amministratori e Dirigenti veramente decisi a “fare”, cioè assolutamente contrari al “quieta non movere”, i quali dovrebbero, per quanto riguarda la soluzione dei problemi locali, essere tanto solerti da convincere la Redazione del quindicinale “il galatino” a ridurre gradualmente il numero delle doléances fino all’esaurimento del relativo cahier.<br />
<br />
Tuttavia questo sogno in futuro potrà, almeno in parte, divenire realtà se noi galatinesi del XXI secolo sapremo farci rappresentare a tutti i livelli della pubblica amministrazione da concittadini onesti, capaci e volenterosi, come fecero i nostri antenati.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-86189503033558419972016-04-22T17:46:00.002+02:002016-04-22T17:47:09.898+02:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Contrasti tra politici e militari alla fine del 1916: Soldati e Ufficiali nella guerra «cronica»<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgA4_7gM_b-iDouwwqeJ8_YzpRTFRo2HwnRUXUHux5tkX8npWzNqcaY_dqncm-U-ME-0cX8rZ7nEU8Klzx73CBap5njdFqI2vnWESZjKvLfrgfqvsT0EFyZmKutJ4PRr2Bfx4KMdZFHP9vv/s1600/299.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgA4_7gM_b-iDouwwqeJ8_YzpRTFRo2HwnRUXUHux5tkX8npWzNqcaY_dqncm-U-ME-0cX8rZ7nEU8Klzx73CBap5njdFqI2vnWESZjKvLfrgfqvsT0EFyZmKutJ4PRr2Bfx4KMdZFHP9vv/s400/299.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Reparti schierati per assistere ad una fucilazione</td></tr>
</tbody></table>
Del Governo di Unità Nazionale, formato da Paolo Boselli nel giugno1916, faceva parte come ministro senza portafoglio, ma che ufficiosamente aveva l’incarico di creare un collegamento tra l’esecutivo e il Comando Supremo, Leonida Bissolati. Questi, avendo grande autorità e prestigio, avrebbe dovuto incarnare le speranze degli italiani, in quanto coerente con le sue idee di acceso interventista: allo scoppio della guerra si era arruolato volontario a 54 anni e, partecipando eroicamente ai combattimenti sul Monte Nero (1915) e sull’Altopiano di Asiago (1916), aveva meritato due medaglie d’argento.<br />
<br />
Dopo la nomina a ministro Bissolati fece ritorno in zona di guerra per parlare col Re, con Cadorna e con Porro della necessità di promuovere un’inchiesta sugli avvenimenti relativi alla strafexpedition. Questo suo intervento suscitò la diffidenza generale e soprattutto urtò la suscettibilità del Comandante Supremo, il quale con una lettera del 7 agosto comunicò seccamente al presidente del Consiglio che egli non riconosceva a Bissolati la funzione d’intermediario e che le relazioni tra il Governo e lo Stato Maggiore dell’Esercito dovevano esser tenute solamente dal ministro della Guerra.<br />
<br />
Boselli, da quel debole che era, rispose dichiarandone il proprio totale ed incondizionato accordo.<br />
Cadorna inviò, quindi, ai comandi dell’Esercito un ordine col quale vietava a qualunque ministro di entrare in zona di guerra senza il suo preventivo assenso. Egli, peraltro, temeva che Bissolati volesse “silurarlo” e sostituirlo col generale Luigi Capello.<br />
<br />
Pertanto quando, in seguito alla conquista di Gorizia (9 agosto 1916), la stampa esaltava Capello, comandante del VI Corpo d’armata, considerandolo artefice della vittoria, il Comandante supremo vide nella campagna giornalistica una precisa orchestrazione contro di lui. Inoltre trapelò la notizia che tra Capello e Bissolati ci fossero “legami settari” (massonici). Perciò Cadorna ai primi di settembre tolse a Capello il comando del VI Corpo d’armata, nell’intento di punire tanto Capello quanto Bissolati.<br />
<br />
Col passar dei giorni l’ira del Comandante Supremo crebbe ancor più, poiché Bissolati si trovò coinvolto in uno scandalo involontariamente provocato dal comandante del Servizio Aeronautico Italiano, il colonnello Giulio Douhet. Questi infatti, verso la fine di agosto, aveva redatto un memoriale anticadorniano, che cercò di far pervenire ai ministri Bissolati e Sonnino tramite l’on. Gaetano Mosca. Ma a quest’ultimo fu sottratto in treno il compromettente plico che giunse proprio nelle mani di Cadorna. Douhet fu quindi denunciato al tribunale militare che lo condannò ad un anno di reclusione. Durante il processo l’accusa, secondo Bissolati, non era riuscita a provare l’esistenza di alcuna “congiura” contro il Comandante Supremo. Tuttavia la tensione salì alle stelle, perciò il presidente del Consiglio Boselli si recò personalmente in zona di guerra, recando con sé una lettera, che Bissolati mandava a Cadorna per significare di non aver mai voluto creare imbarazzi, ordire insidie o fomentare l’indisciplina contro il Comando Supremo.<br />
<br />
Lo stesso Boselli, facendo appello al patriottismo, disse che, se Bissolati non fosse stato ricevuto in detto Comando, tutto il Governo avrebbe dovuto dimettersi. <br />
<br />
Il Comandante Supremo dapprima ribadì il suo rifiuto, ma dopo 15 giorni, grazie anche all’intervento del Re, acconsentì a ricevere il ministro Bissolati, anche se in realtà continuò a porre limiti severissimi alle attività dello stesso in zona di guerra.<br />
<br />
Tuttavia in seguito i rapporti tra Cadorna e Bissolati divennero quasi amichevoli. <br />
Il miglioramento, iniziato con i ringraziamenti del primo al secondo per le prudenti ed accondiscendenti dichiarazioni fatte alla Camera in merito al caso Douhet, fu consolidato da una sostanziale coincidenza di opinioni su vari problemi della guerra. C’è stato, però, chi non a torto ha sostenuto che il segreto della rappacificazione fra i due fosse la sottomissione di Bissolati a Cadorna. Quest’ultimo, quindi, aveva ancora una volta dimostrato di possedere un’energia ben diversa da quella della maggioranza dei politici del suo tempo.<br />
<br />
L’Esercito italiano si oppose validamente alla strafexspedition austro-ungarica e, nel corso dei combattimenti avvenuti tra maggio e giugno 1916, perdette circa 113mila uomini tra morti e feriti. Tuttavia lo stato d’animo delle truppe non era stato uniforme sull’intero fronte. Infatti, mentre le ali dello schieramento si erano mantenute abbastanza salde, al centro le truppe avevano mollato. Perciò un generale uccise 8 soldati che fuggivano e ordinò di fucilare chiunque avesse mollato.<br />
<br />
Il 21 maggio, quando ci fu lo sfondamento delle linee italiane, Cadorna, avendo constatato che alcuni reparti avevano abbandonato posizioni di capitale importanza senza nemmeno cercare di difenderle, affermò in presenza dei piantoni che bisognava fucilare “senza processo” e che egli se ne assumeva la responsabilità. Un esplicito ordine in tal senso venne poi impartito il giorno 26 con lettera del Comando Supremo, stampata e distribuita a tutti i comandi.<br />
<br />
Solo due giorni dopo, cioè il 28 maggio, un sottotenente, tre sergenti e otto soldati del 141° reggimento di fanteria messo in fuga dagli austriaci, furono fucilati per ordine del colonnello comandante, che ricevette un solenne encomio da Cadorna.<br />
<br />
Questo fu il primo caso di decimazione avvenuto nel Regio Esercito italiano.<br />
<br />
Il seguente 11 giugno fu destituito il comandante del XIV Corpo d’Armata per non aver adottato mezzi subitanei di repressione nei riguardi di reparti “andati a rifascio in brevissimo tempo senza combattere”, dei quali aveva però deferito alcuni ufficiali alla corte marziale. Fu quindi ribadito l’ordine di fucilare sul posto sia i soldati che gli ufficiali, poiché si sapeva che i tribunali erano restii ad emettere condanne a morte. <br />
<br />
Ai primi di luglio l’89° reggimento della brigata Salerno, dopo 10 mesi trascorsi in uno dei più disagiati settori del fronte, era stato trasferito in un settore più tranquillo per un periodo di “riposo”, ma fu sorpreso dalla strafexpedition e dovette combattere. In seguito parecchi soldati, in parte feriti, erano in una località, da cui non potevano rientrare nelle linee italiane, perché sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Dopo essere stati isolati e senza soccorsi per due giorni e due notti nella zona fra le opposte trincee, cioè nella terra di nessuno, tentavano di arrendersi al nemico. Perciò i comandi superiori ritennero opportuno ordinare alle artiglierie di far fuoco su di essi. Due giorni dopo il comando del corpo d’armata ordinò la decimazione tra i militari dell’89°, che comportò la fucilazione di otto militari. Nondimeno Cadorna si dichiarò convinto che la giustizia non avesse colpito ciecamente.<br />
<br />
D’altronde il generalissimo considerava gli uomini irreggimentati nell’esercito da lui comandato “un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi, che un comandante non aveva il tempo di rieducare”. Tuttavia i suoi giudizi negativi coinvolgevano anche gli ufficiali, i quali avrebbero dovuto essere i naturali educatori di quelle masse. Infatti all’inizio della guerra, mentre considerava la mancanza di almeno 13.500 unità, riferendosi ai 15mila ufficiali effettivi esistenti, affermava che questi erano “abbastanza buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi, ed in alto – insieme a parecchi buoni ed ottimi – altri non pochi insufficienti”.<br />
Non poteva certo essere migliore il giudizio del Comandante Supremo nei riguardi dei tanti mobilitati che erano ufficiali di complemento. <br />
<br />
Per ovviare alla grave carenza di ufficiali fu necessario istituirne a ritmo serrato corsi di addestramento, che normalmente duravano tre mesi, ai quali erano ammessi i mobilitati che fossero in possesso della licenza di scuola secondaria superiore. Quindi i frequentanti dei corsi erano uomini anche laureati, ma soprattutto giovani, talvolta non ancora ventenni. Vennero anche istituiti i cosiddetti “corsi di corsa”, con i quali l’allievo otteneva la nomina a sottotenente in 60 (sessanta) giorni, e precisamente 40 a Modena e 20 alla Porretta, seguiti da una breve licenza; subito dopo il neo-ufficiale veniva mandato a comandare un reparto di linea. <br />
Dall’agosto del 1914 al novembre 1918 furono molto rapidamente addestrati più di 160mila nuovi ufficiali.<br />
<br />
Scrisse il gen. Luigi Capello: “E’ evidente che l’improvvisazione di una così gran massa dovesse andare a scapito della qualità”.<br />
<br />
Disse Adolfo Omodeo che il più grave problema, per il giovane ufficiale di provenienza borghese, era quasi sempre costituito dal rapporto con il soldato proletario, spesso analfabeta, spesso più anziano e più maturo del suo tenente.<br />
Senza mezzi termini Emilio De Bono spiegò come fosse facile che i neo ufficiali si trovassero in un primo tempo alla mercé dei loro subordinati.<br />
“Siamo in mano alle criature”(cioè ai bambini) disse un fante al suo generale. <br />
<br />
Durante e dopo la guerra gli ufficiali di complemento criticavano duramente di “carrierismo” i loro colleghi effettivi, arrivando addirittura a sostenere che spesso avessero ordinato ai reparti azioni inutili, ma dispendiose in vite umane, al fine di conseguire un avanzamento di grado. Inoltre i primi rivolgevano ai secondi anche l’accusa di “imboscati”, sostenendo che, grazie alla complicità dei superiori, gli ufficiali permanenti riuscissero ad ottenere posti più sicuri nel Paese ed al fronte. Quest’ultimo genere di accusa ha trovato conferma i varie testimonianze scritte, tra cui quella di Cesare Battisti, contenuta in una lettera alla moglie del 5 settembre ’15.<br />
<br />
La conquista di Gorizia, avvenuta l’8 agosto 1916, pur non avendo un grande valore strategico, rianimò un poco sia l’opinione pubblica che lo spirito dei combattenti, ma tutti si avvidero rapidamente che la guerra quotidiana continuava nelle forme ormai consuete.<br />
Intanto nel luglio 1916 gli uomini alle armi erano diventati 2.350.000, mentre un anno prima erano un milione e mezzo.<br />
<br />
Nel settembre successivo ebbe inizio l’impiego di un nuovo tipo di artiglieria da trincea, “la bombarda”, il cui tiro – si disse – avrebbe certamente distrutto i reticolati nemici, ma la nebbia e l’umidità autunnali impedirono quasi sempre il raggiungimento di tale risultato.<br />
<br />
Tuttavia Cadorna tra ottobre e novembre ordinò due brevi offensive, ma tanto costose in vite umane che alcuni reggimenti della III Armata si erano ribellati, subendo perciò la decimazione. Quando finalmente il generalissimo ordinò la sospensione dei combattimenti fino alla primavera del 1917, il bilancio dell’anno 1916 si rivelò doloroso: 404.500 morti e feriti, contro i 246.500 del 1915.<br />
Come il numero delle perdite anche l’indice di autolesionismo aumentò notevolmente nel secondo anno di guerra. Infatti nel 1916 ci furono 4.133 condanne per mutilazioni volontarie o per lesioni e infermità procurate al fine di evitare il servizio militare, mentre le stesse nel 1915 erano state 1.403 . Tuttavia gli autolesionisti cominciarono a diminuire alla fine del 1916: essi fino ad allora, stando in carcere se condannati, rimanevano lontani dal fronte, invece un decreto luogotenenziale dell’ottobre stabilì che anche se condannati alla reclusione dovessero essere inviati in linea.<br />
<br />
Alla vigilia del secondo inverno di guerra molti ufficiali avvertivano l’urgente necessità di risollevare in qualche modo lo spirito delle truppe. In particolare un generale dichiarò che ai soldati avrebbe fatto più bene un’ora di divertimento, che cento grammi di pane in più.<br />
<br />
Invece, la razione di pane fu ridotta da 750 a 600 grammi, e il 19 novembre Cadorna emanò una circolare, con la quale imponeva ad ufficiali e soldati di comportarsi in pubblico “in modo conforme alle esigenze dello stato di guerra” e, quindi, evitando distrazioni e divertimenti.<br />
Una distrazione consentita era quella della lettura e le Case del Soldato erano abbastanza fornite di libri.<br />
<br />
Fino al 1916 la propaganda “sovversiva e disfattista” non aveva ancora suscitato gli allarmi del Comando Supremo, il quale solo il 18 giugno di quell’anno emanò una circolare contro la diffusione di pubblicazioni antimilitariste.<br />
Invece, relativamente alla propaganda pacifista, nell’agosto del 1916 una circolare del Ministero della Guerra vietava di far giungere alle truppe opuscoli o manifesti “tendenti a deprimerne il morale ed a fare opera contraria alle istituzioni ed alle aspirazioni nazionali”.<br />
Grande importanza ebbe poi la circolare inviata il 4 novembre dal Ministro degli Interni, V. E. Orlando, ai Prefetti per segnalare la minaccia della propaganda che elementi “rivoluzionari” avrebbero potuto svolgere presso i soldati che giungevano in licenza invernale. Si cominciava, dunque, a temere che influenze negative del Paese potessero turbare lo stato d’animo delle truppe.<br />
In particolare si temeva che il Partito Socialista potesse cavalcare la grande preoccupazione generale dovuta al prolungarsi indefinito della guerra e, quindi, imporre la pace e far precipitare l’Italia nel caos e nella sconfitta.<br />
<br />
Tuttavia il ministro Orlando ostentava tranquillità e si rifiutava di adottare misure di carattere straordinario nei riguardi dei socialisti, spiegando in privato che Turati e Treves, capi del partito, stavano impedendo e frenando gli eccessi dei loro compagni più intransigenti, e che non avrebbero potuto continuare la loro attività moderatrice se il partito venisse colpito da provvedimenti eccezionali.<br />
<br />
Invece era seriamente preoccupato per l’atteggiamento dei socialisti (che in Parlamento avevano anche presentato una mozione per chiedere la pace senza annessioni) il ministro Bissolati, al quale stesso Orlando, avendolo incontrato il 31 dicembre, precisò di avere pronti i decreti per proclamare, se necessario, lo stato d’assedio. <br />
<br />
In effetti, però, neppure la frazione estremista del Partito socialista era disposta ad assumersi fino in fondo la responsabilità di una disfatta.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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<br /></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-856913876052574812016-04-19T11:26:00.001+02:002016-04-19T11:26:09.445+02:00L’Università Castrense di San Giorgio di Nogaro (UD)<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipugqsWuXvFfx7XrFm8kXrYLDXKzXww3apprbhoxu_QZ86E0hd6fj4E7ZBMauV3t5ieS27LCMJnkbiHLn5d7Ocir9b2HXhTU5AbrAudKeN66Q9z7AvfVVX0P0RRFSjFQpXzZLm220BhVYE/s1600/Elena_duchessa_aosta.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipugqsWuXvFfx7XrFm8kXrYLDXKzXww3apprbhoxu_QZ86E0hd6fj4E7ZBMauV3t5ieS27LCMJnkbiHLn5d7Ocir9b2HXhTU5AbrAudKeN66Q9z7AvfVVX0P0RRFSjFQpXzZLm220BhVYE/s400/Elena_duchessa_aosta.jpg" width="300" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="background-color: #f9f9f9; color: #252525; font-family: sans-serif; font-size: 12.3704px; line-height: 17.3186px; text-align: left;">Elena d'Orléans in divisa di volontaria della Croce Rossa</span></td></tr>
</tbody></table>
<br />
<br />
Alla fine del 1915, di fronte alle drammatiche conseguenze dovute alla carenza di medici per l’Assistenza Sanitaria Militare, sia il Comando Supremo dell’Esercito che le alte sfere medico-militari e politiche del Regno d’Italia ritennero che si dovesse provvedere con la massima sollecitudine al reclutamento di giovani Ufficiali Medici. Pertanto il Comando Supremo avanzò la proposta d’istituire una vera e propria “Scuola Medica da Campo”, giuridicamente riconosciuta, a ridosso del fronte isontino. Proposta questa che aprì nel Paese un duro contenzioso giuridico tra coloro che in Parlamento difendevano le prerogative delle Regie Università e lo stesso Comando Supremo, il quale riteneva fra l’altro che si dovesse sfruttare il periodo invernale di calma operativa per potenziare l’apparato sanitario militare. Ma il relativo dibattito parlamentare, iniziato nella seconda metà del dicembre 1915, si sarebbe potuto concludere addirittura nel marzo 1916, poiché solo allora il Parlamento, chiuso per le festività natalizie, avrebbe ripreso i suoi lavori.<br />
Perciò il Governo, a Camere chiuse, emanò il Decreto Luogotenenziale n°38 del 9 gennaio 1916, con cui venne appunto istituita la “Scuola Medica da Campo” detta anche “Università Castrense”, nella quale durante il biennio 1916 – 1917 si sarebbero svolti corsi accelerati di medicina e chirurgia per i militari-studenti aspiranti medici.<br />
<br />
Si riteneva opportuno collocare detta istituzione tra le retrovie della III Armata (comandata da Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta), Corpo molto impegnato nel conflitto e che più degli altri aveva avvertito la carenza di assistenza sanitaria.<br />
Grazie all'interessamento di Elena d’Orléans, moglie del Duca d’Aosta, il Comando Supremo scelse San Giorgio di Nogaro, paese centrale tra le retrovie carsiche e le grandi arterie di comunicazione, la cui Amministrazione Comunale mise a disposizione il palazzo del Municipio.<br />
Nell’arco di 15 giorni vennero costruite dal Genio Militare due spaziose baracche in legno, che servivano da aule, e fu anche effettuata la ristrutturazione di un cascinale, che avrebbe ospitato la scuola per malattie speciali.<br />
<br />
A presiedere l’Università fu chiamato il tenente colonnello Giuseppe Tusini, che da civile era docente ordinario di chirurgia nella R. Università di Modena, mentre il tenente colonnello Annibale Orani venne nominato ‘segretario amministrativo di facoltà’ (funzione questa da lui esercitata nella vita civile presso l’Università di Torino) al fine di garantire la corretta applicazione delle norme vigenti per la facoltà di medicina e chirurgia.<br />
<br />
Gli effetti amministrativi e disciplinari furono sottoposti alla giurisdizione del Comando Supremo e la Direzione trovò alloggio nel sopraccitato palazzo municipale. [V. A.A. V.V. Studenti al fronte, Libreria Ed. Goriziana, GORIZIA, 2010, p.p. 83-87].<br />
<br />
Il 26 gennaio 1916 venne pubblicato il Decreto che istituiva i Corsi di medicina e chirurgia per gli studenti di 5° e 6° anno che si trovavano sotto le armi.<br />
<br />
Nell’elenco riportato qui di seguito sono indicati i professori dei Corsi, scelti fra i docenti universitari ordinari o libero docenti che prestavano servizio militare come ufficiali medici nella III Armata, i quali sarebbero stati coadiuvati nel loro insegnamento da egregi medici, anch'essi in servizio nella Sanità Militare e che da civili erano stati aiuti o assistenti in Università del Regno.<br />
Prof. Giuseppe Tusini per chirurgia generale e medicina operatoria;<br />
<br />
<ul>
<li>Maurizio Ascoli per medicina generale;</li>
<li>Angelo Signorelli e Giuseppe Lucibelli per semeiotica medica;</li>
<li>Michelangelo Savarè per ostetricia e ginecologia;</li>
<li>Gaetano Samperi per clinica oftalmica;</li>
<li>Ferdinando De Napoli per dermosifilopatia;</li>
<li>Ottorino Rossi per malattie nervose e mentali;</li>
<li>Antonio Dionisi per anatomia patologica;</li>
<li>Attilio Cevidalli per medicina legale;</li>
<li>Battista Allaria per pediatria;</li>
<li>Salvatore Citelli per otorinolaringoiatria;</li>
<li>Amedeo Perna per stomatologia;</li>
<li>Carlo Gazzetti per farmacologia;</li>
<li>Gino Galeotti e Vittorio Scaffidi per patologia generale;</li>
<li>Giunio Salvi per anatomia descrittiva e topografica;</li>
<li>Leonardo Dominici per patologia speciale e chirurgica:</li>
<li>Francesco Feliziani per patologia medica;</li>
<li>Giuseppe Buglia per fisiologia.</li>
</ul>
<br />
Gli studenti che iniziarono a frequentare regolarmente le lezioni il 14 febbraio 1916 erano 366, di cui 356 di 5° anno e 10 di 6°, mentre i malati utilizzati per le lezioni e gli esercizi sarebbero stati fino al 1917 ben 5.977. Il professore di anatomia patologica, Antonio Dionisi, fece 245 autopsie davanti agli studenti.<br />
<br />
La suddetta Duchessa Elena d’Aosta, in qualità di Ispettrice delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana abitava stabilmente in una villa di San Giorgio di Nogaro e spesso frequentava assieme agli studenti le lezioni della “Scuola Medica da Campo”, della quale scuola era in un certo senso “la madrina”(*).<br />
<br />
I suddetti studenti giunti a metà corso ottennero una licenza dal 15 al 26 aprile per sostenere gli esami arretrati, giacché dei 366 solo 103 erano in pari con gli esami. Usufruirono della licenza 221 studenti, i quali sostennero 809 esami su materie delle quali avevano già seguito i corsi nelle proprie Università e per la maggior parte riportarono votazioni molto superiori alla semplice approvazione, mentre i respinti furono soltanto 10. Fu anche possibile rilevare che i migliori risultati li ottennero coloro che per le materie di esame avevano seguito l’insegnamento complementare effettuato in San Giorgio di Nogaro.<br />
<br />
Le lezioni tenute dal 14 febbraio al 24 maggio furono complessivamente 580, delle quali: 512 sulle materie dell’ultimo biennio e 68 sulle materie arretrate.<br />
Purtroppo il 24 maggio 1916 lezioni vennero sospese, perché da circa 10 giorni era in atto l’offensiva austro-germanica detta strafexpedition (spedizione punitiva) sull’Altopiano di Asiago e la maggior parte delle truppe schierate sull’Isonzo venivano trasferite a sostegno del nuovo fronte. Questa brusca interruzione dei corsi turbò la soddisfazione dei professori per l’insegnamento impartito e il numero di esami arretrati sostenuto dagli studenti.<br />
<br />
Per tutta l’estate non ci furono lezioni nell’Università Castrense.<br />
<br />
Ma già alla fine del settembre 1916 il Comando Supremo si dimostrò favorevole alla riapertura dei Corsi in San Giorgio di Nogaro per gli studenti del 5° e 6° di anno di medicina, vincolati al servizio militare. Infatti ritenne opportuno inviare al Ministero della P.I. una relazione sui servizi resi all’Esercito durante la campagna estiva dagli studenti che ne avevano frequentato le lezioni dal 14 febbraio al 24 maggio 1916, relazione questa che si concludeva con l’auspicio di una riorganizzazione degli stessi Corsi.<br />
<br />
Il 4 ottobre l’on Angelo Roth, sottosegretario alla P.I., visitando la sede dell’Università Castrense, si convinse dell’opportunità di riprendere le lezioni.<br />
<br />
Il successivo 6 novembre il Comando Supremo stabilì che entro il 12 dicembre venissero inviati a S. Giorgio di Nogaro gli studenti di medicina vincolati al servizio militare in zona di guerra e che per l’anno scolastico 1916-17 fossero iscritti al 5° o 6° anno di studio.<br />
<br />
Fu così che il 26 novembre venne emanato il Decreto Legislativo n. 1678 che stabiliva la riorganizzazione dei corsi in questione. <br />
<br />
Risultarono iscritti all’Università Castrense 832 studenti, e precisamente 200 al 5° e 632 al 6° anno. Di questi giunsero alla fine dei corsi 812 (191 del 5° e 621 del 6°). Dei restanti 20 uno si laureò nell’Università di provenienza, 10 rientrarono ai Corpi di appartenenza per non aver voluto rinunciare al grado di farmacista (in 4 casi) o a quello che avevano nell’arma combattente (6 casi); i restanti 9 vennero col tempo mandati in zona territoriale, perché dichiarati dall’autorità competente inabili ai servizi mobilitati.<br />
<br />
Terminate le lezioni, gli esami di laurea si tennero presso l’Università di Padova, dal 2 al 6 aprile 1917, davanti a cinque Commissioni esaminatrici, in ciascuna delle quali i docenti della Scuola di San Giorgio erano 3 su 11.<br />
Dei 621 iscritti al 6° anno si presentarono all’esame di laurea soltanto 467 e di questi 12 sostennero l’esame su tesi scritta, mentre gli altri 455, avvalendosi della facoltà concessa dal comma ferzo dell’art. 7 del D.L. n. 1678/26.11.1916, discussero ciascuno il tema scelto tra i due che a cura della Direzione della Scuola si erano fatti estrarre a sorte 10 giorni prima dell’esame di laurea, fra i 330 scelti ed inviati dal prof. Luigi Lucatello, preside della Facoltà di Medicina di Padova, tra quelli proposti dai professori di Padova e di San Giorgio.<br />
<br />
I risultati degli esami di laurea superarono ogni aspettativa, in quanto ci furono:<br />
n. 28 laureati con pieni voti e lode, n. 69 con pieni voti assoluti, n. 146 con pieni voti legali, n. 219 con voti da 98 a 77/110 e n. 5 con voti inferiori a 77/110.<br />
<br />
L’elenco completo dei suddetti laureati è riportato nel volume “A.A. V.V. STUDENTI AL FRONTE, Libreria Editrice Goriziana, GORIZIA, 2010 p.p. 169 – 173”.<br />
<br />
Tutti i 467 laureati furono proposti per la nomina a Sottotenente medico di complemento e mandati alle proprie case per una breve licenza. Allo spirare di questa vennero posti a disposizione dell’Intendenza Generale dell’Esercito per essere inviati ai Corpi mobilitati. <br />
<br />
Questi giovani medici, nel corso del 1917, in estate vennero falcidiati nelle battaglie dell’Ermada, dell’Ortigara, della Bainzizza ecc., e alla fine di ottobre furono coinvolti nella ritirata di Caporetto, nel corso della quale il Comune di San Giorgio di Nogaro rimase quasi completamente spopolato, poiché gli abitanti fuggirono in altre parti del Regno, mentre danni gravissimi subirono quasi tutti gli edifici, a causa degli incendi dei saccheggi e soprattutto per lo scoppio dei depositi di munizioni, avvenuto alle ore 19,30 del 30 ottobre.<br />
<br />
Il 13 novembre 1917 il Sottocapo di Stato di Stato Maggiore dell’Esercito, Carlo Porro, d’intesa con il ministro della Guerra, Gaetano Giardino, rese nota la convenzione con il Ministero della P.I. di rinunciare definitivamente ai Corsi accelerati di medicina e chirurgia.<br />
<br />
La “Università Castrense” ebbe così il suo epilogo.<br />
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<br /></div>
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<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-size: x-small;">(* )La Duchessa Elena d’Aosta nel corso della Grande
Guerra ricevette una medaglia d’argento, tre croci al merito e il suo operato
ispirò al poeta Gabriele d’Annunzio la “ <i>Canzone
di Elena di Francia</i>”<o:p></o:p></span></div>
</div>
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<br /></div>
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<b>Pietro Congedo</b></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-57259704443980282922016-04-08T10:29:00.000+02:002016-04-08T10:30:04.973+02:00Notazioni sull’assistenza sanitaria alle truppe italiane durante i primi sei mesi della Grande Guerra<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmKOD_nS976gIw2roooHKtaU2xRxBIRvIlXH8di0QwyvQtcn6dLNuLQL62Fm-Aoz1oZUFJmY2O8r-TMYxYomuzOkVt_hzH68V3590YORnLG9nKMzhEUOVTQN5SFlGEDELR3rWWimxqxNQQ/s1600/Aula-Magna-Universita-Castrense.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="285" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmKOD_nS976gIw2roooHKtaU2xRxBIRvIlXH8di0QwyvQtcn6dLNuLQL62Fm-Aoz1oZUFJmY2O8r-TMYxYomuzOkVt_hzH68V3590YORnLG9nKMzhEUOVTQN5SFlGEDELR3rWWimxqxNQQ/s400/Aula-Magna-Universita-Castrense.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Aula Magna dell'Università Castrense di San Giorgio di Nogaro</td></tr>
</tbody></table>
<br />
All’alba del 24 maggio 1915 ai 400mila soldati della II e III armata fu ordinato di balzare in avanti. Avanzando nel buio, le truppe a nord raggiunsero le pendici del sistema montuoso Mrzli-Sleme-Vodil, al centro si fermarono alle pendici del massiccio del Sabotino, mentre a sud avanzarono senza grandi difficoltà fino alla prima settimana di giugno, quando passarono l’Isonzo a Pieris e poi a Gradisca. Prima dell’offensiva generale, che inizierà il 23 giugno, la guerra purtroppo mostrò il suo truce volto a danno di quei reparti che vennero scagliati alla conquista delle dorsali dei suddetti monti e delle isole sabbiose nei pressi di Gradisca.<br />
<br />
Nel diario(*) del dott. Primo Dondero, ufficiale medico sul fronte del monte Sabotino, si legge: “… Alle 20 ( del 27 maggio) il gen. Vespigni mi fa chiamare; deve scendere nella valle che conduce al Sabotino e vuole che lo accompagni… . Lungo la mulattiera incontriamo feriti portati in barella o sorretti da portaferiti. Le notizie sono gravi: abbiamo molti morti, gli austriaci sono ben riparati, in trincee di cemento armato…”.<br />
Mentre i militari trovavano sbarramenti micidiali, i medici dovevano curare ferite sconosciute per la prassi chirurgica civile.<br />
<br />
Scrive, infatti, Dondero: “La sezione di Sanità alloggiata nel castello dei Comar … sta allacciando vasi a un caporale a cui una granata ha asportato gli arti inferiori; una cantina del castello è stata trasformata in sala di operazioni. … I due chirurghi sono instancabili, non so quando riposino, continuano ad arrivare feriti, portano gravi notizie. …”[V. Studenti al fronte, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone, 2010, p. 28].<br />
<br />
Il 4 giugno il posto di medicazione del dott. Dondero, mentre veniva spostato verso le prime linee, in una osteria abbandonata, venne investito verso le ore 10 da una grandine di shrapnels e granate, a cui risposero con rabbia le nostre batterie. Questa fu un’occasione per rendersi conto di quanto fosse difficile la gestione logistica delle strutture sanitarie campali sotto un furioso duello di artiglieria.<br />
Annota Dondero: “…Gemono i feriti, chiedono soccorso… . Tutti gli altri posti di medicazione sono affollatissimi: le ambulanze continuano a sgombrare verso Quisca e anche su di esse sparano gli austriaci. Alle 18 cessa il tiro nemico e così m’è dato sgombrare dai feriti le sale del castello. …”[Ibidem, p.29]<br />
<br />
Dal 23 giugno al 7 luglio ebbe luogo la prima battaglia dell’Isonzo, durante la quale i fanti italiani, andando all’attacco quasi sempre spalla a spalla, serrati l’uno all’altro, venivano investiti e falcidiati dal micidiale fuoco di sbarramento degli austriaci.<br />
<br />
Perciò i risultati conseguiti furono minimi nonostante la perdita di 13.411 uomini (1.916 morti + 11.495 feriti), che rappresentavano il 6% del totale delle forze impiegate sull’intero fronte.<br />
Le strutture sanitarie, sebbene fossero state organizzate per garantire la spedalizzazione immediata del 20% dei componenti di una unità, di fronte ad un numero superiore di feriti, iniziarono a collassare. Ciò avveniva perché le perdite riguardavano quasi esclusivamente i reparti che avevano preso parte alle prime ondate dell’offensiva, gli organici dei quali andarono distrutti dal 50% al 70%.<br />
<br />
Il 24 giugno il dott. Dondero scriveva nel suo diario: “… Poveri miei fanti! Vi ho lasciati da breve tempo … eravate così ragazzoni ingenui e pieni di baldanza … ora tornate da me, grondanti sangue, laceri, febbricitanti, barcollanti … supini sulle barelle, coperti, dalle occhiaie incavate nei visi pallidi e sparuti, come se una lunga tragedia, una lunga estenuante febbre vi avesse consumati … sospirate, scrutando nel vuoto un nome che è di persona lontana che prega per voi e non sa che la vita vi sfugge … . Mando tutti i portaferiti … alle 15 sul Sabotino. … E’ un ininterrotto arrivo di feriti, i più leggeri da soli, i più gravi sorretti, portati.”.<br />
<br />
Il 25 giugno così prosegue “… Prima dell’alba un battaglione del 34° è sceso da Podsabotino per occupare parte delle nostre trincee; due nostre compagnie sono di rincalzo. Alle 10 giungono i primi feriti del 34°; il Sabotino non dà tregua. Il tenente medico Capugi del 34° mi dà il cambio perché il maggiore ha detto che dobbiamo ripulirci e riposare almeno una notte. Là mi corico sulla mia coperta di lana stesa sul pavimento. …”.<br />
Ma dopo un paio d’ore al dott. Dondero fu ordinato dallo stesso maggiore di andare nelle trincee a raccogliere i feriti e i morti, poiché gli austriaci avevano alzato la bandiera della Croce Rossa [V. Ibidem p.p. 32, 33 e 34]. <br />
<br />
La seconda battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 18 luglio al 3 agosto 1915. Essa, nella descrizione fatta dagli austriaci, fu per le truppe italiane “un massacro senza precedenti. Un orribile bagno di sangue. Il sangue scorre ovunque, ed i morti e i corpi fatti a pezzi si trovano tutt'intorno”.<br />
In effetti ci fu l’annientamento di 41.846 uomini, in appena 15 giorni ed in un arco geografico non superiore ai 30 chilometri. “Passarono molti autocarri stracarichi di feriti: soldati di fanteria insanguinati e laceri; teste, braccia e gambe fasciate, un orrore!” raccontò chi c’era.<br />
I comandi, impreparati ad un simile costo umano, reagivano cercando di occultare al paese il reale dramma che stavano vivendo i nostri soldati. Nello stesso tempo ordinavano: “I posti di medicazione, durante il combattimento, non siano sistemati in mezzo alle truppe per evitare ai rincalzi, che attendono di portarsi in linea, un’impressione deprimente …”[V. Ibidem p.p. 35-36].<br />
<br />
Della terza battaglia dell’Isonzo (18 ottobre – 4 novembre 1915) un soldato della brigata del dott. Dondero così ha descritto l’offensiva a cui prese parte: “… Era il 21 ottobre 1915, alle dieci del mattino, il capitano ha tirato il sorteggio, quale dei quattro plotoni della compagnia doveva uscire per primo. … Adesso tocca a me, sono tutto agitato, mi preparo bene, salto fuori dalla trincea, vado avanti tra le pallottole, poi mi stendo dietro una piccola pietra. …Sono (disteso)… quando sento un colpo nella spalla e poi un altro nel piede … . Sento il sangue alla spalla destra e al piede, e resto tre ore sempre lì … . La gamba destra gonfia a vista d’occhio, continuo a perdere sangue. Arriva un portaferiti, gli chiedo di aiutarmi, mi risponde: ‘L’ordine è di portare giù solo i morti’. … Allora mi trascino giù rotolando lungo la montagna […]. E cado come morto proprio nel posto di medicazione. Un tenente medico ordina di medicami, mi bendano alla meglio, resto lì su una barella fino all’indomani. Poi con la barella mi portano a Plava, due chilometri più in basso. A Plava si concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Lì ci sono anche i pezzi dell’artiglieria e i nostri ci hanno messo sopra una croce rossa. Ma gli austriaci se ne accorgono, incominciano a bombardare, noi feriti saremmo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro. Nella notte ci portano verso San Floriano … . Poi arriviamo a Udine, nel campo contumaciale, dove saremmo cinquemila i feriti. In uno stanzone al primo piano sono sette o otto i medici che operano, c’è anche il dottor Lerda di Torino. C’è una finestra spalancata, e sotto nel cortile c’è un camion. I medici tagliano braccia e gambe, e le buttano dalla finestra, le buttano sul camion perché non puzzino … . [V. Ibidem p.p. 37 e 38].<br />
<br />
Il 4 novembre, dopo una serie di attacchi e contrattacchi … le operazioni offensive terminarono.<br />
Nella Terza Battaglia dell’Isonzo ci furono: 10.663 morti, 44.290 feriti e 11.985 dispersi: quasi tremila quindi erano i feriti che ogni giorno scendevano dalle prime linee. Il tenente Carlo Salsa, di fronte a quel carnaio, scrisse fra l’altro: “Il posto di sanità è installato in una casupola nascosta … . La fiumana dei feriti e dei malati s’infrange contro la porta angusta: sosta in silenzio rassegnato, inerte, sotto l’acquerugiola che infierisce; sfila a poco a poco, come filtrando fra gli spiragli di una chiusa, dinanzi alla spiccia ruvidità dei medici frettolosi. …[V. Ibidem p. 39]<br />
<br />
Il 10 novembre 1915 ebbe inizio la Quarta Battaglia dell’Isonzo, nel corso della quale in mezzo a un nubifragio, peggiorato dalla Bora che spazzava l’altipiano, i fanti della II e III armata si lanciavano all'assalto del Sabotino, del Podgora e del monte San Michele senza riuscire a conseguire i risultati sperati. Tra il monte San Michele e San Martino del Carso la brigata Sassari perdette 2.549 uomini, circa la metà del suo organico, prima di venir rispedita in retrovia, dove gli ospedali erano già oberati di feriti: “Si sentiva la povera gente che gridava, perché operavano senza indormia (senza anastesia). Tagliavano braccia, gambe, secondo la ferita che si aveva. Quelli che morivano venivano portati al cimitero su un carretto tirato da un cavallo o da un mulo. Il cimitero era pieno. I feriti erano molti e avevano un aspetto spaventoso. In alcuni si vedevano pendere le bende sanguinanti e pezzi di carne. Uno piangeva, l’altro gemeva, il terzo chiedeva aiuto. […]<br />
I feriti arrivano e partono in processione. Essi giacciono uno vicino all'altro nei corridoi, sulla paglia, e vengono portati in sala d’operazione a seconda delle ferite più o meno gravi. Alcuni muoiono sulla barella, altri sul tavolo d’operazione, i più fortunati nel loro letto. IL sangue scorre in terra, non si può passare senza insanguinarsi, l’odore del sangue è sempre nel naso” [ V. Ibidem p. 41]. <br />
Il 2 dicembre, al termine dell’offensiva durata 23 giorni, oltre 7.400 erano i soldati morti, quasi 40.000 i feriti, e 7.100 i dispersi.<br />
L’arrivo dell’inverno comportava la cessazione delle offensive generali.<br />
<br />
Le perdite subite dai reparti dell’Esercito, impiegati nelle prime quattro battaglie dell’Isonzo, erano state superiori alle possibilità assistenziali e chirurgiche che potevano essere garantite dalle strutture ospedaliere campali. Infatti, mentre tra maggio e novembre 1915 le divisioni della III armata operanti in linea sul Carso avevano avuto un numero di feriti pari al 44% del numero delle forze disponibili (cioè 173mila su un organico di 352mila), alla Sezione Sanità erano state fornite risorse (umane e mediche) sufficienti per un numero di feriti corrispondente al 25% delle stesse forze. Inoltre nell’inverno del 1915 esplosero gravissime infezioni di tifo e di colera, a causa delle quali su circa 21mila contagiati ci furono 4.229 morti.<br />
Pertanto il Servizio Sanitario Militare e della C.R.I. aveva l’impellente necessità di avere aumentate le proprie risorse umane.<br />
<br />
La mancanza di un congruo numero di medici nei posti di soccorso e negli ospedali comportava sia l’impossibilità di curare in tempo i feriti gravi, che spesso morivano per dissanguamento, sia l’effettuazione di operazioni chirurgiche frettolose, le quali si concludevano quasi sempre con amputazioni che magari sarebbero state evitate se fosse stato possibile agire con la dovuta calma.<br />
Fra i primi espedienti a cui si ricorse per ovviare alla scarsezza di personale sanitario ci fu la chiamata alle armi (aprile 1916) dei medici di classi antecedenti all’ultima classe mobilitata (1876) nonché il riesame dei sanitari delle zone territoriali per vedere quanti di essi e per quali ragioni fossero inidonei ai servizi di guerra. Ma tutto questo non era certo sufficiente per fronteggiare le esigenze del servizio di prima linea, le quali richiedevano un gran numero di giovani medici.<br />
Pertanto si ritenne indispensabile provvedere al cambiamento dello status del servizio sanitario mediante la nomina ad Aspiranti Ufficiali Medici (nuovo grado nella gerarchia militare) degli studenti che avessero compiuto il 4° anno di medicina, i quali dovevano coadiuvare gli Ufficiali Medici ed eventualmente sostituirli nei battaglioni .<br />
Dopo molte discussioni e qualche inevitabile compromesso si arrivò all'emanazione del Decreto Luogotenenziale n° 38 del 9 gennaio 1916, con il quale si istituivano in San Giorgio di Nogaro i ‘Corsi di medicina e chirurgia per gli studenti del 5° e 6° anno di medicina che si trovavano sotto le armi’. [V. Ibidem p.p. 43 – 48].<br />
<br />
Nacque così la <b>Scuola Medica da Campo, denominata anche Università Castrense</b>.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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<u>Note</u></div>
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(*) Il diario del dott. Primo Dondero è consultabile sul sito <a href="http://www.isonzofront.altervista.org/" target="_blank">www.isonzofront.altervista.org</a></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-59861239740785823172016-03-26T08:49:00.001+01:002016-04-07T21:06:55.732+02:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Contrasti e crisi del primo semestre 1916<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVfWxIalpBlSRJ0hC88F5UGjE3beuxrw_WhThCOrGTYatswXhBqomUkcLEPhhqwOFFDvAUQviWIhxXVK-4p1_kHc6BgLULre7Us6B8HtENZfMM4xMIaOLWSokQWKHYjZ4sxjxGftp_U0VX/s1600/CadornaGeneraleLuigi.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVfWxIalpBlSRJ0hC88F5UGjE3beuxrw_WhThCOrGTYatswXhBqomUkcLEPhhqwOFFDvAUQviWIhxXVK-4p1_kHc6BgLULre7Us6B8HtENZfMM4xMIaOLWSokQWKHYjZ4sxjxGftp_U0VX/s320/CadornaGeneraleLuigi.jpg" width="218" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Gen. Luigi Cadorna</td></tr>
</tbody></table>
Nel 1916 fra politici e militari divenne sempre più aspra la contesa su “chi” dovesse guidare la guerra che, invece, continuò a procedere quasi per suo conto, perversa e indomabile, ribelle ad ogni regola che le si sarebbe voluta imporre.<br />
A tal proposito il generale Antonino Di Giorgio nel 1919 ammise: “La verità è che nessuno governò l’Italia in guerra”. <br />
In passato i politici si erano quasi sempre disinteressati dell’esercito, mentre i militari avevano impedito al Parlamento di ingerirsi nei loro affari. Tuttavia non erano mancate del tutto le interferenze fra i due mondi. Infatti i ministri della Guerra e della Marina dibattevano i problemi dei loro dicasteri in seno al Consiglio dei ministri e, come tutti i membri dell’esecutivo, erano soggetti al controllo del Parlamento; il Governo utilizzava di continuo le truppe per garantire l’ordine pubblico. Nonostante questo, i due mondi continuavano a restare estranei l’uno all’altro, animati da reciproca diffidenza. Per esempio: mentre il generale Emilio De Bono, descrivendo la vita degli ufficiali nell’anteguerra, affermava che nessuno di essi si occupava di politica, l’on. F. Marazzi testimoniava che prima del conflitto era stato “quasi un vanto civico far pompa d’ignoranza di ogni nozione militare”.<br />
<br />
Le operazioni militari, che nel 1915 si erano concluse con un bilancio del tutto insoddisfacente, e le notizie diffuse nel Paese dai militari feriti o in licenza destavano allarmi e apprensioni non solo ai comuni cittadini, ma anche ai parlamentari. <br />
Fra i tanti l’on. Giampietro, che era ufficiale dell’esercito, denunciava un vero e proprio spreco di denaro pubblico causato da un piano strategico e da un’azione sbagliati, mentre il giornalista Gaetano Salvemini, tornato dal fronte, affermava che il tentare e ritentare sempre la stessa impresa, senza che questa riuscisse, aveva depresso lo spirito dei soldati.<br />
Il 26 gennaio 1916 in una riunione del Governo Salandra il gen. Vittorio Italico Zupelli, responsabile del dicastero della guerra, nell’intento di dare fiducia a quei suoi colleghi che dicevano di non capire nulla di tattica e di strategia, presentò un memoriale nel quale affermava fra l’altro che il gen. Luigi Cadorna avrebbe dovuto:<br />
<br />
<ul>
<li>evitare di disperdere tutta le forze disponibili sull’intero fronte e concentrarle, invece, sul Carso dove il nemico era più vulnerabile; </li>
<li>non sospendere le ostilità in inverno, poiché proprio in tale stagione sarebbe stato possibile impadronirsi del Carso e precludere al nemico le vie per Trieste.</li>
</ul>
<br />
Secondo Zupelli bisognava, perciò, riunire immediatamente su un breve fronte di 12 km almeno 500 delle 770 bocche di fuoco possedute ed riprendere le operazioni offensive entro il mese di febbraio, cioè nel giro di pochi giorni.<br />
Dopo Zupelli, prese la parola il ministro Sidney Sonnino, il quale dichiarò che le sorti della guerra le doveva decidere il “Consiglio di difesa”, ma che, essendo questo un organismo operante solo in periodo di pace, si era nell’impossibilità di convocarlo.<br />
Pertanto il presidente Salandra ritenne opportuno scrivere il 30 gennaio una lettera al Re per informarlo del disagio dell’intero Governo per quanto stava accadendo.<br />
Il Consiglio dei ministri tornò a d occuparsi della questione il 6 febbraio, decidendo di inviare Zupelli al fronte, perché esponesse il proprio piano a Cadorna.<br />
Il ministro della guerra partì e tornò soddisfatto, perché il Comandante supremo aveva accolto i concetti base del piano formulato nel suddetto memoriale in modo diverso da come ci si potesse aspettare.<br />
Però col passar del tempo i concetti espressi in detto memoriale, peraltro già non ritenuti validi dal Re, cominciarono a sembrare fantastici ed assurdi agli stessi ministri che in un primo momento li avevano approvati.<br />
Intanto il Comandante supremo, che ben sapeva di avere molti avversari, messo sul chi vive dal memoriale Zupelli e dalle voci in giro di una sua imminente sostituzione, decise di passare al contrattacco avverso i “nemici che erano a Roma”. Infatti chiese il sostegno del giornalista Ugo Ojetti, il quale, oltre a farlo subito intervistare in un posto avanzato da un giornalista del quotidiano «Idea Nazionale», gli assicurò sulla stampa italiana di febbraio tutta una serie di articoli laudativi del suo operato. Perciò Cadorna il 29 febbraio ringraziò Ojetti, dimostrandosi contento che il Comando supremo fosse stato considerato superiore alle critiche degli ignoranti e degli sfaccendati. Chiara allusione questa agli uomini politici.<br />
Però lo stesso Cadorna, dopo l’esaltante campagna giornalistica in suo favore, poté finalmente dare sfogo al proprio risentimento verso Zupelli, imponendo a Salandra la destituzione del ministro della guerra: o via lui, scrisse, o via io.<br />
Il presidente del Consiglio rispose di non poter subire imposizioni, precisando altresì che secondo lo Statuto del Regno d’Italia solo al sovrano spettava la nomina e la revoca dei ministri.<br />
Due giorni dopo Cadorna replicò al Capo del governo con la presentazione delle proprie dimissioni da Comandante supremo.<br />
Salandra reagì rimettendo l’intera questione nelle mani del Re, cioè dichiarando fra l’altro: “Con perfetta tranquillità di spirito ritengo però che in questo momento sia nell’intesse del Paese minor danno cambiare il ministro che non cambiare il capo di stato maggiore, perciò rassegno le mie dimissioni e resto in attesa degli ordini di Vostra Maestà”. <br />
Il Re ribadì il principio che la richiesta di allontanare Zupelli non era corretta dal punto di vista costituzionale. Cadorna rinunciò allora sia alla sua richiesta sia al suo proposito di dimettersi. Anche Salandra non parlò più di lasciare il Governo.<br />
Alla fine, dunque, se nella forma l’ebbe vinta il presidente del Consiglio, nella sostanza fu il comandate supremo a prevalere, anche perché il 9 marzo Zupelli, adducendo come motivo il clamore suscitato da una campagna giornalistica in corso, si dimise. A questo proposito Salandra scrisse poi al Re di ritenere che il ministro della guerra non a torto vedeva nella la campagna giornalistica contro di lui l’ispirazione dello Stato Maggiore.<br />
Fu quindi nominato ministro della guerra il generale Paolo Morrone, in base a una scelta fatta non da Salandra, ma dallo stesso Cadorna. Circostanza questa peraltro confermata dal ministro delle Poste Vincenzo Riccio, il quale scrisse che il Morrone era in seno al Consiglio dei ministri la longa manus del gen. Cadorna, i cui ordini eseguiva “con poco ingegno e molta scrupolosità”. Il Consiglio dei ministri si adattò al nuovo modus vivendi e per un certo tempo non pose più in discussione l’operato del Comando supremo<br />
Tutto questo è la dimostrazione inequivocabile che nel 1916 in Italia il Comando supremo dell’Esercito contava molto più del Governo dello Stato.<br />
<br />
Il 15 maggio, improvvisamente, le truppe austro-ungariche, iniziarono nel Trentino, fra i fiumi Adige e Brenta la strafexpedition (= spedizione punitiva) contro l’Italia che aveva tradito la Triplice Alleanza, di cui faceva parte insieme a Germania e Austria. Sin dagli ultimi giorni di marzo erano stati avvertiti dai reparti italiani i sintomi di una possibile offensiva austriaca, ma non era stata messa in atto nessuna misura preventiva in quanto Cadorna diceva di non creder che i nemici volessero impegnarsi nel Trentino. E il 15 maggio, quando gli austriaci avevano già sfondato le linee italiane, i ministri, che ancora non lo sapevano, dopo una riunione del Consiglio, erano rimasti a discorrere della guerra, in quanto erano preoccupati che dal punto di vista militare l’Italia si stesse facendo molto poco.<br />
Ma quando giunsero le prime gravissime notizie dal fronte lo sgomento fu generale.<br />
La strafexpedition aveva portato la guerra in casa: gli austriaci avanzavano in territorio italiano e non si sapeva ancora dove sarebbe stato possibile arrestarli. Pertanto il 24 maggio, 1° anniversario della dichiarazione di guerra, ci fu un’agitatissima riunione del Consiglio dei ministri, durante la quale Barzilai e Martini dichiararono che la loro fiducia in Cadorna era scossa, mentre Sonnino disse addirittura di essere seriamente preoccupato che le sorti d’Italia fossero affidate ad una sola persona, la quale neppure dava conto del suo operato e, perciò, propose la convocazione di un convegno tra Cadorna, i Comandanti di armate, il Capo del governo e cinque ministri.<br />
Tale proposta venne approvata dal Consiglio, ma il Comandante supremo il 25 maggio telegraficamente comunicò il proprio rifiuto di aderirvi, adducendo una articolata motivazione la quale si concludeva con l’affermazione che egli, fino a quando avesse avuto l’onore di godere della fiducia del Re e del Governo, si sarebbe assunte tutte le responsabilità, altrimenti avrebbe pregato di essere sostituito con la massima urgenza. Comunque si dichiarava disposto a fornire tutte le informazioni desiderate.<br />
A questo punto i ministri, non sapendo cosa fare, inviarono in zona di guerra per raccogliere informazioni il solo gen. Morrone. Questi, dopo quattro giorni, tornando dal fronte portò al Consiglio il rapporto di Cadorna, costituito di un sola paginetta!<br />
In questa, però, era fra l’altro scritto che, a causa della minacciata invasione austriaca dalla parte della Val Lagarina, poteva diventare necessaria la nostra ritirata dall’Isonzo al Piave.<br />
La lettura di detto rapporto provocò una vera insurrezione dei ministri presenti. <br />
E, mentre V. E. Orlando dichiarava che una ritirata fino al Piave avrebbe significato la capitolazione e la guerra perduta, Sonnino affermava che Cadorna aveva tradito il Paese e bisognava porre il dilemma: “O lui, o noi”. Anche Martini, Barzilai e Riccio sostenevano che fosse necessaria la sostituzione del Capo di stato maggiore, che fu quindi proposta al Re. Questi non sollevò obiezioni, ma dichiarò esplicitamente che l’iniziativa doveva essere assunta dal Governo. Ma il presidente Salandra, cercando di non affrontare subito il problema, convinse il Consiglio a deliberare di lasciare Cadorna al suo posto, tenendo pronto un successore. Quindi tutto restò come prima e non si riuscì neppure a convincere il Comandante supremo ad informare preventivamente il governo di una eventuale ritirata dall’Isonzo al Piave. <br />
Questa impotenza, dimostrata nella direzione delle vicende militari, contribuì alle dimissioni del presidente Salandra (18 giugno 1916), ormai inevitabili in quanto al suo scarso impegno nella condotta della guerra (peraltro dichiarata contro la sola Austria) erano addebitati i gravi insuccessi sui campi di battaglia.<br />
Dopo la caduta di Salandra la classe politica italiana non fu in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Venne, infatti, costituito un governo di unità nazionale, presieduto da un uomo politico di scarso rilievo e di ancor più scarsa autorità, qual era l’anziano patriota Paolo Boselli. Questi secondo il senatore L. Albertini era “uomo che nel discutere scivolava via senza che si riuscisse ad afferrarne il pensiero, perché non aveva un pensiero ben definito e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze”.<br />
Proprio traendo norma dall’ambiente e dalle circostanze e vedendo che l’offensiva nemica sull’Altopiano di Asiago era stata fermata, il neo Capo del Governo ritenne opportuno inviare un telegrafico e fidente saluto “all’insigne capitano” che guidava “i soldati d’Italia alla vittoria”.<br />
Ma di queste parole furono scontenti tanto Cadorna e i cadorniani quanto gli anticadorniani. I primi perché giudicavano le stesse troppo caute e, quindi, non rappresentanti un vero encomio. I secondi perché rimproveravano al nuovo Governo di avere in tal modo impegnato, senza un preventivo esame, la propria libertà di giudizio in ordine al problema di un eventuale esonero del Comandante supremo. Problema questo che si era seriamente posto il Ministero precedente.<br />
Nei primi giorni di attività governativa Boselli chiese al Capo di stato maggiore una relazione sulle ultime operazioni militari da leggersi in parlamento. La ebbe, ma non se ne valse. Cadorna si offese, tanto più perché venne a sapere che il presidente del Consiglio abitualmente parlava male di lui. <br />
La contesa tra militari e politici sulla conduzione della guerra, che tendeva a inasprirsi all’inizio del 1916, non era stata, quindi, neppure mitigata, intorno alla metà di giugno in virtù dell’azione generosa anche se non sempre appropriata di alcuni uomini di governo, ed in particolare del ministro Zupelli.<br />
Ma alla fine del 1° semestre, cioè dopo l’uscita di scena del Governo Salandra (17 giugno), mentre la guida dell’Esercito era ben salda nelle mani di Luigi Cadorna le condizioni politiche del Paese subirono un imprevisto e grave peggioramento. Infatti il Governo Boselli “Era il ministero della debolezza che simulava la forza”, come disse F. S. Nitti. Era un Governo di Unità Nazionale, cioè di tutti i partiti e rischiava l’inefficienza e la paralisi nell’azione. Inoltre era guidato da un politico compiacente e benevolo con tutti e ormai al termine della sua carriera politica. <br />
Il Ministero Salandra aveva avuto dodici ministri. Invece quello di Boselli ne contava venti, di cui solo tre [ V. E. Orlando (interni), P. Morrone (guerra), S. Sonnino (esteri)] con l’esperienza governativa che mancava agli altri diciassette. Infine questi ultimi, essendo diversi fra loro per formazione ed idee, difficilmente avrebbero potuto assicurare quell’azione decisa ed efficiente necessaria al Paese in guerra.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-82810925845956171672016-03-23T15:40:00.002+01:002016-03-26T08:49:30.471+01:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: L’adattamento del soldato alla guerra<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGAAAsJmXl_C6qYNyg2oBg2GWXSZcnmuW_ImYFH-9ekqMZQ_LXhwmJsaroW9FnyTfzOgDwJOFtAECzvs3yS5N2IQITA486j2qeQRGXqGcqSFGjoETZqSFjb4LwYKLMo7Lvysov6qcWYV7B/s1600/trincea.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGAAAsJmXl_C6qYNyg2oBg2GWXSZcnmuW_ImYFH-9ekqMZQ_LXhwmJsaroW9FnyTfzOgDwJOFtAECzvs3yS5N2IQITA486j2qeQRGXqGcqSFGjoETZqSFjb4LwYKLMo7Lvysov6qcWYV7B/s400/trincea.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
<br />
Le truppe si adattarono presto alla nuova guerra, tanto diversa da quelle del passato. In particolare anche l’adattamento consistente nell'accettazione di un conflitto di lunga durata che non era certo facile, fu reso possibile dal fatto che i soldati continuarono a credere nella brevità della guerra. Infatti alla fine del 1915 previdero la pace per la primavera del 1916, in primavera la attesero per l’autunno, in autunno per la primavera successiva, e così di seguito. Finché, nell'autunno del 1918 furono in molti ad ingannarsi, pensando che la pace sarebbe giunta nella primavera del 1919. Per esempio, il giornalista Ugo Ojetti, addetto presso il Comando supremo alla tutela degli oggetti d’arte e dei monumenti delle zone di guerra, il 25 ottobre 1918 scrisse alla propria moglie: “Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera”.<br />
<br />
I soldati, che nelle prime settimane del conflitto non sapevano scavare nel terreno luoghi in cui ripararsi dal fuoco nemico, impararono presto a costruire complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali si poteva vivere sia pure nel fango e nella sporcizia, sia sotto tiro dei fucili che sotto il bombardamento dei cannoni austriaci.<br />
<br />
Inoltre si adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal nemico, in quanto riuscivano a vivere la vita di trincea come se si trattasse di un’esistenza “normale”, priva di eccessive tensioni od emozioni. <br />
<br />
D'altronde abitualmente il vivere in trincea, mentre di notte era movimentato, di giorno era tranquillo. Infatti di notte i soldati o uscivano di pattuglia o dovevano restare all’erta per evitare sorprese. Invece di giorno: non c’era sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire, poiché c’era tanto poco da fare che la distribuzione dei viveri costituiva quasi sempre l’unico avvenimento della giornata.<br />
<br />
Tuttavia il trascorrere nell'ozio intere giornate finiva col logorare psicologicamente gli stessi soldati, procurando loro una “forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può concorrere al proprio benessere, e con un torpore intellettuale” ( V. Relazione del gen. Luigi Capello del gennaio 1916). <br />
<br />
I combattenti istruiti e colti soffrivano più degli altri a causa di questa decadenza intellettuale. A tal proposito in una lettera del gennaio 1916 Giacomo Morpurgo scriveva: “Davvero che i nostri cervelli si impigriscono nell'esercizio unico e limitato del compito giornaliero, sempre uguale, e sempre terra terra».<br />
<br />
Neppure le azioni difensive o offensive scuotevano il soldato dall'apatia e dal fatalismo nei quali era immerso. Anzi, secondo lo psicologo Agostino Gemelli, “L’insensibilità affettiva, l’apatia sentimentale crescevano durante le azioni. …”. Apatia e fatalismo si manifestavano soprattutto durante i bombardamenti austriaci, quando non restava che attendere, nella più assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico.<br />
<br />
Lo spirito delle truppe era già definitivamente mutato alla fine 1915. Infatti era ormai scomparso lo spirito garibaldino e la guerra sembrava ai combattenti non troppo diversa da un lavoro da portare a termine, o da una calamità naturale che necessariamente bisognava accettare.<br />
Distacco, spersonalizzazione e fatalismo caratterizzavano tutti i comportamenti del veterano, il quale ormai sapeva adattarsi alle circostanze. Se egli non si offriva più volontario ad azioni pericolose, era perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato l’inutilità di tanti gesti eroici compiuti perfino durante azioni insignificanti.<br />
<br />
L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sul comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei numerosissimi fanti-contadini. A tal proposito scriveva padre A. Gemelli: “Parlare di patria a … questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno certo coscienza nazionale […] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi […] E’ un uomo.”<br />
<br />
Di conseguenza gli accenti epici molto di rado comparivano nelle canzoni, spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi fra i combattenti. In esse quasi mai si nominava l’Italia, invece quasi sempre si esprimevano affetti familiari ed amorosi: in altri termini i sentimenti dell’uomo prevalevano su quelli del cittadino.<br />
Fra i soldati erano, però, molto diffuse strofette e canzoni “proibite”, che nominavano la patria, il re o Cadorna, ma per schernirli o per ingiuriarli.<br />
<br />
Gli obiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio “Trento e Trieste”, erano forse gli unici che tutti i soldati potevano comprendere facilmente. Tuttavia gli stessi non potevano avere un significato patriottico per i contadini, che rappresentavano circa metà dell’esercito e quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite e, perciò, alla fine del conflitto, gli orfani di contadini erano 218.000 (63%), su un totale di 345mila orfani di guerra. La classe più contraria alla guerra offrì, dunque, alla patria il maggior contributo di sangue.<br />
I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia alla luce delle loro esperienze dirette, cioè come presa di possesso di territori da arare e da seminare. A tal proposito Arrigo Serpieri, economista agrario, ha scritto: “I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell'ira di Dio per conquistare quella terra da pipe”. <br />
<br />
Dopo il 1915 gli ufficiali si trovarono in una condizione di spirito molto somigliante a quella dei loro subordinati. Sotto molti punti di vista, anzi, l’adattamento degli ufficiali risultò più difficile di quello dei soldati. Infatti gli ufficiali potevano distinguersi dai semplici soldati per una maggiore sensibilità ai valori patriottici, per l’istruzione e l’educazione ricevute, per le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando, per i privilegi conferiti dal grado. Ma nelle prime linee la guerra parificava tutti i combattenti, senza fare distinzioni tra comandanti e comandati. Infatti in trincea l’ufficiale non correva rischi minori di quelli dei suoi soldati, e durante le azioni ne affrontava forse di più grandi, poiché usciva sempre con gli altri allo scoperto, spesso esponendosi davanti a tutti per dare esempio di coraggio.<br />
<br />
La maggiore sensibilità ai valori patriottici procurava agli ufficiali una maggiore pena nel vedere deluse le attese della vigilia. Perciò nello svolgersi della dura esperienza quotidiana anche il loro sentimento patriottico si affievoliva. <br />
Le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando talvolta portavano l’ufficiale ad avere invidia dei propri subordinati. Sentimento questo che Paolo Marconi, giovane ufficiale alpino, espresse in una sua lettera del febbraio 1916, scrivendo fra l’altro: “… I soldati…se ne stanno lunghe ore tranquilli a contemplare il cielo e la terra, maestosamente. … Noi no! Noi dobbiamo vigilare, tutto osservare, a tutto badare. Spesso manifestare severità e rigidezza che in realtà non abbiamo. E di fronte all'incubo delle cose esterne … si fanno aride le fonti della vita interiore”. <br />
<br />
Nella prolungata vita trincea proprio queste cogenti responsabilità spesso determinavano in alcuni seri disturbi di natura psicologica. Il direttore di sanità del VI Corpo d’armata, Gerundo, essendo stato interpellato a tal proposito dal gen. Luigi Capello, il 7 gennaio 1916 scriveva: “Da qualche tempo si notano frequenti casi di esaurimento nervoso specialmente negli ufficiali, che si presentano la maggior parte sotto una forma depressiva ed in alcuni casi, fortunatamente rari, sotto forma eccitatoria (sic). Mentre i primi si presentano in genere apatici, indolenti, ipobulici, attoniti, gli altri si presentano con fenomeni alterni di eccitabilità e di depressione. […]”.<br />
<br />
Nel corso del conflitto la questione che più di ogni altra agitò l’animo dei combattenti fu quella degli “imboscati”, cioè di tutti coloro che si sottraevano al servizio di guerra e restavano lontano dal fronte. Tuttavia, essendo tale questione molto sentita, il termine “imboscato” finì con l’assumere svariati significati. Per esempio: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia, che chiamavano “armate della salute”; per i fanti erano imboscati gli artiglieri; e per l’intero esercito erano imboscati tutti coloro che non si trovavano in zona di guerra.<br />
Comunque il problema dell’imboscamento veniva avvertito dai soldati in forma sempre più acuta, perché continuamente ne venivano alla luce casi clamorosi come i seguenti:<br />
<br />
<ul>
<li>lontano dal fronte prestarono sempre servizio i tre figli del presidente del Consiglio Antonio Salandra, il quale a suo tempo aveva solennemente dichiarato che gli stessi sarebbero andati in prima linea;</li>
<li>il sottotenente Edoardo Agnelli, proprietario della FIAT, prestava servizio presso il Comando supremo in qualità di vice-direttore del parco automobilistico, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage FIAT di Milano. </li>
</ul>
<br />
A partire dall'ottobre 1915 il Governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio militare dell’importo annuo di lire sei (subito battezzata dai soldati “tassa sugli imboscati”), alla quale erano assoggettati sia i riformati che gli esonerati. Questi ultimi costituivano una categoria molto numerosa, poiché vi facevano parte gli addetti a vari uffici e servizi nonché gli operai di industrie in qualsiasi modo impegnate in produzioni utili alla guerra. Inoltre gli operai richiamati raramente erano assegnati alla fanteria poiché, se conoscevano anche superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, venivano avviati ad altri corpi speciali. Questo convinse il fante-contadino che dire operaio equivaleva dire imboscato, cioè nascosto in qualche corpo speciale o semplicemente rimasto in città a lavorare guadagnando bene.<br />
<br />
I fanti-contadini, che non avevano certo voluto la guerra, vivevano, dunque, nella consapevolezza che soltanto per loro non esistevano alternative alla lotta in prima linea, come peraltro riconobbero alcuni autorevoli uomini politici: “La guerra la fanno i contadini!” gridò alla Camera l’on. Soderini. “La pagano col loro sangue in proporzione del 75 per cento”, confermò l’on. G. Ferri.<br />
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<b>Francesco Congedo</b></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-80927020603201708302016-03-03T10:11:00.000+01:002016-03-26T08:50:10.581+01:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: L'impiego degli aerei nel primo conflitto modiale<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjea-PFPidumjMpdzFrYcU63pHxoN4bXRoNs3sxVxCcAVduCCCu0ehjQowQp9MtwWSt4-vY7-pL9k4S9cps1S4GmAnnqiuxnCHHLKp3IcdU0xKmEmKcoY9JPvN0OP49HykZQ1H9RcLXoOEh/s1600/piazza_tiraboschi2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="252" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjea-PFPidumjMpdzFrYcU63pHxoN4bXRoNs3sxVxCcAVduCCCu0ehjQowQp9MtwWSt4-vY7-pL9k4S9cps1S4GmAnnqiuxnCHHLKp3IcdU0xKmEmKcoY9JPvN0OP49HykZQ1H9RcLXoOEh/s400/piazza_tiraboschi2.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><b>Milano, 14 febbraio 1916</b>: gli effetti del primo bombardamento aereo austriaco</td></tr>
</tbody></table>
Gli italiani in Libia nel 1911, durante la guerra italo-turca, utilizzarono per la prima volta l’aereo come mezzo sia di ricognizione che di offesa. In particolare il 23 ottobre il capitano Carlo Maria Piazza eseguì la prima ricognizione, mentre il successivo 1° novembre il sottotenente Giulio Gavotti effettuò in maniera singolare il primo bombardamento aereo della storia: volando a bassa quota su un accampamento turco ad Ain Zara lanciò tre bombe a mano.<br />
L’impiego operativo dell’aereo era stato per la prima volta teorizzato in uno scritto del 1909 dall’ufficiale dell’esercito italiano Giulio Douhet, il quale era nato nel 1869 da genitori di origini savoiarde, che avevano optato per la cittadinanza del Regno di Sardegna quando Nizza e Savoia vennero cedute alla Francia.<br />
<br />
Proprio a Giulio Douhet il 13 novembre 1913 venne conferito dal Governo il comando del Battaglione Aviatori del Servizio Aeronautico Italiano, istituito ne 1912.<br />
Allo scoppio della prima guerra mondiale l’aereo veniva utilizzato come mezzo di ricognizione, considerando il suo impiego quasi un surrogato delle consimili operazioni tradizionali della cavalleria, dalla quale spesso provenivano gli equipaggi dei primi velivoli.<br />
Poiché il riconoscimento del profilo del terreno, della distribuzione e dei movimenti delle truppe e della disposizione delle trincee nemiche venivano notevolmente facilitati dalla perlustrazione aerea, l’aviazione militare conobbe un poderoso sviluppo in termini numerici e di miglioramenti tecnologici.<br />
<br />
Tra il 1913 ed il 1918 almeno 136 tipi di aerei militari furono progettati, costruiti ed inviati nei vari teatri operativi. Ma nello stesso tempo fu, purtroppo, constatato quanto il mestiere di pilota fosse pericoloso: circa 52mila aerei, cioè quasi il 77% di quelli impiegati, andarono perduti con i relativi equipaggi.<br />
<br />
Il 24 maggio 1915, allo scoppio delle ostilità contro l’Austria, l’Italia aveva 150 aerei, 91 piloti, 20 osservatori e 20 allievi piloti.<br />
Poiché l’industria aeronautica italiana era poco sviluppata, fu presto necessario acquistare numerosi aerei all’estero. Era, quindi, opportuno promuovere la nascita di un apparato industriale che potesse garantire una consistente produzione di aeromobili su scala locale.<br />
Perciò il suddetto Douhet, che invocava la costruzione di aerei da bombardamento per ottenere il controllo dell’aria, entrò in relazione con l’industriale Gianni Caproni che lui stesso autorizzò a costruire per l’Aviazione Italiana i bombardieri trimotori, detti appunto “Caproni”.<br />
Egli non aveva però il potere di concedere detta autorizzazione, perciò fu rimosso dal comando del Battaglione Aviatori ed inviato a prestare servizio nell’Esercito.<br />
Successivamente, quando un suo scritto molto critico in ordine alla condotta della guerra, inviato segretamente all’esponente socialista Leonida Bissolati, venne intercettato dalle Autorità governative, egli fu deferito alla corte marziale per diffusione di notizie riservate. Fu, quindi, condannato alla pena di un anno di reclusione, espiando la quale ebbe la possibilità di consolidare le proprie idee, che poi espose nel più famoso dei suoi numerosi libri, intitolato “Il controllo dell’aria”.<br />
Comunque Giulio Douhet, a parte gli incresciosi guai a cui era incorso, assicurò alla Regia Aeronautica numerosi ottimi trimotori “Caproni” che si rivelarono molto utili nel bombardamento tattico e nelle incursioni contro la base navale austriaca di Pola.<br />
<br />
Sul fronte italo-austriaco, a causa dell’impossibilità degli aerei del tempo di volare a quote elevate, l’aviazione militare poté operare in zone pianeggianti o di bassa montagna, quindi specialmente sul fronte dell’Isonzo da Tolmino fino al mare, dall’inizio del conflitto fino alla ritirata di Caporetto, e nel settore Monte Grappa-Piave nell’ultimo anno di guerra.<br />
Nei primi sei mesi di ostilità ci si limitò alle ricognizioni disarmate. Eccezione fu il bombardamento austriaco su Venezia del 24 ottobre 1915, che causò gravi danni ai beni culturali della città.<br />
Nel luglio del 1915 l’aviazione austriaca fu dotata del caccia “Fokker E. I”, il primo velivolo dotato di “sincronizzatore”, un meccanismo che consentiva al pilota di sparare attraverso l’elica senza colpirne le pale. Innovazione questa che assicurò a questi aerei un importante vantaggio rispetto a quelli degli avversari. Ciò fu purtroppo amaramente constatato anche dagli italiani, poiché nel febbraio 1916 una formazione di dieci nostri bombardieri “Caproni” venne efficacemente contrastata proprio da caccia “Fokker”, e nello scontro trovò la morte il colonnello Alfredo Barbieri, comandante della divisione aerea italiana.<br />
<br />
Dopo la morte di Barbieri le missioni dei bombardieri “Caproni” vennero effettuate solo poco oltre la linea del fronte. Ma nell’aprile 1916 l’attività dell’aviazione italiana fu in netta ripresa in virtù dell’acquisizione di caccia francesi “Nieuport” e delle prime vittorie di Francesco Baracca.<br />
L’aviazione austro-ungarica, pur non disponendo di bombardieri con più motori, come il “Caproni”, effettuando contro l’Italia missioni ben pianificate, conseguì fra gli altri i seguenti importanti successi:<br />
<br />
<ul>
<li>lunedì 14 febbraio 1916, alle ore 9, furono bombardati a Milano i quartieri Porta Romana e Porta Volta, mentre fino ad allora i bombardamenti erano stati subiti da alcune città della costa adriatica, da Verona e da località della pianura padana (*) (**);</li>
<li>nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1916 Treviso fu bombardata da idrovolanti austriaci due volte, cioè alle 23:00 del 17 e alle 2:30 del 18;</li>
<li> il 9 agosto 1916 fu bombardata Venezia ed affondato un sommergibile inglese che era nel porto.</li>
</ul>
<br />
Le vittime italiane dei bombardamenti austriaci superarono le 400 unità, di cui 93 morte a Padova quando le bombe colpirono distruggendolo un rifugio antiaereo.<br />
<br />
La stessa Treviso nel corso della guerra fu bombardata addirittura altre 27 volte, con lo sganciamento totale di circa 1500 bombe, perciò fu in gran parte abbandonata dagli abitanti, poiché solo 300 edifici erano rimasti indenni.<br />
<br />
L’impiego di aerei in grandi formazioni anche di cinquanta velivoli fu la dimostrazione pratica della piena validità delle teorie di Giulio Douhet, che per primo aveva intuito che il dominio bellico dell’aria sarebbe stato importante quanto quello delle rotte marittime.<br />
Il poeta-pilota Gabriele D’Annunzio, che gettò poi le basi dell’arditismo aviatorio, effettuando una serie di rischiose missioni di ricognizioni sull’Adriatico e i famosi raid sull’Austria allo scopo di lanciare volantini, stimava molto Douhet e si prodigò per la sua riabilitazione.<br />
<br />
Tuttavia, dopo la ritirata di Caporetto e l’uscita di scena del generale Luigi Cadorna, Giulio Douhet, quando aveva già scontata la pena, riuscì ad ottenere la revisione del processo, che si concluse con l’annullamento della condanna subita e il reintegro come ufficiale del R. Esercito. Nel 1921 ricevette la promozione a maggiore generale e l’incarico di capo dell’Aviazione Italiana. Presto, però si dimise da quest’ultima carica, per dedicarsi interamente allo studio.<br />
Douhet non conseguì mai il brevetto di pilota e morì d’infarto cardiaco nel 1930.<br />
<br />
Allo scoppio della Grande Guerra la Regia Marina italiana aveva già avviato da alcuni anni la formazione di una propria aviazione. Partendo da esperienze legate soprattutto ai palloni aerostatici in funzione di ricognizione ed osservazione, si giunse presto alla costituzione di una scuola di piloti d’aereo a Venezia (1913). I piloti usciti da questa scuola fondarono la squadriglia “San Marco” che venne equipaggiata con idrovolanti di vario tipo. <br />
L’Aviazione italiana terminò il conflitto con 6.488 aerei e 18.840 motori prodotti nel solo 1918. Questo trend positivo continuò anche nel dopoguerra. <br />
<br />
<div style="text-align: right;">
<b>Pietro Congedo</b></div>
<div>
<br /></div>
<div>
(*)</div>
<div>
<div>
<b>Tratto dalla pagina web</b></div>
<div>
<a href="http://ciabattine.net/2014/11/04/piccolo-itinerario-per-i-monumenti-della-grande-guerra-a-milano-2/" target="_blank">http://ciabattine.net/2014/11/04/piccolo-itinerario-per-i-monumenti-della-grande-guerra-a-milano-2/</a></div>
<div>
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixOB6igeUKy_YH67gx84EZubuNxhabgWJbjjnC9SkigOH9Ny5fnfT40NFHgQvJn3c7HVbwCYz7Qm9Yad07PjJo9Vx-Grt-4HM_2dIDmMIdH-YSpW425ny1ERsksimT_8CIQQ-rp4USl_gL/s1600/piazza_tiraboschi.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixOB6igeUKy_YH67gx84EZubuNxhabgWJbjjnC9SkigOH9Ny5fnfT40NFHgQvJn3c7HVbwCYz7Qm9Yad07PjJo9Vx-Grt-4HM_2dIDmMIdH-YSpW425ny1ERsksimT_8CIQQ-rp4USl_gL/s1600/piazza_tiraboschi.jpg" /></a></div>
<div>
<br /></div>
<div>
...</div>
<div>
Milano era lontana dalle linee nemiche, ma contribuì in maniera non indifferente col proprio apporto di uomini e di forza lavoro (ricordiamo che il grosso delle industrie pesanti si trovava in un triangolo di poche centinaia di chilometri tra Milano, Torino e Genova). Ma cosa è rimasto in città a ricordo di quella “Grande Guerra”? Provate a fare un giro con noi, visitando:</div>
<div>
<ol>
<li>Monumento ai ferrovieri caduti alla Stazione Centrale: al lato del binario n. 21, una installazione in marmo eseguita da Guglielmo Beretta, e posta a muro nel 1921 ricorda gli impiegati delle FF. SS, caduti durante lo svolgimento delle proprie mansioni in zona di guerra.</li>
<li>Via Ragazzi del ’99: abbiamo citato l’esempio dei ragazzi del ’99 che la nostra città ha giustamente voluto ricordare con una via, laddove ancora è sopravvissuto un piccolo lembo di vecchia Milano, tra la Piazza S. Fedele e la Via Hoepli, sopravvissuto agli sventramenti imposti dal regime fascista alla nostra città.</li>
<li>Tempio della Vittoria o sacrario dei caduti nella Prima Guerra Mondiale presso S. Ambrogio, lato L.go Gemelli: ideato per essere collocato nella fascista Piazza Fiume (poi divenuta della Repubblica). Finisce per essere realizzato sul luogo dove sono sepolti i primi martiri cristiani, presso S. Ambrogio... </li>
<li><b>Monumento ai caduti di Porta Romana Via Tiraboschi/ Via Papi</b>: in realtà fu inaugurato come <b>Monumento ai caduti dell’incursione austriaca</b>. Infatti ricorda il <b>primo bombardamento aereo sulla città, durante la I Guerra Mondiale: il 14 febbraio 1916, alla fine della giornata, si contano 13 morti e 40 feriti proprio tra Via Tiraboschi e Piazza Buozzi, in prossimità dello stazione di Porta Romana, importante scalo ferroviario industriale</b>. In ricordo di questo episodio verrà innalzato il 24 giugno 1923 il monumento “Ai caduti di Porta Romana” (realizzato da Enrico Saroldi). L’opera raffigura un soldato romano e un milite del Carroccio (due figure storiche che avevano lottato contro i Tedeschi) mentre sorreggono una vittima. L’uomo che si accascia dovrebbe ricordare l’eroe di guerra Giordano Ottolini. A causa della postura dei tre protagonisti, i vecchi milanesi avevano ribattezzato il luogo “<b>ai tri ciucc</b>” (ai tre ubriachi). Il basamento riporta i nomi dei morti per l’incursione aerea del 14 febbraio 1916 e quelli dei 573 residenti del Rione di Porta Romana caduti in guerra.</li>
</ol>
<b>(**)</b><br />
<b>Tratto dalla pagina WEB</b></div>
</div>
<div>
<a href="http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/scheda.asp?ID=130" target="_blank">http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/scheda.asp?ID=130</a></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<div>
Il monumento, inaugurato nel 1923, celebra l'eroe di guerra Giordano Ottolini e <b>commemora le 18 vittime di un bombardamento aereo austriaco sul quartiere di Porta Romana durante la I Guerra Mondiale, alle 9 del mattino del 14 febbraio 1916.</b> Dopo tale incursione la città si dotò di un apparecchio francese per la difesa dal cielo. Sembra che questo bombardamento sia stato un episodio isolato.</div>
<div>
Il monumento è opera dello scultore Enrico Saroldi </div>
<div>
La gente del quartiere, interpretando in modo meno eroico la posa delle tre figure, chiama il monumento i trii ciucc (i tre ubriachi).</div>
</div>
<div>
<br /></div>
<div>
Testo della lapide:</div>
<div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">GIORDANO OTTOLINI</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">MEDAGLIA D'ORO</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;"><br /></span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">ALLE VITTIME INERMI DEGLI AEROPLANI AUSTRIACI</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">CHE LA MATTINA DEL 14 FEBBRAIO 1916</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">LO INSANGUINARONO</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">IL RIONE DI PORTA ROMANA</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">ERGE QUESTA MEMORE ARA</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">E VI ACCENDE UN'UNICA FIAMMA D'AMORE</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">PER TUTTI I SUOI CADUTI IN GUERRA</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">DAL 1915 AL 1918</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">OGGI</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">CHE LA VITTORIA E' CONSACRATA</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">IN FACCIA AL SOLE D'ITALIA</span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<b><span style="font-family: inherit;">24 GIUGNO 1923 </span></b></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<span style="font-family: "times new roman" , "times" , serif;"><span style="font-size: 11px;"><b><br /></b></span></span></div>
<div style="text-align: -webkit-center;">
<br /></div>
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhaV7Frz4FZomStDNcfYpZtn_GPupUy8aiUUQeNuLYkAXcp0myjlRZX60RA4VbnU2yyzp-dpCzxqoTlZmL_6X0sOWl0otbYj60qswwPahUi-9vAiXbG8QB0b17mjWdz1z1Wlkd4Q_Y02EyL/s1600/piazza_tiraboschi3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhaV7Frz4FZomStDNcfYpZtn_GPupUy8aiUUQeNuLYkAXcp0myjlRZX60RA4VbnU2yyzp-dpCzxqoTlZmL_6X0sOWl0otbYj60qswwPahUi-9vAiXbG8QB0b17mjWdz1z1Wlkd4Q_Y02EyL/s400/piazza_tiraboschi3.jpg" width="277" /></a></div>
<div>
<br /></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-48954273502623069852016-02-25T14:41:00.002+01:002016-02-25T14:41:38.865+01:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Le contraddittorie vicende dei primi sei mesi di conflitto<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjbPM5ym8OMkAe8apaGSaMEelPyhzoEuN1ozYrnlOIjSXJY7BnHjWYs-E40ajd3Un6cA68coJUM60FJ74aDecNhbT-bRedzHIx1IbefBSHNzMzOlAA_kICjDpWv3qkrgGLqM47be64rnjSN/s1600/dichiarazione.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><span style="font-family: inherit;"><img border="0" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjbPM5ym8OMkAe8apaGSaMEelPyhzoEuN1ozYrnlOIjSXJY7BnHjWYs-E40ajd3Un6cA68coJUM60FJ74aDecNhbT-bRedzHIx1IbefBSHNzMzOlAA_kICjDpWv3qkrgGLqM47be64rnjSN/s400/dichiarazione.jpg" width="400" /></span></a></div>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quando il 24 maggio
1915 ebbero inizio le ostilità dell’Italia contro l’Austria <b>[</b>mentre quelle di Austria-Ungheria contro
la Serbia erano già iniziate il 28 luglio 1914 e in breve avevano coinvolto sia
Russia, Francia e Inghilterra (alleate della Serbia) che la Germania (alleata
dell’Austria)<b>]</b> il tumultuoso
contrasto tra neutralisti e interventisti si placò non tanto a causa dei
silenzi imposti dalla censura sulla stampa o dalle nuove leggi di Pubblica
Sicurezza, quanto proprio per il turbamento e il disorientamento provocati in
tutti i partiti dalla realtà della guerra. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tuttavia il Partito
socialista (che era sempre stato contrario alla guerra) adottava ufficialmente
la formula del «<i>non aderire né sabotare</i>»,
i cattolici dichiaravano di volersi comportare da cittadini obbedienti alle leggi,
i giolittiani mantenevano un atteggiamento prudente e riservato (mentre il loro
capo in un patriottico discorso dichiarava di essere devoto al Re e di voler sostenere
il Governo), e il cinquantenne Cesare De Lollis, fondatore del gruppo
neutralista “Italia Nostra”, partiva volontario per il fronte.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma nelle città e
ancor più nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate, già estranee
al dibattito sull’intervento, tenevano un atteggiamento indifferente - se non addirittura ostile – nei riguardi del conflitto
ormai in atto, il quale, non assomigliando per nulla alle tre brevi guerre
d’indipendenza dell’800, richiedeva invece la partecipazione di tutti i
cittadini, uomini e donne, sia per la costituzione di un esercito di enormi
dimensioni, sia per l’indispensabile impegno produttivo dei campi e delle officine.
In altri termini, mentre quella in atto era una guerra totale, guerra di masse
e, come tale, molto dura e non certo breve, sul conto della stessa sia fra gli
uomini della strada, sia fra quanti avevano responsabilità decisionali dominava
l’idea del tutto falsa che si trattasse di un conflitto non diverso di quello
per la conquista della Libia (1911-12).<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Infatti il Governo
non si preoccupava per niente dell’acquisto di ciò che in inverno sarebbe stato
necessario all’Esercito: lo stato d’animo prevalente era quello di un’attesa fiduciosa.
Non mancava certo l’angoscia nelle famiglie per i congiunti mandati al fronte,
ma pochi erano veramente coscienti dei
rischi e della gravità dell’impresa a cui la Nazione si era accinta.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I soldati partivano
senza sapere quale spaventosa esperienza fosse la guerra che già si combatteva
da circa dieci mesi in Francia o nei Balcani. Essi si avviavano e partecipavano
ai primi combattimenti con un morale nel complesso abbastanza alto. Questo si
riscontrava, però, nei combattenti evoluti culturalmente, mentre la grande
massa di fanti contadini e analfabeti non solo non sapeva, ma neppure si
preoccupava di sapere per quali ragioni la guerra era combattuta. A tale
proposito Adolfo Omodeo scriverà: «<i>…La guerra era sentita dal popolano come un
fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni: sarebbe passata, ma ci
voleva pazienza; per il contadino, infatti, la guerra era un male, un castigo
dei peccati: “Ma , una volta scatenatosi il flagello, lo accettava e lo
sopportava virilmente, come il buon agricoltore regge alla tempesta e al
solleone”</i>».<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Stati d’animo del
tutto simili si ripetevano negli eserciti degli altri paesi belligeranti.
Tuttavia all’inizio del conflitto era possibile notare il diffondersi di una
certa eccitazione, capace di stimolare un poco tutti al patriottismo. Anche i
civili avvertivano tale incitamento, ma ne venivano colpiti soprattutto i
militari, sui quali agivano contemporaneamente sia i mezzi coercitivi, sia i valori di cameratismo e solidarietà
propri dei combattenti, sia i naturali fattori agonistici che tendono a
manifestarsi con l’esercizio delle armi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel maggio del 1915
non c’erano ancora le idee e la pratica della guerra totale, e lo spirito risorgimentale e garibaldino
animava tanti combattenti.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Comunque talvolta non
si era contro la guerra anche per motivi
contingenti per es.:<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
</div>
<ul>
<li><span style="font-family: inherit;">nell’Italia del 1915, la popolazione era in gran parte costituita da analfabeti o semianalfabeti, da
modestissimi contadini o operai o artigiani, che in genere vivevano in
condizioni disagiate, quindi il vitto quotidiano, assicurato dalla appartenenza
all’Esercito, rappresentava per loro un notevole miglioramento delle condizioni
di vita; </span></li>
<li><span style="font-family: inherit;">all’epoca per quasi tutti gli italiani rarissime erano le occasioni per
muoversi, viaggiare e distrarsi, quindi il servizio militare, rompeva la
monotonia della vita quotidiana, consentendo di conoscere luoghi e uomini
nuovi.</span></li>
</ul>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Fin dall’inizio
venne impedito a tutte le forze politiche favorevoli alla guerra, sia di destra
(per es. i nazionalisti), sia di sinistra (repubblicani, socialisti radicali
ecc.) di far sentire la propria voce in seno all’esercito. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Del tutto
sporadicamente, in occasione di qualche cerimonia o alla vigilia di qualche
azione pericolosa, i comandi si rivolgevano all’intellettuale, al letterato,
all’avvocato interventista che ora vestiva la divisa di ufficiale, affinché
pronunciasse un discorso d’incoraggiamento patriottico ai commilitoni, in
nessun modo si verificò qualcosa che potesse far pensare ad una attività
meditata e concertata di propaganda, sia pure sotto il controllo delle autorità
militari. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 10 giugno 1915 il
generale Zuppelli, ministro della guerra, inviò disposizioni ai comandi di
corpo d’armata, di divisione e di reggimento perché s’impedisse agli
interventisti rivoluzionari qualsiasi forma di propaganda. Proprio in questa
fase a repubblicani, radicali socialisti ecc. nonché ai loro figli fu vietata
la partecipazione ai corsi per allievi ufficiali. A tale divieto incorse, fra
gli altri, Benito Mussolini. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In precedenza (23
maggio) il Governo aveva deciso di vietare la costituzione di corpi volontari
autonomi, perciò i Fratelli Garibaldi, che nel 1914 avevano formato in Francia
la “legione italiana”, tornando in patria fecero parte dell’esercito regolare. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La liberazione delle
regioni nord-orientali era uno dei primi obiettivi della guerra: si soleva dire
ai soldati che il loro grande e meraviglioso compito fosse quello di redimere i
fratelli oppressi dall’Austria. Accadeva
invece, con grande delusione degli interventisti, che proprio le popolazioni
del Friuli orientale accogliessero con freddezza, con diffidenza e sovente con
aperta antipatia i soldati italiani. A tal proposito anche Vittorio Emanuele
III espresse il suo rammarico affermando: «<i>La
popolazione oltre confine, che è rimasta nelle case, non ci è amica</i>». <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nonostante l’acquisto
nell’aprile nel 1915 di un certo numero di cannoni, le artiglierie italiane
erano ancora insufficienti e prive di adeguate scorte di munizioni.
Scarseggiavano anche le armi leggere, infatti fanteria e bersaglieri all’inizio
della guerra non avevano mitragliatrici e solo a luglio ne ricevettero due per
ogni reggimento, mentre il nemico ne possedeva dapprima due e poi otto per
battaglione. Erano sconosciute le bombe a mano e le prime cassette, giunte ai
comandi, contenevano un modello assai imperfetto che nessuno sapeva adoperare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Gli ufficiali, non
avevano ricevuto in tempo le pistole d’ordinanza, perciò se non acquistavano da
armaioli pistole di un qualunque tipo,
rimanevano disarmati.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I soldati erano
circa un milione e mezzo, ma non erano disponibili altrettanti fucili modello
91, perciò si distribuivano anche gli antiquati moschetti Wetterli.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In quell’epoca le autovetture
circolanti in Italia erano circa 20.000, ma il 24 maggio, al passaggio del
confine, il secondo Corpo d’Armata, forte di diecine di migliaia di uomini,
possedeva soltanto l’auto del comandante.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel maggio 1915 i
soldati dell’esercito italiano avevano già la divisa di panno grigioverde, ma non
possedevano l’elmetto, avendo come copricapo una sorta di chepì anch’esso di
panno.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le truppe italiane
andavano ai primi assalti in formazioni molto fitte, e gli austriaci
affermavano che tirare sugli italiani era più facile che tirare al bersaglio.
Durante la guerra di Libia i reparti
avevano imparato a diradarsi, ma nell’estate del ’15 tale esperienza venne
dimenticata. A questo proposito il generale Pettorelli-Lalatta, in data 27
agosto, scriveva: «<i>E qui lanciamo ancora
le fanterie all’assalto… a bandiera spiegata, ammassate, con musica</i>». <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Secondo le
disposizioni del comandante supremo Luigi Cadorna, contenute nella circolare del 1915, intitolata “<i>Attacco frontale ed ammaestramento tattico</i>”(che,
essendo stata ampiamente diffusa, era certamente nota anche al nemico), ogni
azione della fanteria doveva essere preparata da tiri delle artiglierie capaci
di spianare la via e di spazzare “<i>coll’impeto
e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione</i>”.
Ma nella pratica le nostre artiglierie, che erano imprecise e disponevano di un
insufficiente numero di bocche di fuoco e di scarse munizioni, iniziavano il
bombardamento sulle posizioni avversarie, del quale il principale effetto era
quello di porre il nemico in stato di allarme, poiché raramente venivano
colpiti i reticolati e le trincee nemici. Quando terminava il
bombardamento i fanti uscivano allo
scoperto e trovavano i reticolati nemici intatti, e le mitragliatrici pronte a
falciarli. Se poi il bombardamento aveva operato un varco nei reticolati (e
creato dunque un passaggio obbligato), il compito dei tiratori austriaci era addirittura
facilitato. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il generale Cadorna,
pienamente cosciente dell’impreparazione e dell’insufficiente equipaggiamento
delle truppe, non perdeva occasione per chiedere al Governo di colmare le
lacune che si andavano riscontrando. In particolare insisteva nel chiedere
munizioni e cannoni, pretendendo anche che questi fossero funzionanti, in
quanto ben ventidue obici erano esplosi per difetti “<i>nelle bocche di fuoco e negli esplosivi</i>”. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli era convinto
che le forbici taglia-fili potessero efficacemente servire ad aprire varchi nei
reticolati nemici, perciò rimproverava il ministero di avergliele concesse “<i>solo dopo lunghi stenti e pressanti
insistenze</i>”, ma esse non servirono a niente. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La probabilità che a
causa dell’impreparazione il Regio Esercito andasse incontro ad un insuccesso
nei primi scontri col nemico aveva anche indotto il Comandante Supremo a
chiedere, il 17 giugno 1915, al Presidente del Consiglio Salandra d’intervenire
sugli alleati perché iniziassero anch’essi un offensiva “contemporanea” al fine
di mettere in crisi gli Austriaci. Ma
poi rompendo gl’indugi ordinò l’attacco. </span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ebbe cosi inizio la prima battaglia
dell’Isonzo (23 giugno – 7 luglio), destinata al fallimento. Anche la seconda
battaglia dell’Isonzo (18 luglio – 4 agosto) venne da
Cadorna disposta senza la necessaria preparazione, ma immediatamente soltanto
perché a causa dell’insuccesso della prima egli “<i>sentiva salire la marea di malcontento</i>” in tutti i settori
dell’opinione pubblica. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quando anche la seconda
battaglia si concluse con elevate perdite e guadagni assai modesti, il
Comandante supremo informò Salandra che non avrebbe più ripreso l’offensiva
fino a che non gli fossero stati forniti
complementi, munizioni e rifornimenti in misura tale “<i>da evitare per l’avvenire la grave crisi odierna</i>”. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Così successivamente
per oltre due mesi l’esercito rimase sostanzialmente fermo. </span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 18 ottobre Cadorna, sia perché
i mezzi tanto insistentemente richiesti gli erano in parte pervenuti, sia in
quanto voleva assolutamente conseguire un successo prima della fine dell’anno
per non sfigurare di fronte degli alleati nonché di fronte agli stessi
italiani, decise di dare inizio alla terza battaglia dell’Isonzo, che terminò
il 4 novembre, seguita a meno di una settimana dalla quarta (10 nov. – 2 dicembre).<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Le suddette quattro
battaglie comportarono la perdita di 183mila uomini, di cui 62mila i morti, ma
i risultati furono molto modesti. Quindi svaniva l’illusione della ‘guerra
breve’ ed una profonda crisi morale sopravvenne
nel corso delle offensive d’autunno, quando la pioggia, il fango, le
sofferenze patite intristivano gli uomini e mutavano il volto della guerra.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Gli assalti si
ripetevano con esasperante monotonia e sempre contro le medesime posizioni. A tal proposito scriverà in
seguito Curzio Malaparte: «<i>… A un tratto,
tranquillamente, la fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava trotterellando verso le mitragliatrici
austriache, con un vocio confuso che nulla aveva di eroico. Gli uomini </i>(o)<i> cadevano a gruppi uno sull’altro…</i>(oppure),
<i>senza un lamento, andavano a stendere le
proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare</i>».<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1915 coloro che
avevano immaginato rapide e vistose conquiste, potettero ricevere dal fronte
notizie assai vaghe. Infatti i giornalisti non erano ammessi nelle zone di
guerra, in tutto il Paese vigeva la censura e ben poco si poteva ricavare dalla
lettura dei bollettini ufficiali, i quali peraltro finirono solo col suscitare
allarmi e preoccupazioni in quanto, mentre all’inizio fornivano quotidianamente
le cifre delle perdite subite dai reparti combattenti o da questi inflitte al
nemico, avevano poi improvvisamente cessato di farlo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Essendo anche le
lettere dei combattenti rigorosamente censurate, il Paese cominciò ad intuire
la cruda realtà del conflitto dai
racconti dei feriti ricoverati nelle retrovie o in convalescenza nelle proprie
case, nonché dai soldati in licenza.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tuttavia non mancò
la vigilanza anche su detti militari e alcuni furono anche puniti e fatti
rientrare nei reparti, mentre per volere di Cadorna veniva ridotta al minimo la
concessione di licenze.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La crisi della
guerra cronica, nata sul fiume Isonzo, era presto rimbalzata nel Paese
procurando lutti e sofferenze inaudite, di fronte ai quali molto grave fu il
disagio degli interventisti, perché più doloroso era in loro il crollo delle
illusioni, più grande il peso delle responsabilità. A tal proposito scriverà
poi A. Omodeo: «<i>Lo smarrimento morale
della guerra cronica fu la prova più amara per l’esercito. Falliva ciò per cui
si era sognata la guerra: la rapidità tagliente delle risoluzioni.</i>»<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Gli interventisti che
erano sotto le armi cominciarono ad essere trattati con odio e disprezzo dai
commilitoni. Chi era partito volontario cercava di mantenere questo fatto
assolutamente segreto.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 1° novembre 1915
B. Mussolini era al fronte e un soldato, incontrandolo, gli chiese: “Sei tu
Mussolini?” “Si.” “Benone, ho una notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni.
Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti.”<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> Il monaco barnabita padre Giovanni Semeria,
cappellano militare, essendo stato un appassionato interventista, al cospetto degli orrori della “<i>provò l’angoscia smarrita di aver tradito la sua
vocazione sacerdotale</i>”; internato in
una casa di cura svizzera, pensava addirittura di togliersi la vita, “<i>credendosi colpevole della morte di giovani,
di padri di famiglia, che alcuni suoi incitamenti potevano aver spinto alla
guerra</i>”. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Cadorna chiedeva al
Governo il massimo sforzo finanziario per ottenere gli uomini e i mezzi
necessari per riprendere nella primavera
del ’16 la lotta con maggiori
probabilità di successo. Ma la situazione finanziaria dello Stato era
drammatica e preoccupava seriamente il
Capo del Governo, che il 18 settembre 1915 convocò i Ministri sia per
informarli che le richieste del Comando supremo comportavano una spesa di 15
miliardi di lire, sia per porre loro la domanda: “Dove trovare tanto denaro?”<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’interrogativo
rimase senza risposta e i ministri deliberarono molto genericamente che ognuno
ci avrebbe pensato e poi proposto un programma di economie.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La guerra, dunque,
era ormai entrata in una fase per molti versi incomprensibile, irrazionale, che
lasciava senza risposta scottanti interrogativi.<o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I primi sei mesi
della stessa avevano cancellato i trascorsi entusiasmi al punto che nel «<i>…funereo autunno del 1915 […] le radiose
giornate di maggio erano diventate il più fastidioso dei ricordi e il solo
nominarle assumeva il sapore amaro del sarcasmo…</i>» (<i>V.</i> Rino Alessi, <i>DALL’ISONZO Al PIAVE</i> – A. Mondadori Editore 1966, pag.
13).<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: right;">
<span style="font-family: inherit;"><b>Pietro Congedo</b></span></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-67130388537030413002016-02-16T20:55:00.002+01:002016-03-26T08:50:40.370+01:00Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Religiosità e superstizione dei soldati durante la Grande Guerra<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEifx2kiOPqgCFrtafPTfvtU-fpe2CHycsbJka_rLYl0Fi6_0FfKZNfreUlE5hhiYe3pqVEckqK1AtNmkPQ-3x8IUMd12GUbrjPhowAnT5ivcPvIjbtlFdd1Jo4DfazcQbIlAYdcdZOTLm-c/s1600/barto.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEifx2kiOPqgCFrtafPTfvtU-fpe2CHycsbJka_rLYl0Fi6_0FfKZNfreUlE5hhiYe3pqVEckqK1AtNmkPQ-3x8IUMd12GUbrjPhowAnT5ivcPvIjbtlFdd1Jo4DfazcQbIlAYdcdZOTLm-c/s400/barto.jpg" width="275" /></a></div>
<br />
La mobilitazione generale (22 maggio 1915), alla quale tre giorni dopo seguì l’inizio delle ostilità dell’Italia contro l’Austria, determinò l’arrivo sotto le armi di centinaia di migliaia di uomini, che non erano soltanto laici. Infatti in breve tempo ci furono fra i mobilitati almeno 10mila appartenenti al clero secolare o regolare, che vennero comunemente detti “preti-soldati”.<br />
Nel Governo Italiano al vertice del Ministero della Guerra c’era il generale Luigi Cadorna, cattolico praticante, che affrontò subito la questione dell’assistenza spirituale ai soldati, nella convinzione che il sacerdote fosse elemento di equilibrio e di conforto non solo per i feriti e gli ammalati, ma per tutti i combattenti, compresi quelli impegnati in prima linea.<br />
<br />
L’iniziativa del Governo colse quasi impreparata la Chiesa che, tuttavia, con encomiabile tempestività stabilì la necessaria intesa con lo Stato. Infatti il 1° giugno 1915, la Sacra Congregazione Concistoriale indicò come Vescovo Castrense (ovvero Vescovo di Campo) mons. Angelo Bartolomasi, Vescovo ausiliario della diocesi di Treviso. Successivi accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede portarono all’emanazione del R.D. 27 giugno 1915, con il quale fu istituita la Curia Castrense e resa ufficiale la nomina a Vescovo di Campo di mons. Bartolomasi. Questi, insediatosi a Treviso, ebbe affidati l’organizzazione e la direzione del servizio, il reperimento e rifornimento del materiale religioso, la formulazione del regolamento del clero militare, gli affari civili e militari per i territori occupati, le conferme dei cappellani già mobilitati dalle direzioni di Sanità dei Corpi d’Armata territoriali, ma soprattutto gli fu conferito il potere di scegliere fra i preti-soldati i cappellani militari, nella previsione che bisognava assegnarne uno ad ogni reggimento.<br />
Al Vescovo Castrense venne assegnato il grado e il trattamento economico di maggiore generale dell’esercito, mentre i suoi Vicari ebbero il grado di maggiore, i coadiutori dei Vicari quello di capitano e i semplici cappellani il grado di tenente.<br />
<br />
Mons. Bartolomasi si rivelò veramente capace di espletare il compito a cui era stato chiamato, come si evince dalla seguente dichiarazione fatta ai cappellani militari: «Sapete bene che in trincea non ci sono atei. Il pericolo accosta gli uomini a Dio e dunque al sacerdote che di Dio è il ministro. Il conflitto è una grande occasione di apostolato, per ridare la fede ai dubbiosi e rinsaldare tra la Chiesa e i battezzati quei legami che la pacifica vita di tutti i giorni ha così spesso allentati. […]». Inoltre egli accortamente esortava i suoi subordinati ad operare anche al di fuori dell’ambito strettamente religioso, dicendo loro: «Fatevi anche gli umili e buoni segretari dei soldati e quando questi non possono, non sanno scrivere, fate voi per loro.»<br />
<br />
Comunque non tutti i religiosi mobilitati divennero cappellani. In particolare fra i suddetti 10mila, richiamati nell’estate 1915, solo 700 furono scelti da mons. Bartolomasi. E’ stato poi appurato che, durante l’intero corso della guerra, gli ecclesiastici alle armi furono 24.446 e i cappellani 2.400.<br />
Per ovviare all’insoddisfazione di coloro che erano rimasti semplici preti-soldati fu riconosciuto loro il diritto di chiedere il passaggio alle compagnie di Sanità, che comprendevano anche il Corpo ausiliario militare della Croce Rossa, dove svolgendo mansioni di infermieri, portaferiti ecc., potevano raggiungere il grado di sergente.<br />
<br />
Fra i preti non cappellani, però, fu possibile riscontrare una varietà di situazioni. Risulta, fra l’altro, che 1.582 religiosi, in virtù dei titoli di studio posseduti, furono ammessi a frequentare i corsi di allievi ufficiali, divenendo poi tenenti o capitani.<br />
<br />
La nomina a cappellano militare, che era a tutti gli effetti una promozione, prevedeva la presenza nei reparti combattenti, dei quali indossavano divisa, fregi ed emblemi con la sola aggiunta di una croce di panno sul lato sinistro della giubba.<br />
<br />
L’attività dei cappellani richiedeva il disprezzo del pericolo al fine di poter visitare i combattenti nelle trincee per assisterli durante le azioni. Molti ottennero encomi e decorazioni per il coraggio dimostrato in mezzo alle battaglie, ed è singolare constatare che alcuni compirono atti di valore in circostanze estranee alla missione sacerdotale. Per esempio: don Sebastiano Allio del 33° fanteria nell’ottobre 1915 sul monte Sabotino salvò la bandiera del reggimento rimasta in una casa, sulla quale sparava l’artiglieria nemica; don Giovanni Minzoni, cappellano del 255° reggimento fanteria, il 15 giugno 1918 durante la battaglia del Piave imbracciò il fucile e alla testa di una pattuglia di arditi si lanciò contro il nemico. Perciò fu decorato con medaglia d’argento.<br />
<br />
La guerra avvicinava gli uomini alla Chiesa, ma fin dall’inizio ci fu chi sosteneva che la maggiore partecipazione dei fedeli (combattenti e non combattenti) alle pratiche religiose testimoniasse un autentico risveglio religioso, e chi viceversa vedeva nella più numerosa partecipazione ai riti religiosi un riflesso delle paure e delle superstizioni che in quel triste periodo dominavano gli individui.<br />
Gli ecclesiastici al fronte erano i primi a dubitare dell’autenticità del risveglio religioso, anche se giornalmente si trovavano di fronte a fatti come i seguenti:<br />
<br />
<ul>
<li>un soldato calabrese passava di trincea in trincea portandosi dietro una grossa croce di ferro, che poi piantava vicino alla sua postazione;</li>
<li>un capitano ferito al torace vietava al medico, che lo operava, di togliergli dal collo la catenina con la medaglietta della Madonna;</li>
<li>moltissimi soldati portavano sul berretto o sulla divisa o al polso medagliette religiose, considerandole veri e propri portafortuna. </li>
</ul>
<br />
D’altronde durante la guerra le superstizioni si propagavano in maniera impressionante in tutti gli eserciti.<br />
<br />
Nei momenti di pericolo: il fante abruzzese, che usava portare sul petto un po’ di terra del paese natio, ne gettava un pizzico dietro le proprie spalle; l’ufficiale calabrese stringeva al petto una crocetta di legno stregato; i soldati piemontesi pronunciavano la formula magica «Samel Arant, Samel Su»; i fanti lombardi conservavano gelosamente le schegge del ceppo natalizio (sciocc de Natal), portandosele appresso in un sacchetto; i militare francesi per vincere la paura stringevano una pietra a forma di cuore, che avevano sempre con sé; i soldati inglesi stringevano invece il cuore di un gatto nero; la corda servita per impiccagione a Trento di Cesare Battisti, fu ridotta in minutissimi pezzi, contesi avidamente come portafortuna dai militari austro-ungarici presenti all’esecuzione; molti erano i soldati che avevano lunghi chiodi di ferro o addirittura ingombranti ferri di cavallo cuciti al cinturone. Benito Mussolini confessò di portare al dito mignolo un anello fatto con un chiodo di cavallo.<br />
<br />
In genere le pratiche superstiziose appartenevano alla tradizione popolare delle regioni, dalle quali provenivano i soldati, ma in zone di guerra le stesse si mescolavano con grandissima rapidità. Alcune di esse divennero internazionali, come, per esempio, il divieto di accendere tre sigarette con lo stesso fiammifero.<br />
<br />
Con una circolare del 19 dicembre 1916 l’Intendente generale dell’Esercito comunicava che in alcuni ospedali i cappellani e le suore compivano, sia pure involontariamente, propaganda pacifista, insegnando preghiere e invocazioni atte a deprimere lo spirito guerresco degli assistiti. Il Comando Supremo – si leggeva nella circolare – desiderava invece che l’opera di assistenza assumesse carattere più virile e consono alle ineluttabili necessità del momento.<br />
<br />
Il successivo 13 gennaio lo stesso Comando Supremo invitò i comandi in sottordine a vigilare sulla corrispondenza di contenuto pacifista o religioso, ricevuta dai soldati.<br />
<br />
Nel 1917 ci fu forte tensione tra le autorità militari e i cappellani, quando questi ultimi, su proposta di padre Agostino Gemelli, procedettero alla “consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù”. Consacrazione questa che fu effettuata in maniera collettiva, con la partecipazione volontaria dei soldati alle funzioni religiose del 1° venerdì del mese. Ogni partecipante ricevette l’immagine del Sacro Cuore, quale simbolo dell’avvenuta consacrazione e degli impegni da essa derivanti (i soldati, fra l’altro, si erano obbligati a far consacrare anche le loro famiglie). Le numerose manifestazioni relative all’iniziativa furono quasi sempre bene accolte, ma non mancarono altrettanti dissenzienti. Infatti alla fine di febbraio il Ministero della Guerra diramò una circolare, nella quale si precisava che l’iniziativa di padre Gemelli non era stata autorizzata e, soprattutto, si giudicava la stessa “consacrazione” come pericolosa per la disciplina, in quanto essa, imponendo ai soldati “consacrati” di portare sulla giubba o sul berretto il simbolo del Sacro Cuore, determinava “una palese differenziazione fra i militari di una stessa fede religiosa”.<br />
<br />
Mons. Bartolomasi dispose allora che detto simbolo fosse portato dai soldati in modo non visibile. Ma l’Autorità militare non fu d’accordo, e lo stesso Bartolomasi dovette ordinare ai cappellani di desistere dall’iniziativa.<br />
<br />
Grande amarezza provò il Vescovo Castrense quando, essendo stata vietata nell’esercito la preghiera scritta da papa Benedetto XV per la pace, egli stesso dovette compiere ispezioni per accertarsi che il divieto fosse rispettato. <br />
<br />
Comunque, a parte i problemi creati dalla Consacrazione al S. Cuore di Gesù e dal divieto di pregare<br />
per la pace, lo stato d’animo dei cappellani mutò sensibilmente tra la fine del 1916 e l’inizio del 1917. Infatti, svanita l’aspettativa di una breve durata delle ostilità, i sacrifici di ogni genere uniti agli orrori delle battaglie causavano stanchezza e sfiducia ai cappellani e ai preti-soldati, come a tutti i combattenti. Ma ai cappellani, che all’inizio avevano considerato la guerra come occasione di apostolato, i lunghi mesi trascorsi al fronte mettevano a dura prova la loro stessa vocazione.<br />
Il conflitto, iniziato con imponenti manifestazioni di devozione collettiva, riservò ai cappellani sorprese e delusioni, in quanto si constatava un crescente assenteismo dei soldati dalle funzioni sacre, sintomo evidente di notevole rilassamento nella religiosità e nella moralità.<br />
<br />
In occasione della prima Pasqua di guerra (1916) nella maggior parte dei reggimenti, essendoci stata una partecipazione alle funzioni religiose superiore all’80%, le confessioni andarono molto per le lunghe. Perciò alcuni cappellani per la Pasqua 1917, prevedendo un uguale afflusso di fedeli, chiesero a preti-soldati di aiutarli nelle confessioni. Ma i confessori attesero invano i penitenti, poiché se ne presentò appena il 4% , di cui la maggior parte seminaristi.<br />
In un convegno di cappellani uno degli intervenuti affermò che, ormai, il sacrificio di se stessi era l’unico modo efficace all’esercizio della propria missione.<br />
<br />
Ognuno si rendeva conto che le belle parole avevano perduto il loro fascino, infatti perfino i discorsi patriottici di padre Giovanni Semeria (1867 – 1931), predicatore barnabita famoso per il suo impegno nell’ambizioso progetto di dare agli “orfani di guerra” una casa, e con essa un’educazione e una famiglia, venivano accolti dalle truppe con fischi ed altre rumorose proteste.<br />
Nell’agosto 1917 la pubblicazione da parte di papa Benedetto XV della “nota diplomatica” (tendente alla sostituzione della guerra in corso con un arbitrato internazionale, atto a far cessare la “inutile strage”) fu accolta malissimo dai Generali. In particolare Cadorna si preoccupava che le parole del pontefice demoralizzassero le truppe, impegnate proprio in quelle ore nella battaglia sull’altopiano della Bainzizza.<br />
<br />
Invece le parole del pontefice aumentarono la combattività dei soldati, poiché si ricorse all’espediente di dire loro: «Il papa vuole la pace: è giusto, è bene, ma noi la pace l’avremo dando un buon colpo al nemico. Vedete, questo è proprio l’ultimo sforzo: diamogli dunque addosso!» <br />
<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
<br />Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-29867791959209296882016-01-30T18:48:00.004+01:002016-01-30T19:00:28.837+01:00La Commemorazione Ecumeica della Riforma Luterana<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7iX9ciSTE5OWTEzvcoPAcAZN7TlxA4qzggaA-vd14LVTGFuvg7AZg6cEVg3J3sPuaj5QWeWnASQ23E3o87iLJ2DzHX-fB_PSeeF8UN5hWh5PwtUV1vClLUVO5K9CqbzZCl2k3KXPC7_g0/s1600/lundcathedral.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><span style="font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><img border="0" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7iX9ciSTE5OWTEzvcoPAcAZN7TlxA4qzggaA-vd14LVTGFuvg7AZg6cEVg3J3sPuaj5QWeWnASQ23E3o87iLJ2DzHX-fB_PSeeF8UN5hWh5PwtUV1vClLUVO5K9CqbzZCl2k3KXPC7_g0/s400/lundcathedral.jpg" width="400" /></span></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-family: "times" , "times new roman" , serif;">La cattedrale di Lund</span></td></tr>
</tbody></table>
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In un articolo del sottoscritto, apparso il 31 dicembre u.s. sul quotidiano on line inondazioni.it (disponibile in questo blog alla data 12 gennaio 2016), è stato trattato il “Rinnovamento rinascimentale della Chiesa” che, purtroppo, all'epoca si concluse nel peggiore dei modi. Infatti papa Leone X, che aveva bandito in tutte le diocesi del mondo un’intensa campagna di vendita di indulgenze allo scopo di raccogliere i fondi necessari al rifacimento della Basilica di San Pietro, scomunicò il monaco agostiniano Martin Lutero che disapprovava detta vendita, appellandosi alla Sacra Scrittura, ed in particolare al versetto di San Paolo: </div>
<div style="text-align: justify;">
<i>“il giusto vivrà mediante la fede” </i>(Rm 1, 16-17)<i>.</i><br />
Principio questo che lo stesso San Paolo aveva anche formulato in maniera più esplicita affermando: <i>“Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia, mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna.” </i>(Lettera a Tito 3, 4-5).</div>
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<br /></div>
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La disapprovazione di Lutero del commercio di indulgenze si concretò nella “<i>Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum</i>”(Discussione sulla dichiarazione del potere delle indulgenze), nota come “Le 95 tesi proposte alla pubblica discussione” inviate il 31 ottobre 1517 ai vescovi interessati, i quali non risposero. Perciò Lutero affisse il lungo elenco delle tesi tradotto in tedesco alla porta della chiesa del castello di Wittemberg, in vista di pubbliche assemblee, durante le quali egli le avrebbe dimostrate.</div>
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<br /></div>
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Le “tesi” ebbero una larghissima popolarità; Lutero fu accusato di eresia e invitato a ritrattare. Non lo fece e solo la protezione del principe elettore di Sassonia, Federico il Saggio, gli consentì di evitare la pena di morte e di predicare la propria dottrina. Quindi sulla base della “giustificazione per sola fede” la Sacra Scrittura (suggellata dai sacramenti di battesimo ed eucaristia) divenne l’elemento fondamentale della Chiesa. Il principio d’autorità venne sostituito dal libero esame e dal principio della responsabilità del credente davanti a Dio e al prossimo. Venne inoltre eliminata la differenza tra clero e laicato nella Chiesa e affermato il sacerdozio universale dei credenti. Fu infine introdotta la distinzione tra potere civile ed ecclesiastico.</div>
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<br /></div>
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La Riforma venne sostenuta dalla maggioranza dei principi tedeschi, in quanto permetteva loro di non sottostare al potere della Chiesa.</div>
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Al contrario l’imperatore Carlo V d’Asburgo si oppose ad essa, schierandosi con il papa; il conflitto si concluse nel 1555 con la pace di Augusta, che sancì il principio “cuius regio, eius religio”[di chi (è) il territorio, di lui (sia) la religione] che consentiva a ciascun principe di stabilire la confessione religiosa nel proprio principato. </div>
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<br /></div>
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Così la popolazione dell’Europa si divise in cattolici e protestanti.</div>
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<br /></div>
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Intanto anche la Gran Bretagna si era già staccata da Roma nel 1534, in quanto il re Enrico VIII, sebbene precedentemente insignito dal papa dal titolo di “defensor fidei” per la sua lotta contro Lutero, a seguito di forti contrasti con lo stesso pontefice, aveva fatto approvare dal Parlamento lo “Act of Supremacy” con cui venne stabilito che “il Re è l’unico capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”.</div>
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<br /></div>
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Il teologo francese Giovanni Calvino aderì alla Riforma, aggiungendo alla dottrina luterana la “teoria della predestinazione, secondo la quale alcuni sono per Grazia di Dio destinati alla gloria eterna, mentre altri sono dannati”. Perciò incitava i suoi seguaci a cercare di scoprire a quale delle due categorie appartenessero, aggiungendo che i segni della Grazia divina spesso si manifestano in fatti concreti della vita, quali: la volontà di compiere il proprio dovere, l’eseguire bene il proprio lavoro ed il successo nel commercio o in campo finanziario.</div>
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<br /></div>
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Il calvinismo si diffuse soprattutto in Francia e in Inghilterra, da dove gli emigranti durante il XVII e XVIII secolo lo introdussero nelle colonie americane e perciò divenne un efficace elemento della formazione e della cultura degli Stati Uniti. </div>
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<br /></div>
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Prevalentemente calvinisti sono i “valdesi”, cioè i discendenti dei seguaci di Pietro Valdo, ex mercante, che nel XII secolo aveva abbandonato tutti i suoi beni per predicare il Vangelo nella Diocesi di Lione, dov'era nato e operava. Cacciato poi dal Vescovo del luogo, cercò rifugio con i suoi seguaci in altre località più o meno vicine.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’adesione dei valdesi alla Riforma avvenne nel 1532.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ma essi a causa di sanguinose persecuzioni sopravvissero solo nelle valli del Piemonte. Il 17 febbraio 1848 ottennero dal re Carlo Alberto tutti i diritti civili e finalmente potettero diffondersi in tutta Italia.</div>
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<br /></div>
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La Chiesa cattolica reagì alla diffusione della Riforma protestante soprattutto convocando il Concilio di Trento che, in varie sessioni, dal 1545 al 1563 fissò rigide norme di prassi liturgica e di dottrina teologica del cattolicesimo, non mancando di stabilire rigidi comportamenti per il clero.</div>
<div style="text-align: justify;">
In particolare il Concilio di Trento fissò il dogma del peccato originale e quello della giustificazione per la fede e per le opere, condannando il principio luterano della giustificazione per sola fede, indipendentemente dalle opere, e affermando il valore del libero arbitrio persistente anche dopo il peccato originale. Anche nel campo della disciplina degli ecclesiastici il Concilio svolse opera essenziale, dando norme per la scelta e l’azione dei cardinali e dei vescovi e condannando il nepotismo.</div>
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Fuori dal Concilio i papi diedero infinite disposizioni tendenti ad evitare il continuarsi di mali da lunghissimo tempo deplorati, ma ai quali non si era mai riusciti a porre riparo.</div>
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<br /></div>
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L’enorme frattura in seno alla Chiesa determinata dal movimento protestante, iniziato con la pubblicazione delle 95 tesi di Lutero il 31 ottobre 1517, fu alla base di numerosi e sanguinosi conflitti europei tra il cinquecento e il seicento. Infatti, oltre alla sopraccitata guerra tra Carlo V e i Principi tedeschi, ci fu in Francia la lotta tra ugonotti (calvinisti francesi) e cattolici, che culminò nel massacro di tremila calvinisti parigini, avvenuto nella notte di S. Bartolomeo (23 agosto 1372) e la tremenda guerra dei trent’anni (durata dal 1618 al 1648) tra eserciti protestanti e truppe imperiali, la quale devastò la Germania e si concluse con la pace di Westfalia [V. Il trattato di Osnabrük (06.08.1648) tra Impero, Svezia e Principi protestanti nonché il trattato di Münster (08.09.1648) tra la Francia e l’Impero, entrambi pubblicati il 24 ottobre 1648], che sancì il diritto dei sudditi di professare una religione differente da quella dei loro Principi (cessava, dunque, il principio “cuius regio, eius religio”).</div>
<div style="text-align: justify;">
Da allora nell’Europa occidentale sono presenti tre confessioni cristiane: cattolica, luterana e calvinista; mentre l’Europa orientale ha mantenuto la pluralità delle Chiese ortodosse nazionali, con due riferimenti principali: il patriarcato di Costantinopoli e quello di Mosca.</div>
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<br /></div>
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Con i suddetti due trattati pubblicati il 24 ottobre 1648 ci fu sì la cessazione delle lotte sanguinose fra protestanti e cattolici, ma non venne raggiunta una vera pace. Tra gli uni e gli altri persistette per più di due secoli quanto meno un reciproco disprezzo: i primi rinfacciavano ai secondi la totale subordinazione ai papi e perciò li chiamavano papisti. A loro volta i pontefici vietavano ai propri fedeli ogni forma di collaborazione con le società bibliche protestanti, che diffondevano le traduzioni della Bibbia in lingue moderne, giudicate pericolose per la fede.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Nel corso del ‘900 i protestanti hanno promosso il “movimento ecumenico”, che ha favorito il dialogo fra le diverse Chiese con sede a Ginevra. La Chiesa cattolica ha istituito “la settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani”, che si tiene ogni anno nella seconda metà di gennaio: con questa preghiera i credenti chiedono il raggiungimento della “unità che Dio vorrà con i mezzi che vorrà, e nel modo che Egli vorrà”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Papa Giovanni XXIII istituì il Segretariato per l’unione dei cristiani e nel convocare il Concilio Vaticano II invitò come osservatori esponenti di altre Chiese.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il decreto conciliare “Unitatis Redintegratio” sull’Ecumenismo afferma che la Chiesa voluta da Cristo si realizza in modo più completo nella Chiesa cattolica, ma aggiunge che Dio può servirsi anche delle altre Chiese per operare la salvezza: ogni Chiesa appare, infatti, limitata perché formata da peccatori, rispetto alla Chiesa futura che solo Cristo potrà costruire, perciò gli altri non vengono più considerati eretici o scismatici, ma fratelli separati. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Successivamente sono stati istituiti momenti di preghiera comune, come la Giornata di Assisi (27 ottobre 1986), promossa da Giovanni Paolo II e aperta anche a esponenti di religioni non cristiane; ed altre iniziative comuni per promuovere la pace, l’aiuto dei più poveri, il rispetto del creato ecc. .</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Nel 1999 è stato trovato un accordo anche sulla dottrina della giustificazione, che cerca di spiegare in quale modo la grazia di Dio dona la salvezza all’uomo: è stata, quindi, formulata la “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione”.</div>
<div style="text-align: justify;">
Inoltre cattolici e protestanti hanno realizzato insieme la traduzione interconfessionale in lingua corrente della Bibbia.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il prossimo 31 ottobre sarà celebrata a Lund in Svezia la Commemorazione Ecumenica della Riforma di Martin Lutero, che è stata promossa congiuntamente dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa Cattolica.</div>
<div style="text-align: justify;">
Si tratta della celebrazione del 1° centenario che cade nell'epoca della globalizzazione e dell’ecumenismo nonché dopo il Concilio Vaticano II.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
La Commemorazione Ecumenica congiunta avviene in previsione del 500° anniversario della Riforma che ricorre nel 2017 [ 31.10.1517 – 31.10.2017]</div>
<div style="text-align: justify;">
A scopo preparatorio dell’evento è stato redatto un documento, intitolato “Dal conflitto alla comunione” da parte dell’apposita “Commissione luterana-cattolica”.</div>
<div style="text-align: justify;">
Detto documento, che il 1° giugno 2013 è stato pubblicato dal Centro Editoriale Dehoniano come Supplemento del quindicinale “IL REGNO”, è composto da sei capitoli, attraverso i quali viene percorso tutto l’iter della Riforma, e si arriva a concludere con i seguenti “Cinque imperativi ecumenici”:</div>
<br />
<ol>
<li style="text-align: justify;">Cattolici e luterani devono tendere a rafforzare ciò che hanno in comune, anche se è più facile scorgere e sperimentare le differenze;</li>
<li style="text-align: justify;">Luterani e cattolici devono lasciarsi continuamente trasformare dall'incontro con l’altro e dalla reciproca testimonianza di fede;</li>
<li style="text-align: justify;">Cattolici e luterani dovrebbero di nuovo impegnarsi a ricercare l’unità visibile e tendere costantemente a questo obiettivo;</li>
<li style="text-align: justify;">Luterani e Cattolici devono riscoprire congiuntamente la potenza del Vangelo di Cristo per il nostro tempo;</li>
<li style="text-align: justify;">Cattolici e luterani devono rendere insieme testimonianza della misericordia di Dio nell’annuncio del Vangelo e nel servizio al mondo.</li>
</ol>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Comunque, una volta attuati questi obiettivi, non ci si troverà alla fine di un percorso, bensì ad una tappa fondamentale di un cammino da continuare assieme.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il 25 gennaio 2016 p. Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, ha annunciato che Papa Francesco il prossimo 31 ottobre parteciperà alla “ Commemorazione ecumenica della Riforma di Martin Lutero”, promossa congiuntamente dalla Federazione Luterana Mondiale (LWF) e dalla Chiesa Cattolica, che avrà luogo a Lund in Svezia.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
L’evento comprenderà una celebrazione comune fondata sulla guida liturgica cattolico-luterana, “Common Prayer” [Preghiera Comune], di recente pubblicazione.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il pastore Martin Junge, segretario generale della LWF, ha affermato in proposito che i Luterani si accingono a commemorare l’anniversario della Riforma in uno spirito di responsabilità ecumenica e nella convinzione che, adoperandosi per la riconciliazione fra Luterani e Cattolici, operino per la giustizia, la pace e la riconciliazione in un mondo lacerato dai conflitti e dalla violenza.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
A sua volta il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (Pcpcu) ha spiegato: “Concentrandosi insieme sulla centralità della questione di Dio e su un approccio cristocentrico, i Luterani e i Cattolici avranno la possibilità di celebrare una commemorazione ecumenica della Riforma, non semplicemente in modo pragmatico, ma con un senso profondo della fede in Cristo crocifisso e risorto”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
La “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione”, firmata nel 1999 dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa Cattolica, è stata anche accolta nel 2006 dal Consiglio Metodista Mondiale (Alleanza tra Chiese Metodiste)* .</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pertanto è opportuno evidenziare che detta “Dichiarazione …” ha annullato dispute antiche di secoli fra Cattolici e Luterani sulle verità fondamentali della dottrina della giustificazione, la quale è al centro della Riforma del XVI secolo.</div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: right;">
<div style="text-align: right;">
<span style="font-size: 14.0pt;"><b><span style="font-family: inherit; font-size: xx-small;"><br /></span></b></span>
<br />
<div style="text-align: start;">
<br /></div>
<span style="font-size: 14.0pt;"></span><br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt;">
<span style="font-family: inherit;"><b>Pietro Congedo</b></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"><b><span style="font-family: inherit; font-size: xx-small;">-----------------</span></b></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 14.0pt;"><b><span style="font-family: inherit; font-size: xx-small;"><br /></span></b></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="font-size: 14.0pt;"><span style="font-family: "times" , "times new roman" , serif; font-size: x-small; text-align: justify;">*</span><span style="font-family: "times" , "times new roman" , serif; font-size: 12pt; text-align: justify;"><span style="font-size: x-small;">Il<u> metodismo </u>è un’espressione del protestantesimo, che ha dato vita ad una delle chiese evangeliche più diffuse nel mondo, caratterizzandosi per profonda spiritualità, dinamismo evangelico e marcata sensibilità verso i problemi etici, sociali e politici.</span></span></span></div>
</div>
</div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-34312820281781031112016-01-24T19:35:00.001+01:002016-01-25T11:09:36.067+01:00Il frate francescano Agostino Gemelli, dal 1915 al 1918 ufficiale medico alle dirette dipendenze di Cadorna<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAyg7B48EU0mHmJRvFLX4Mf-KOjjbxemcFom9NjYk7N9Rs1WV-vZRZLSKANkTTsEjL9GkkrpTz6aLGgNXJpMJYt_D77JlYQtxcWGBZthoS7MoE1qNOF49_Ml9oyMASTXT8alqtFxPuzHE5/s1600/Padre+Agostino+Gemelli+militare.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img alt="Padre Agostino Gemelli in divisa da Ufficiale Medico" border="0" height="283" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAyg7B48EU0mHmJRvFLX4Mf-KOjjbxemcFom9NjYk7N9Rs1WV-vZRZLSKANkTTsEjL9GkkrpTz6aLGgNXJpMJYt_D77JlYQtxcWGBZthoS7MoE1qNOF49_Ml9oyMASTXT8alqtFxPuzHE5/s320/Padre+Agostino+Gemelli+militare.jpg" title="Padre Agostino Gemelli in divisa da Ufficiale Medico" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Padre Agostino Gemelli in divisa da Ufficiale Medico</td></tr>
</tbody></table>
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il 30 giugno 1914 cominciarono
le ostilità dell’Austria contro la Serbia: ebbe così inizio il conflitto che divenne poi mondiale
e durò più di quatto anni. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il successivo 3
settembre il cardinale Giacomo Della Chiesa fu eletto papa col nome di
Benedetto XV e il 1° novembre 1914 pubblicò la sua prima enciclica “Ad
Beatissimi Apostolorum”, nella quale si appellava ai governanti delle Nazioni
per far tacere le armi, perché cessasse lo spargimento di sangue umano. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In seguito </span>all'entrata<span style="font-family: inherit;"> in guerra dell’Italia (24 maggio 1915) la Santa Sede, chiusa e prigioniera in
Vaticano, rimase ancor più isolata dopo la dipartita degli ambasciatori degli
stati belligeranti. Tuttavia Benedetto XV, constatando con amarezza l’allargamento del conflitto e il notevole
incremento del numero di morti e distruzioni, non smise mai di inviare sia
proclami per la pace ai governi degli stati belligeranti e concreti aiuti alle
popolazioni civili direttamente coinvolte
dalle vicende belliche.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli è
particolarmente ricordato per essersi invano prodigato a promuovere, con una
“nota” del 1° agosto 1917, la sostituzione della guerra con un arbitrato
internazionale atto a far cessare la “inutile strage” di esseri umani. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il grido di dolore
del pontefice per siffatta strage e i suoi continui proclami di pace furono,
però, molto ascoltati dai cappellani militari, detti “soldati di Dio”. Questi
godevano del favore incondizionato del comandante supremo dell’esercito
italiano, Luigi Cadorna, il quale era molto religioso ed anche padre di due
suore, ma nello stesso tempo era il più accanito sostenitore della “giustizia
del piombo” (cioè dei processi sommari concludentisi tutti con la fucilazione
dei militari ritenuti indisciplinati) nonché l’inventore di quella efferata
forma di annientamento d’innocenti, detta “decimazione”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I cappellani
militari furono tra le figure più importanti e significative della grande
guerra. I soldati trovavano nel proprio cappellano un prezioso confidente, un
ponte tra l’orrore delle battaglie e i ricordi della propria terra o della
propria famiglia; una speranza tra la violenza e la morte. Grazie alla figura
del cappellano, il soldato poteva sentirsi al riparo dai turbamenti che la
guerra procurava. Il richiamo alla dimensione religiosa era spesso in grado di
attenuare e perfino annullare i sentimenti negativi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ci furono cappellani
che dopo il conflitto si distinsero per il loro impegno sia religioso e
pastorale che sociale e politico come: don Angelo Giuseppe Roncalli, divenuto
poi papa Giovanni XXIII; Giovanni Forgione da Pietralcina, che divenne padre
Pio; padre Giulio Bevilacqua, nominato
cardinale da Paolo VI; don Primo Mazzolari, diventato in seguito una delle
figure più significative del cattolicesimo italiano della prima metà del XIX
secolo; don Giovanni Minzoni, martire antifascista. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"> <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: inherit;">Divenne famoso dopo
il conflitto an<span style="font-family: inherit;">che </span><span style="background-color: white; color: #252525; line-height: 22.4px;">Padre </span><b style="background-color: white; color: #252525; line-height: 22.4px; text-align: start;">Agostino Gemelli</b><span style="background-color: white; color: #252525; line-height: 22.4px;">, al secolo </span><b style="background-color: white; color: #252525; line-height: 22.4px; text-align: start;">Edoardo Gemelli,</b><span style="font-family: inherit;"> che però non vi aveva partecipato come
cappellano militare ma come medico e neppur condivideva il dolore e i proclami di pace del pontefice. Eg</span>li, nato
nel 1878 da un’agiata famiglia milanese legata alla massoneria, aveva avuto in
gioventù tali simpatie socialiste da convincersi a partecipare ai moti
verificatisi a Milano nel 1898 a causa delle molto precarie condizioni sociali
- economiche delle classi popolari.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Successivamente si
converti al cattolicesimo ed entrò nell'Ordine dei Frati Minori.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Conseguita la laurea
in medicina nell'Università degli Studi di Pavia, in breve divenne una colonna
portante della psicologia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1914 fondò la
rivista Vita e Pensiero, che divenne un
vero laboratorio d’idee.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Durante l’anno di
neutralità dell’Italia Gemelli, interventista dichiarato, auspicava che l’Italia
scendesse in guerra a fianco degli Imperi Centrali.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tuttavia, quando al
contrario il Governo italiano dichiarò guerra all’Austria e alla Germania, il
Nostro, con una conversione a centottanta gradi scriveva: <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">“La patria chiama
tutti alla sua difesa.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Cessino le
discussioni e i dissidi…[…]. Oggi non c’è più luogo che per il proprio dovere,
per tutto il proprio dovere compiuto con sacrificio, sino </span>all'eroismo<span style="font-family: inherit;">.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Noi cattolici, che
sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta
la nostra vita, tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il
nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani i destini della Patria.” (V. “Vita e
Pensiero” del 1° ottobre 1915).<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dopo con
disinvoltura si atteggiò a teorico della lotta ai tedeschi, ritenuti “barbari”.
</span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Egli pensava che la guerra
fosse fondamentalmente un’occasione da non perdere.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Teorizzava il
conflitto come “espiazione”, “rinascita”, insistendo affinché, negli orrori, le
masse (“e soprattutto i miscredenti della classe operaia …”) si rivolgessero
alla Fede cristiana come speranza di salvezza.
<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lo storico Sergio
Tanzarella ha scritto: «Gemelli era
capitano medico assegnato al Comando Supremo. In quel ruolo fu uno dei più
ascoltati consulenti di Cadorna. Come psicologo si propose di abbassare ogni
forma di resistenza tra i soldati rispetto alla morte che li attendeva agli
inutili assalti. Alla stessa morte Gemelli attribuiva una valenza religiosa in
grado di convincere i fanti che si trattava di condividere la missione
salvifica di Cristo. Gli articoli di Gemelli in quelli anni e il suo libro,
intitolato “<i>Il nostro soldato. Saggi di
psicologia militare</i>”, Milano, 1917,
sono un’abominevole raccolta di pensieri raccapriccianti, dove la fede viene
posta a servizio di una causa di morte. Gemelli scriveva che la conversione del
soldato si realizzava sul letto dell’Ospedale prima di morire, ma era
cominciata al fronte e ad essa aveva dato un contributo decisivo una singolare
forza di catechesi, la catechesi del cannone.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Pertanto la guerra
era compresa come provvidenziale occasione di rinascita cristiana. Gemelli fu
molto abile a preparare un intruglio di edificazione-rassegnazione di fronte
alla catastrofe della guerra offrendo ad essa una mistica consolatrice come
quando scrive: “Per noi che rimaniamo, per le spose, per le madri, per i figli,
per le sorelle, per gli amici, per i compagni d’armi, per quanti siamo in lutto
in queste giornate di prova la morte dei nostri giovani è ragione di conforto.
Essi hanno accettato di morire, perché hanno sentito la bellezza cristiana del
sacrificio per la patria. Essi hanno fatto di più: hanno fatto risuonare nella
morte questa dolce voce di speranza cristiana che consola, che rende forte, che
sprona al sacrificio, che ci fa degni insomma dell’ora della prova in cui
viviamo”» (V. Gigante, Kocci e Tanzarella <i>La
grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno raccontato sulla I guerra
mondiale</i>, Ed, Dissensi, Viareggio, 2015).
<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Da quanto sopra
esposto risulta evidente che padre Agostino Gemelli, in qualità di frate minore,
non si preoccupò minimamente di portare tra le rigide pareti del comando
cadorniano la mitezza e la bontà proprie del Santo di Assisi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Purtroppo, come
durante la sua attività sperimentale di scienziato non s’impietosiva mai del
dolore animale (“… sembra che l’animale provi dolore, ma non è del tutto
esatto: si tratta, più che altro, di contrazioni nervose istintive …”), così
non provava alcuna compassione per i poveri fanti e aviatori che, esauriti,
malati di nervi e traumatizzati dalla guerra, si presentavano per visita medica.
Egli li rispediva al fronte senza pietà, spesso trattandoli da poltroni e da
vigliacchi, affermando che “La paura non è una malattia”. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quindi
l’impassibilità dimostrata da Gemelli durante gli esperimenti su animali è la
stessa che egli ostentò nei riguardi dei poveri soldati traumatizzati dagli
orrori delle battaglie.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Forse </span>all'epoca<span style="font-family: inherit;"> i
traumi psichici erano ancora ben lungi </span>dall'essere<span style="font-family: inherit;"> studiati, ma da un frate minore
diventato esperto psicologo forse qualcosa in più ci si poteva aspettare. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">
<o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: right;">
<span style="font-family: inherit;"><b>Pietro Congedo</b></span><span style="font-size: 14pt; font-style: italic;"><o:p></o:p></span></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-925588574716519952016-01-12T20:52:00.001+01:002016-01-12T20:52:20.054+01:00La Misericordia, cuore della fede cristiana<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBggv2h0y0ReqnAZB293KCAwEk62lzFT9sr66Fmh_8LwobJuQjdMLH-TRhhn0gHmZGf7VIo7FfQgmaPlbpHw2goclalcddvGqUYcwUhbKEdCdiljDrRYDHHAEnDvC4HmRKlDiQwvinHWT5/s1600/misericordi.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="178" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBggv2h0y0ReqnAZB293KCAwEk62lzFT9sr66Fmh_8LwobJuQjdMLH-TRhhn0gHmZGf7VIo7FfQgmaPlbpHw2goclalcddvGqUYcwUhbKEdCdiljDrRYDHHAEnDvC4HmRKlDiQwvinHWT5/s320/misericordi.jpg" width="320" /></a></div>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><br /></span>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><br /></span>
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Il pastore valdese Paolo Ricca, il 18 novembre 2015, invitato dall’Associazione Ecumenica OIKOS di Galatina a trattare il tema “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">La misericordia, cuore della fede cristiana</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">”, ha esordito dicendo fra l’altro di essere felice di trattare l’argomento propostogli, perché è bellissimo in quanto parla della cosa più bella del mondo. Ma gli ultimi fatti di Parigi gli hanno un po’ offuscato questa gioia, in quanto non è così facile parlare della misericordia di Dio ad una comunità insanguinata. </span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Egli poi,riferendosi esplicitamente “…all’infausto venerdì (13 novembre u.s.), … giorno della crocifissione di Cristo, ma pure dell’umanità”, si è domandato:-Gli uomini del Califfato perché ci odiano tanto? Cosa odiano veramente di noi? La nostra religione cristiana, la nostra secolarizzazione, la nostra laicità? -</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">E’, quindi, pervenuto alla considerazione: “… Certo, odiano l’Occidente, il cristianesimo, la libertà, la democrazia. Ma a livello più profondo odiano la VITA, tanto, che odiano anche la propria. … . Essi sono ammaliati dal fascino della morte. Questa amano di più. … “.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Continuando si è chiesto: “Ma è proprio la misericordia che noi dobbiamo annunciare o non piuttosto il giudizio di Dio? Nella Bibbia c’è l’una e l’altro. Non è questo che dobbiamo annunciare tra le attuali tragedie senza nome? Ha senso annunciare la misericordia?... Si predica la misericordia se si spera nella conversione dell’altro. …”.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Si è domandato poi: “Non c’è misericordia per il Califfato. Ma per l’Europa, per gli europei c’è misericordia?”</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Molto imbarazzato dalla consapevolezza che le armi puntate dai terroristi dell’ISIS contro di noi sono fabbricate anche in Europa (e in Italia), ha risposto:</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; font-weight: 700; line-height: 18.5714px;">«</span><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Non lo so. </span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Ma quello che so è che c’è la misericordia di Dio, anzi c’è la misericordia perché c’è Dio. Se non ci fosse Dio, non ci sarebbe misericordia per nessuno. Dire DIO è dire MISERICORDIA. La misericordia non è soltanto una qualità di Dio, ma la sua stessa natura. Dio è solo misericordia.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Ma c’è stato un tempo in cui Egli ha usato metodi forti. Ricordiamo il diluvio?[…].</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Dopo il diluvio Dio ha detto a se stesso: ”Non distruggerò la terra, l’umanità, ma percorrerò un’altra via.”</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Oggi possiamo dire che Dio e SOLTANTO misericordia, TUTTO misericordia,</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Questa è la nostra fede.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Questa realtà chiave di tutto è continuamente dimenticata.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Era dimenticata al tempo di Gesù: la Legge allora aveva preso il posto della misericordia. Cosa dice Gesù alla sua generazione, citando Osea?: “Voglio misericordia non sacrifici, perché io sono MISERICORDIA”.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Il mondo ha bisogno della misericordia di Dio, ma anche della tua, uomo.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Al tempo di Paolo viene di nuovo dimenticata, tanto che lui dice, e ripete fino alla noia, che il cuore del Vangelo è la misericordia: “Quando ancora eravamo peccatori, Dio ha avuto misericordia. Gesù è diventato peccato, perché diventassimo giustizia di Dio per noi”.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Lo stesso è successo al tempo di Lutero: la misericordia fu sepolta sotto una montagna d’indulgenze.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Cos’è l’indulgenza? Il surrogato della misericordia di Dio. Quando non capisci più la misericordia ricorri alle indulgenze.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Ed è dimenticata anche in questo nostro presente.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Il Papa è stato bene ispirato a indire il ‘Giubileo Straordinario della Misericordia’, perché il nostro presente non ha solo dimenticato la misericordia di Dio, ma Dio stesso. Il Giubileo ci ricorda Dio, ci parla di Dio non della Chiesa.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">E’ urgente recuperare questa perdita del messaggio cristiano. E’ di questi giorni la esplosione della violenza omicida, che ha sconvolto le nostre anime. La pietà, la misericordia è morta. Bisogna predicare misericordia, è la cosa più urgente, anche se questa predicazione è una voce, come quella del Battista, che grida nel deserto. Ma c’è una promessa in Isaia 35: “Il deserto fiorirà come una rosa”. Quindi noi predichiamo nel deserto credendo che questo diventerà una rosa. Questa la nostra fede, non perché siamo cocciuti, ma perché prendiamo sui serio le promesse di Dio e non le nostre: solo Dio porta a compimento quanto dice o promette.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">E’ la prima volta che io, pastore valdese, non legato alla Chiesa Cattolica Romana, leggo, medito e porto con me la ‘bolla’, con la quale papa Francesco ha indetto il Giubileo. </span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Il documento va benissimo. I suoi primi 10 paragrafi sono eccellenti: si parla della misericordia di Dio e numerose sono le citazioni bibliche.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Giustamente Francesco dice che la misericordia non è dei cristiani ma degli ebrei (Antico Testamento) ed essa con Gesù raggiunge il suo culmine (Nuov. Testamento).</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Mi ha sempre colpito che il popolo ebraico, martire anche per colpa nostra, in tutto il corso della storia, anche prima di Gesù, oppresso, umiliato ed esiliato, è il popolo che canta la misericordia di Dio in una maceria suprema. Se c’è un popolo debitore della misericordia di Dio per le batoste, i dolori, le umiliazioni ricevute, proprio da quel popolo noi impariamo cosa significa misericordia.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Per la parte biblica la ‘bolla’ di Francesco va benissimo.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Per quanto riguarda la nostra parte, la protestante, ho pensato di puntualizzare due momenti in cui c’è stata l’esperienza della misericordia di Dio:</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> · la misericordia di Lutero, che chiamo scoperta;</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> · la misericordia INVOCATA quando nel 1945 la Chiesa Evangelica tedesca confessò il proprio peccato commesso sotto Hitler e chiese pietà</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">.</i><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Primo momento</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> –La Riforma, detta protestante consiste nella riscoperta della misericordia. Questa riscoperta viene raccontata proprio da Lutero nel ‘500 in un suo libro sulla scoperta dell’Evangelo.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Egli, relativamente alle difficoltà incontrate per intendere rettamente il versetto di Paolo “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Il giusto vivrà mediante la fede</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">”(Rm 1, 16-17), afferma:</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">- Io combattevo la giustizia ovvero l’interpretazione razionale, filosofica insegnatami in seminario come giustizia da rendere a Dio tramite le mie opere. Ma queste non erano mai sufficienti. E protestavo con Dio dicendo: “La vita è già così difficile e Tu, Dio, me la rendi ancora senza speranza?” Io odiavo questo versetto. Ma Dio ebbe pietà di me e mi rivelò il nesso tra la giustizia di Dio e il versetto stesso.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">E allora questa giustizia di Dio non è quella che Egli mi chiede, ma che io non ho. Essa è la giustizia di Cristo per il peccato. Allora questa espressione, così tanto odiata da me, è diventata la più bella di tutta la Bibbia, perché per la giustizia di Dio il manto di misericordia è sì presente sull’uomo anche se peccatore: misericordia immeritata, incondizionata, senza alcun patto da parte di Dio, senza alcun </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">do ut des, </i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">gratuita.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">E’ per questo che Lutero polemizzò contro le indulgenze.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">I Giubilei, cosiddetti anni santi, furono creati nel 1300 da papa Bonifacio VIII per diffondere le indulgenze.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">La ‘bolla’ di indizione del Giubileo del 1500 parlava esclusivamente delle indulgenze. Invece dei venticinque paragrafi della bolla di papa Francesco del 2015 solo uno è dedicato alle indulgenze, e questo fa piacere ai Riformati, e se quest’unico paragrafo venisse cancellato, non si toglierebbe nulla alla validità del documento.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">L’indulgenza diventa superflua se credi nella misericordia divina.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">I cattolici credono che il sacramento della confessione cancella la colpa del peccato, ma ne rimane l’impronta negativa: da qui il valore che viene attribuito all’indulgenza che cancella la pena.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Invece la misericordia di Dio cancella colpa e pena:il peccatore diventa libero, deve soltanto essere GRATO al Signore. L’esperienza della misericordia è da considerarsi come fonte della LIBERTA’ del cristiano, essa è gratuita, non pagata dalle indulgenze. Significativo l’uso da parte dei cattolici dell’espressione: LUCRARE le indulgenze. Lucro è il guadagno o profitto, come indicato nel mondo commerciale. </span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Secondo momento </i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">– Nel 1945 c’è stata la confessione di peccato da parte della chiesa luterana tedesca, la quale confessione, se letta oggi, sembra molto blanda, in quanto non contiene una sola parola sulla shoah. Questo perché non c’era ancora la consapevolezza della strage avvenuta. Si sapeva dell’esistenza di campi di lavoro e non di sterminio.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">La chiesa luterana confessò di non essere stata testimone sotto la dittatura di Hitler.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">C’è stata una Chiesa protestante e anche cattolica non testimone, ma è stata una minoranza.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Possiamo predicare la misericordia, pane dell’anima,solo se prima la invochiamo su di noi. Questa è l’importanza della confessione di colpa della Chiesa protestante su di sé, perché aveva molto da farsi perdonare. E molto deve farsi perdonare l’intera Chiesa.»</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Questo il discorso del pastore valdese Paolo Ricca nell’incontro suddetto,discorso che si è rivelato veramente “una preziosa occasione per riflettere sull’importanza del ‘Giubileo della Misericordia”, come era stato preannunciato dall’Associazione ecumenica OIKOS.</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Intanto sul quotidiano LA STAMPA del 30.11.2015 Gianni Gennari nel suo articolo “Giubileo in Centrafrica, il grido di misericordia del Papa”, riferendosi a domenica 29.11.2015,fra l’altro riferisce:</span><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">«Francesco apre la porta del Giubileo a Bangui, in Centrafrica, e dà l’annuncio della Misericordia in un modo inequivocabile, e lo fa non parlando di sé, ma di Gesù: “Gesù ci insegna che il Padre celeste fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt. 5,45). Dopo aver avuto noi stessi l’esperienza del perdono, dobbiamo perdonare. Ecco la nostra vocazione fondamentale: “Voi, dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt. 5, 48). Gli operatori di evangelizzazione devono dunque essere prima di tutto artigiani del perdono, specialisti della riconciliazione, esperti della misericordia.»</span></span><br />
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"><br /></span></span>
<div style="text-align: right;">
<span style="font-family: Arial, Helvetica, sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"><b>Pietro Congedo</b></span></span></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-40360547853211678142016-01-12T20:41:00.002+01:002016-02-02T12:18:16.326+01:00Rinnovamento rinascimentale della Chiesa<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br /></span>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgT5er2cDWxj2BGzqyw2t_W6_TcMdbaTJacVXw6jBPUH8_0I-AqRNp6H1O9Mp1x4c66WXjlSovH63uJ5KdQYHq783iNEdOPFa9YW2Tyw28AnJj-FoXqsyP0_6PypDAi0R2cYrcEkevvfn5L/s1600/lutero.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"></span></a></div>
<div style="text-align: center;">
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjQwqmux8tkcZ2MBD45yQjRDuG2NVNDqgUPabqNH9KI8YtTsShQ7rBCVWAyB_Aew-tOO1-jMvgBM1a2P2OoSpN6bqp4XviDcEl84hhQWVRaxYnRwBd_f_9dAWrhMzPw7pd-s1LFCIkqnsbO/s1600/Luther-posting-95-theses2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="261" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjQwqmux8tkcZ2MBD45yQjRDuG2NVNDqgUPabqNH9KI8YtTsShQ7rBCVWAyB_Aew-tOO1-jMvgBM1a2P2OoSpN6bqp4XviDcEl84hhQWVRaxYnRwBd_f_9dAWrhMzPw7pd-s1LFCIkqnsbO/s400/Luther-posting-95-theses2.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Lutero affigge le 95 tesi sulle porte della chiesa del castello di Wittemberg</td></tr>
</tbody></table>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br /></span></div>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Pietro Colonna detto il Galatino (1460 ca. –1540 ca.) nei suoi scritti si mostra abbastanza consapevole dei guai della Chiesa, ossia dei mali ad essa provocati dagli stessi ecclesiastici, ma non traccia un concreto piano di riforma per la stessa sacra istituzione: soltanto propone una serie d’iniziative, attuando le quali l’Angelico Pastore, ossia l’atteso pontefice delle profezie,avrebbe ricondotto la Chiesa alla povertà e al servizio di Dio.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Egli nelle due sue opere “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">De septem Ecclesiae tum temporibus tum statibus</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">”(1523) e “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">De Sacra Scriptura recte interpretanda</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">” (1526) fa menzione del monaco riformatore Martino Lutero (1483 – 1546):</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">· nella prima, riferendosi ai bizantini scismatici, che a capo delle chiese nazionali preferivano al Sommo Pontefice i Principi secolari (V. scisma d’Oriente del 1054),afferma: “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">ut hodie Martinus Lutherus haereticorum pessimus impiissime facit</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">”(come fa ora oltremodo empiamente il pessimo Martino Lutero);</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">· nella seconda, rivolgendosi al re d’Inghilterra Enrico VIII, al quale l’opera era stata dedicata perché considerato</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">defensor fidei</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> da papa Leone X, in quanto aveva scritto un libro contro Lutero, afferma: “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">impiissimam Martini Lutheri haeresim ita adamussim praeclare illo tuo opere confutasti, ut nec Thomas ille Aquinas, nec Scotus ipse rectius refellere potuissent</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">” (l’eresia oltremodo empia di Martino Lutero tu hai confutato nella tua opera molto bene, così come né Tommaso d’Aquino né lo stesso Scoto avrebbero potuto riferire).</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">A questo punto sorge spontanea la domanda: perché il minorita fra Pietro Galatino riteneva l’agostiniano Lutero pessimo soggetto e la sua dottrina oltremodo empia?</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Per rispondere può essere utile la presentazione del personaggio e della sua riforma.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Martino Lutero, nato nel 1483 a Eisleben (città tedesca del land Sassonia-Anhalt) era figlio di un minatore che si era arricchito e, dopo i primi studi effettuati anche a Magdeburgo, entrò a 17 anni all’Università di Erfurt e nel 1505 vi conseguì il diploma di</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> magister artium. </i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Iniziò poi gli studi giuridici, ma li interruppe subito per entrare nel monastero degli agostiniani osservanti di Erfurt, dove fu ordinato sacerdote nel 1507. Dedicatosi poi agli studi di teologia nell’Università di Wittenberg, fondata dal principe elettore di Sassonia Federico III detto il Savio, vi conseguì la laurea nel 1511. Intanto nel novembre del 1510, essendo stato inviato a Roma in rappresentanza di sette monasteri agostiniani, aveva potuto osservare da vicino la vita religiosa della capitale della cristianità, rimanendo profondamente colpito dai costumi mondani del clero romano, del quale trovò particolarmente allarmante la disinvolta pratica della simonia. Allora sedeva sul soglio pontificio Leone X che, essendo impegnato nel grandioso progetto di rifacimento della basilica di San Pietro in Roma e avendo, perciò, contratto un enorme debito con banchieri tedeschi, non aveva esitato ad autorizzare un’intensa campagna di vendita delle indulgenze anche per i defunti, bandita in tutte le diocesi.</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Tornato a Erfurt, fu professore di filosofia morale a Wittenberg, dove completò gli studi di teologia acquisendo il dottorato nel 1512 e ottenendo in seguito la cattedra di teologia biblica che tenne fino alla morte.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Predicatore e professore instancabile, i suoi studi sul Nuovo Testamento lo indussero ad affermare che i cristiani non ottengono la salvezza per meriti propri, ma per grazia divina da essi accettata per fede.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Egli, relativamente alle difficoltà incontrate per intendere rettamente il versetto di Paolo “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Il giusto vivrà mediante la fede</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">” (Rm 1, 16-17), soleva dire: «Io mi dibattevo per comprendere il concetto di giustizia secondo l’interpretazione razionale, filosofica insegnatami in seminario come giustizia da rendere a Dio tramite le mie opere. Ma queste non erano mai sufficienti. E protestavo con Dio dicendo: “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">La vita è già così difficile e Tu, Dio, me la rendi ancora senza speranza?” Io odiavo questo versetto paolino. Ma Dio ebbe pietà di me e mi rivelò il nesso tra la giustizia di Dio e la fede.</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">»</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">[Paolo nella Lettera a Tito 3, 4-5 esprime più esplicitamente lo stesso concetto, di cui in Rm 1, 16-17, scrivendo “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">.”– (V. Liturgia della Parola della Messa dell’aurora - Natale del Signore 2015)].</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Questa scoperta fu decisiva nella vita di Lutero, tanto da fargli rigettare alcuni dogmi fondamentali della Chiesa cattolica.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Innanzitutto egli intraprese una energica azione contro la sopraccitata vendita di indulgenze mediantela “</span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">” (Discussione sulla dichiarazione del potere delle indulgenze), nota anche come Le 95 tesi proposte alla pubblica discussione e, quindi, inviate il 31 ottobre 1517 ai vescovi interessati, i quali non risposero. Perciò Lutero affisse il lungo elenco delle tesi tradotto in tedesco alla porta della chiesa del castello di Wittemberg, in vista di pubbliche assemblee, nelle quali egli le avrebbe dimostrate, come allora solitamente avveniva nei centri universitari.</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Tutto questo provocò l’intervento della Curia romana che, dopo aver convocato il monaco agostiniano dinanzi al cardinale legato Tommaso De Vio e dopo un confronto a Lipsia nel 1519 con il teologo JohannesEck, ne condannò l’insegnamento il 15 giugno 1520 con la bolla papale Exsurge Domine, imponendogli, sotto pena di scomunica, la ritrattazione delle tesi. Lutero rifiutò, sostenendo che le proprie convinzioni derivavano dalla Sacra Scrittura e che nessuno era tenuto ad agire contro la propria coscienza. Il 10 dicembre1520 egli bruciò la bolla papale e perciò il 3 gennaio 1521 fu scomunicato da Leone X con la bolla Decet Romanum Pontificem.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Lutero venne invitato comunque alla dieta imperiale di Worms, ma il 18 aprile 1521 davanti a Carlo V rifiutò ancora una volta di ritrattare a meno di essere convinto “mediante la Scrittura e la chiara ragione”.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> La frattura della Chiesa era ormai definitivamente consumata: il 26 aprile l’editto di Worms mise il monaco agostiniano al bando dall’Impero, e mentre rientrava a Wittenberg il principe Federico III il Savio fece simulare un suo rapimento, mettendolo in salvo nella fortezza di Wartburg, dov’egli tradusse in tedesco dal greco il Nuovo Testamento (1522), e nel </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">De votis monasticis</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"> prese posizione contro il monachesimo, enunciando la tipica concezione luterana della vocazione cristiana da realizzarsi nella vita familiare, lavorativa, civile ed ecclesiale.</span></span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">La Riforma Luterana fu avversata duramente da Carlo V e da alcuni principi tedeschi, ma altri principi e alcune città l’accolsero, e i sentimenti antiromani conquistarono comunque vasti strati di popolazioni.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Nonostante la stessa andasse assumendo anche carattere politico, Lutero era e restava un religioso: la sua opera sarebbe stata rivolta d’allora in poi all’edificazione della Chiesa Evangelica (Lutero non volle mai che si parlasse di Chiesa luterana) e dalla precisazione della sua dottrina sulla base dell’articolo fondamentale, la giustificazione per fede e dei suoi segni efficaci, l’Annuncio della Parola, il Battesimo e la Cena del Signore.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Lutero, dopo 16 mesi trascorsi a Wartburg, tornò a Wittenberg e riprese l’insegnamento per difendere la propria dottrina dalle interpretazioni più radicali ed estremistiche della riforma religiosa. Nel frattempo i conventi si svuotavano, i preti si sposavano e i riformatori sotto la guida del docente universitario Andrea Carlostadio avevano provocato tumulti iconoclastici.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Egli cercò di placare gli animi, allontanando Carlostadio e affrontando la grave deviazione rappresentata da Th. Münster, il quale, subordinando il valore della Scrittura all’ispirazione diretta dello Spirito Santo e fondando una Chiesa di eletti chiamati ad instaurare il regno di Dio sulla terra e a sterminare gli empi, si era messo a capo di un moto di contadini dedito all’incendio e al saccheggio. E Lutero, inizialmente favorevole alle rivendicazioni dei contadini, si irrigidì però di fronte alle violenze ed alla pretesa di giustificarle col Vangelo. D’altronde già nel 1523 egli in un suo scritto aveva ribadito che le ribellione all’autorità politica si giustifica solo quando essa minacci la coscienza cristiana. Pertanto, dopo vari appelli alla pace chiese ed ottenne l’appoggio dei Principi che soffocarono nel sangue la rivolta e giustiziarono Münster (1526).</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Scomunicato e bandito, Lutero non poté difendere di persona la sua dottrina alla Dieta di Augusta, perciò affidò a Filippo Melantone, umanista e grecista divenuto il suo più devoto amico e stretto collaboratore, il testo di difesa che aveva preparato, noto come la Confessione di Augusta(1530), la quale costituisce ancora oggi la base del luteranesimo insieme agli “Articoli di Smalcalda” da lui stesso redatti.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">La “Confessione di Augusta” ha inizio con la frase “Publice protestamur…” che, sebbene significhi “Dichiariamo pubblicamente….” ha invece originato il termine protestanti,usualmente utilizzato in maniera impropria per indicare i “cristiani evangelici”.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Altre fondamentali opere di Lutero sono: “Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca”(1520), “Sulla cattività Babilonese della Chiesa”(1520), “Sulla libertà del cristiano”(1520), “De servo arbitrio”(1525) e il notissimo “Piccolo Catechismo”(1529)</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Egli nel 1534 completò la traduzione in tedesco dall’ebraico dell’Antico Testamento. Nel frattempo la sua fama si era diffusa in tutta Europa e il suo invito ai Principi perché si rendessero indipendenti dall’autorità ecclesiastica trovò ampi consensi. Proprio nel 1534 si allontanò dall’ortodossia Enrico VIII, re d’Inghilterra, al quale Pietro Galatino nel 1526 aveva dedicato una sua opera, come già detto all’inizio di questo scritto.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">Nel 1537 Lutero, oppresso da problemi di salute, si dedicò prevalentemente a scritti polemici. Preoccupato dalla Controriforma cattolica avviata da papa Paolo III [Concilio di Trento (1515 – 1563)] e per quello che interpretò come un tentativo degli ebrei di approfittare della disputa religiosa dei cristiani per riaprire la questione del messianismo di Cristo,ingaggiò una polemica violenta contro di essi, contro il papato e contro i riformatori più radicali. </span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">All’inizio del 1546 fu chiamato a Mansfeld per risolvere il contrasto fra due Principi locali; riuscì nell’impresa ma, in seguito al peggioramento del suo stato di salute, si spense il 18 febbraio 1546 a Eisleben, la sua città natale, che presto divenne Eisleben Lutherstadt.</span><br />
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><br style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;" /></span>
<span style="font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">In questo rinnovamento della Chiesa effettuato da Lutero risultano evidenti i numerosi motivi per i quali il nostro Pietro Galatino, immerso com’era nella ortodossia cattolica, non poteva assolutamente usare neppure una minima tolleranza nei riguardi di colui che, in netta opposizione al pontefice romano Leone X, aveva nel giro di pochi anni (approssimativamente dal1517 al 1530) edificato la Chiesa Evangelica,alla quale aveva aderito perfino il re d’Inghilterra, Enrico VIII, già definito dal papa </span><i style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">defensor fidei</i><span style="background-color: white; color: #333333; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;">.</span></span><br />
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"><br /></span>
<br />
<div style="text-align: right;">
<span style="background-color: white; color: #333333; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif; font-size: 13px; line-height: 18.5714px;"><b>Pietro Congedo</b></span></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-71277413359697900092015-12-20T19:11:00.001+01:002015-12-20T19:18:39.560+01:00La Questione Meridionale e Galatina<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtlswKvdWLq1xdUXaYRcPujv0CWAlLNLfabok5ac-qzEYBVeuZ_CRvbXnTiieHcOtwt6E5svMVzna47eflOgsZui0H2hrkNp46pJdzPTi2biz7V0ee-J1pWUPNpio17JbY4dAEGJWk1wVg/s1600/cremonesini_cristante.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtlswKvdWLq1xdUXaYRcPujv0CWAlLNLfabok5ac-qzEYBVeuZ_CRvbXnTiieHcOtwt6E5svMVzna47eflOgsZui0H2hrkNp46pJdzPTi2biz7V0ee-J1pWUPNpio17JbY4dAEGJWk1wVg/s400/cremonesini_cristante.jpg" width="259" /></a></div>
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<br />
Antonio Errico nel suo articolo “Come salvare la parte cattiva dell’Italia” (v. Nuovo Quotidiano di Puglia/Lecce del 06.12.2015) scrive che, appena ha cominciato a leggere il poderoso saggio “La parte cattiva dell’Italia/Sud media e immaginario collettivo” (Editore Mimesis, ottobre 2015), scritto da due docenti dell’Università del Salento, Valentina Cremonesini e Stefano Cristante, è andato subito col pensiero all’opera “Terzo Sud”, pubblicata nel 1968 dal compianto Aldo Bello, il quale già allora sosteneva che scrittori e giornalisti che parlavano del Sud, in effetti sfioravano appena il problema della “questione meridionale”, in quanto non andavano oltre la semplice citazione di tutta una serie di luoghi comuni negativi: arretratezza, malgoverno, corruzione, criminalità organizzata, parassitismo ecc.. In altri termini già mezzo secolo fa si andava spegnendo l’interesse dei media per il degrado economico, politico, sociale e culturale del Sud d’Italia. <br />
<br />
Egli poi, considerato che nel primo quindicennio del XXI secolo nulla è cambiato, continua dicendo che il volume di Cremonesini e Cristante ha, invece, altre finalità, altre qualità, altro spessore: è un’analisi che mostra com’è veramente il Sud. Gli strumenti usati sono quelli di un’accurata ricerca sociologica, a cui hanno contribuito altri studiosi, la quale prende in esame un trentennio di edizioni del TG1 e dei quotidiani Corriere delle Sera e Repubblica nonché alcune fiction televisive, pellicole del cinema, siti web e interviste a intellettuali. Si arriva così a stabilire che negli ultimi sei decenni il racconto del Sud ha occupato sempre meno spazio, appiattendosi viepiù sui sopraccitati luoghi comuni. Ne è emerso uno scenario complesso, dal quale si può enucleare una sorta di transizione dalla “questione meridionale” al “fattore M”, cioè a una rappresentazione negativa di un Sud, su cui non vale più la pena di interrogarsi, poiché il permanente degrado economico, sociale e culturale è prodotto da una serie di processi intrecciati e complessi. In particolare la Lega Nord per circa un ventennio è riuscita ad imporre un’artificiosa e completamente inventata “questione settentrionale”, come se il reddito pro-capite del Settentrione non fosse il doppio di quello del Mezzogiorno, e questo non inviasse al Nord laureati e manodopera qualificata e nello stesso tempo non spendesse da sempre presso aziende ed imprenditori settentrionali buona parte dei finanziamenti ricevuti dallo Stato. <br />
<br />
Detta transizione dalla “questione meridionale” all’irrilevante “fattore M” è avvenuta e persiste nonostante la SVIMEZ (associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno) presenti ogni anno un suo rapporto, assolutamente non trascurabile.<br />
<br />
Il rapporto SVIMEZ 2015 (pubblicato il 30 luglio u.s. ossia almeno due mesi prima che uscisse il libro di Cremonesini e Cristante) è stato molto opportunamente presentato da Marco Damilano, su “l’Espresso” del 10 settembre u.s., con l’agghiacciante titolo: E’ sparito il Sud.<br />
<br />
In detto rapporto, infatti, si rileva fra l’altro quanto segue:<br />
· dal 2000 al 2013 il Sud d’Italia è cresciuto del 13%, mentre la Grecia ha segnato addirittura un +24%, nonostante i suoi enormi problemi;<br />
<br />
<ul>
<li>in ordine alla crescita economica nel Sud si registrano oltre 40 punti percentuali in meno rispetto alla media +56,6% delle regioni Convergenza dell’Europa a 28;</li>
<li>è in atto un vero e proprio tsunami demografico, per effetto del quale il Sud è destinato a perdere 4.200.000 abitanti nei prossimi 50 anni, poiché in esso il tasso di fecondità è sceso a 1,31 figli per donna, ben distanti dai 2,1 necessari a garantire la stabilità demografica e comunque inferiore all’1,43 del Centro-Nord; a tal proposito si tenga presente che nell’anno 2014 nel Meridione ci sono state 174.000 nascite, livello al minimo storico registrato 150 anni fa, cioè quando e nata l’Italia unita;</li>
<li>il 62% dei meridionali guadagna meno 12.000 euro annui contro il 28,5% degli abitanti del Centro-Nord, ne deriva che al Sud una persona su tre è a rischio povertà, mentre al Nord corre tale pericolo una su dieci.</li>
</ul>
<br />
Considerate la concretezza e l’inoppugnabilità del rapporto SVIMEZ, tornano ad imporsi sulla scena della vita pubblica e nel dibattito politico i veri, autentici, storici problemi territoriali italiani: la “Questione Meridionale”.<br />
<br />
La modestissima se non addirittura inesistente crescita economica, il consistente calo demografico, il rischio povertà e il degrado generale sono fenomeni ben presenti in Galatina, la quale d’altra parte è arrivata al 2000 avendo già perdute le buone caratteristiche socio-economiche acquisite nei secoli passati, per cui non può più essere considerata città, come dimostrato in altra circostanza (V. Galatina è ancora città?, articolo pubblicato il 6 luglio 2014 dal quotidiano online Galatina2000.it).<br />
<br />
E come se non bastasse un ulteriore scadimento è recentemente avvalorato da fatti come quelli esposti qui di seguito. <br />
<br />
<ul>
<li>La Fondazione Agnelli, che dal 2008 fa ricerche sulla Scuola, con il suo progetto “Eduscopio.it/confronto, scelgo, studio” ha stabilito da quali scuole secondarie provengono gli studenti di Lecce e Provincia, che conseguono migliori risultati all'università, mettendo così bene in evidenza che per nessun tipo di scuola di Galatina, antico importante centro di studi, è al primo posto: il Liceo Classico P. Colonna (che nel corrente a. s. ha una sola prima classe) è al terzo posto, il Liceo Scientifico e Linguistico A. Vallone e in quinta posizione, mentre l’Istituto Tecnico Commerciale M. La Porta è addirittura all'ottavo posto, ossia al penultimo.</li>
<li>L’Ospedale S. Caterina Novella, un tempo fiore all'occhiello della Città, è costantemente in difficoltà per le sciagurate scelte regionali. Pertanto “…Viene da pensare che, con la scusa del piano di rientro e del contenimento della spesa, si è attuata una politica decisionale che ha pianificato di lasciare in agonia l’ospedale di Galatina fino alla chiusura definitiva. In questa visione troverebbero giustificazioni i finanziamenti mai arrivati, gli organici dei reparti dimezzati, i lavori prima cantierizzati poi interrotti e mai portati a termine. … .” (V. Articolo apparso sul quotidiano online Galatina.it del 9 dicembre u.s.).</li>
</ul>
<br />
Di questo passo la nostra Galatina rischia di finire nel sud del Sud d’Italia. Per cominciare a risalire la china dovrebbero esserci in Municipio amministratori e dirigenti attivi e all'altezza del proprio compito. Invece quelli attualmente in carica, che sarebbero del Partito Democratico, sembrano “impegnati” a consegnare la civica amministrazione a chissà quale forza politica emergente. Infatti non si degnano di prendere in considerazione neppure uno dei 10 punti del <i>Cahier de doléances</i> che puntualmente appare nella prima pagina di ogni numero del quindicinale "il galatino".<br />
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Pietro Congedo</div>
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<br />Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-38084269732148783542015-11-28T20:02:00.002+01:002015-11-29T12:28:19.037+01:00Pietro Colonna detto "Il Galatino" - parte seconda<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTzDkMpyzsvRieHiWOjetRVbFcZh692pLQ5-1U04WAFFR_3_njUzCaxBwNKa7_Bbl6cjwWSyaoQnYUUXghjZpyIH4JESRiPibIzGjv7gHM9JKt64OXinx5eL25zyMNDAdULyZHLPCGELlX/s1600/galatino_01.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="220" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTzDkMpyzsvRieHiWOjetRVbFcZh692pLQ5-1U04WAFFR_3_njUzCaxBwNKa7_Bbl6cjwWSyaoQnYUUXghjZpyIH4JESRiPibIzGjv7gHM9JKt64OXinx5eL25zyMNDAdULyZHLPCGELlX/s400/galatino_01.JPG" width="400" /></a></div>
<br /></div>
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<b>Le opere di Pietro Galatino</b><br />
Pietro Galatino dell’Ordine dei Frati Minori nel 1506 dedica al re di Spagna, Ferdinando II il Cattolico, che aveva occupato Napoli, l’opera “De optimi principis”.<br />
<br />
Scrive nel 1507 la “Espositio dulcissimi nominis tetragrammaton”, sulla questione relativa alla pronunzia del nome ebraico di Dio, e dopo produce le opere indicate qui di seguito, adottando quasi sempre il criterio base della sua esegesi, che consiste nell’ interpretare tutta la S. Scrittura come riferita a Cristo e alla Chiesa.<br />
<br />
Nel 1515 pubblica sia la “Oratio De Circumcisione Dominica” sul mistero della Circoncisione di Gesù, letta il 1° gennaio alla presenza di papa Leone X, sia la “Epistola ad Reuchlin”, indirizzata al grecista tedesco Giovanni Reuchlin, nella quale con ricercata eleganza annunzia la sua prossima opera, dedicata all’Imperatore Massimiliano I ed intitolata “De arcanis catholicae veritatis”(*). Quest’ultima, terminata nel 1516, è l’unico scritto che lo stesso autore fece stampare, ad Ortona a Mare (CH) nel 1518, sotto gli auspici della duchessa di Bari Isabella d’Aragona. Quindi è anche il suo scritto più noto e diffuso. Si compone di dodici libri e dopo la morte dell’autore è stato anche pubblicato a Basilea (2 volte), a Parigi nel 1603 e a Francoforte (3 volte). Una copia dell’edizione 1518 è nella Biblioteca di Galatina. Nelle edizioni postume la stessa compare unita al De arte cabalistica di Reuchlin.<br />
<br />
Il “De arcanis…” è redatto in forma di dialogo, di cui sono interlocutori lo stesso autore (Galatinus), il Reuchlin (Capsius) e Giacomo Hochstratem, inquisitor fidei, al quale lo stesso Reuchlin è stato deferito (Hogostratos). Quest’ultimo sostiene che tutti i libri usati dagli ebrei debbano essere respinti, perché nessuno di essi giova al Cristianesimo, gli si oppongono i primi due con un serrato ragionamento, tendente a dimostrare che quei libri sono invece utili in quanto forniscono argomenti comprovanti la verità delle dottrina cattolica.<br />
Ne viene fuori un commentario esegetico, teologico e mistico di Bibbia e Talmud. <br />
<br />
Scrive nel 1519 il “Libellus de morte consolatorius ad Leone X”, in occasione della morte del duca di Urbino, Lorenzo dei Medici, nipote del pontefice.<br />
<br />
E’ del 1521 il “De repubblica christiana”, opuscolo dedicato anch’esso a Leone X, nel quale sono dibattute questioni ascetico–formative. Infatti, considerate le condizioni morali ed intellettuali del clero, macchiato da ambizioni temporalistiche, da esasperato individualismo e vita frivola, si pensa che la Chiesa non solo richieda vescovi saggi, virtuosi e culturalmente illuminati, ma anche degni sacerdoti nonché dotti e santi religiosi. Proprio a questi ultimi competerebbe in modo specifico il ministero della predicazione, accompagnata questa da vita esemplare che offra testimonianza di buon esempio.<br />
<br />
Del 1522 è soltanto la “Oratio de dominica passione”, predica sulla passione di Gesù, tenuta il venerdì santo nella cappella del Papa.<br />
<br />
Sicuramente del 1523 è il “De septem Ecclesiae tum temporibus tum statibus”, dedicato al cardinale Francesco Quinones: è un’introduzione al commento dell’Apocalisse di qualche anno dopo; infatti vi si accenna alle sette epoche corrispondenti, secondo le interpretazioni mistiche, a sette diverse condizioni della Chiesa. In particolare, quando si parla dei bizantini scismatici, che preferiscono i Principi secolari al Sommo Pontefice, si accenna a Martin Lutero.<br />
Anteriore al 1524 è il “De Ecclesia destituta” (cioè abbandonata) , in 8 libri, nei quali si discute delle calamità della Chiesa attraverso l’interpretazione sia delle profezie bibliche che di quelle medioevali, facendo di queste larga menzione.<br />
<br />
E’ pure anteriore al 1524 il “De Ecclesia restituta” (cioè restaurata), in 5 libri, nei quali ricercando il senso mistico di alcuni Salmi, delle profezie bibliche e dell’Apocalisse, si conclude che la vera riforma della Chiesa potrà ottenersi col ritorno al suo stato originario.<br />
<br />
Sempre col criterio della lettura allegorica è stato compilato nel 1524 e dedicato all’imperatore Carlo V “Il commento dell’Apocalisse, in 10 libri, nei quali l’autore, pur riconoscendo il merito dei commentatori precedenti (soprattutto dell’abate Gioacchino da Fiore), sostiene che solo al suo tempo si sarebbero potute vedere chiare le allusioni agli ultimi avvenimenti. Con questa convinzione identifica nel settimo capo della bestia apocalittica l’Islamismo, che solo l’imperatore Carlo V avrebbe potuto recidere, riconducendo così tutte le genti alla religione cristiana.<br />
In questo testo è inserita la descrizione dell’eccidio di Otranto del 1480.<br />
Del 1525 è la “Vaticini Romani explicatio” che contiene l’interpretazione di un oscuro vaticinio, dato a Roma nel 1160.<br />
<br />
E’ stato compilato nel 1526 il “De Sacra Scriptura recte interpretanda”, che ha il sottotitolo “Ostium apertum” (la porta aperta), nel quale sono esposti i criteri da adottare per aprire la porta che nasconde agli occhi umani le verità scritturali più riposte, le quali si rivelano con modalità diverse da epoca a epoca, perché i misteri occultati dal senso letterale del testo si attuano nella storia a seconda dei tempi e delle persone; lo scritto è dedicato al re d’Inghilterra Enrico VIII. <br />
Di incerta datazione è il “De cognoscendis pestilendibus hominibus deque refellendis eorum versutiis” , in 2 libri e dedicato al cardinale Andrea della Valle, il quale scritto contiene una serie di consigli per difendersi dai malvagi.<br />
<br />
E’ del 1532 il “De SS. Eucharistiae sacramenti mysteriis” , il cui contenuto risulta evidente dal titolo.<br />
<br />
E’ certamente successiva al 1533 la “Emendatio opusculorum de mysteriis et de Domini nostri Iesu Christi generatione”, dedicata al vescovo Paolo Capizucchi, che aveva invitato l’autore a correggere e ridurre alla retta lezione i due opuscoli ebraici non ben tradotti in latino forse dall’aragonese Paolo de Heredia, maestro di Pico della Mirandola; se fossero state vere le ipotesi fatte dal Galatino in seguito alla emendatio, i due brevi scritti avrebbero avuto rara importanza storica e il secondo sarebbe stato composto addirittura nei giorni della passione di Gesù Cristo.<br />
<br />
E’ stato scritto dopo il 1534 il “De Ecclesia Instituta”, in 3 libri, nei quali l’autore, facendosi interprete dell’attesa generale dei cristiani che papa Paolo III compia l’auspicata riforma della Chiesa, delinea l’istituzione della stessa, interpretando i passi della S. Scrittura che si riferiscono alle sue fortunose vicende.<br />
<br />
Anche dopo 1534 sarebbero state scritte le due operette dedicate al cardinale Nicola Rodolfo, “De anima Intellectiva” e “De homine”: la prima tratta dell’essenza, della potenza e dell’immortalità dell’anima; nella seconda si parla della congiunzione dell’anima razionale al corpo e vi è chiarito il concetto dell’uomo considerato come un “microcosmo”.<br />
<br />
Dal 1534 il Galatino, ormai settantaquattrenne, si dedicava al vastissimo “De vera Theologia”, repertorio di scienza teologica rimasto nel 1539 incompleto dopo le prime cinque parti, già comprendenti circa cinquanta libri, nei quali, partendo dal concetto di Dio, passando per tutta la serie degli esseri creati fino all’uomo, viene trattata la sua caduta e della sua redenzione; inizia con la dedica a Paolo III ed alla V parte segue, come appendice, il trattatello “De idiomatum communicatione”. <br />
<br />
Intorno al 1539 è stata compilata l’opera “De Angelico Pastore”, riguardante l’atteso pontefice, dalle caratteristiche specificate in varie profezie, il quale avrebbe riformato la Chiesa, riconducendola alla povertà e al servizio di Dio.<br />
L’autore in questa sua opera raccoglie tutte le elucubrazioni sull’argomento, che aveva già espresse in vari suoi scritti.<br />
<br />
Dopo questa rassegna delle opere di Pietro Galatino, c’è da osservare che egli non traccia un piano concreto per la riforma della Chiesa. Infatti, benché nelle sue riflessioni si mostri consapevole degli errori commessi e dei mali provocati dagli ecclesiastici, conclude poi solo col proporre una serie d’iniziative di cambiamento, in base alle quali l’Angelico Pastore avrebbe potuto impostare un proprio piano di rinnovamento della Chiesa. Perciò la riforma tanto auspicata dal teologo francescano, finisce col rimanere vaga ed aleatoria nonché condizionata dalla figura dell’ipotetico Angelico Pastore.<br />
<br />
Invece egli poteva e doveva stimolare direttamente e con urgenza i Pontefici suoi contemporanei, su cui esercitava un certo ascendente, affinché programmassero e mettessero in atto concreti piani di riforma.<br />
<b><br /></b>
<b>Conclusioni</b><br />
<div>
A conclusione di questa presentazione della vita e delle opere del personaggio di fama mondiale, qual è stato Pietro Colonna, si ritiene opportuno accennare alla considerazione in cui lo stesso è stato ed è tuttora tenuto dai suoi conterranei.</div>
<br />
Il suo nome è reso noto a tutti da una Commissione Comunale, presieduta dal Sindaco pro tempore, la quale il 5 novembre 1873 compila un nuovo regolamento per il Ginnasio-Convitto di Galatina, che all’articolo 1 recita: “Lo stabilimento letterario sistente (sic) in Galatina prenderà da oggi innanzi il nome di Ginnasio-Convitto Galatino, in memoria dell’illustre cittadino Pietro Galatino”.<br />
<br />
Successivamente l’Istituto, con decreto 3 marzo 1898 del re Umberto I, è dichiarato ‘Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza’ ovvero ‘Opera Pia’. La Commissione Amministrativa di questa viene eletta dal Consiglio Comunale con delibera n. 50/1899, in cui compare per la prima volta la denominazione Pio Istituto Pietro Colonna detto il Galatino, poi usata nella forma ridotta Pio Istituto P. Colonna.<br />
<br />
Nella pratica con questa denominazione si è poi indicato tanto Scuola e Convitto quanto l’edificio ospitante gli stessi, cioè l’ex convento dei PP. Domenicani, ora “Palazzo della Cultura". Questo, dunque, è stato di fatto il “monumento” che nel XIX secolo gli amministratori comunali di Galatina hanno inteso erigere al grande concittadino Pietro Colonna.<br />
<br />
Purtroppo, però, dopo 123 anni amministratori comunali del XXI hanno con disinvoltura soppresso la ormai consolidata denominazione di detto edificio. Ma sanno costoro chi era Pietro Galatino? <br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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<span style="font-size: x-small;">(*) In effetti nella prima pagina di copertina c’è la seguente epigrafe, nella quale, eliminate le abbreviazioni con l’aggiunta delle lettere tra parentesi, si legge:</span><br />
<span style="font-size: x-small;">Opus toti christian(a)e Reipubblic(a)e maxime utile, de arcanis</span><br />
<span style="font-size: x-small;">chatholic(a)e veritatis contra obstinatissimam Iud(a)eoru(m)</span><br />
<span style="font-size: x-small;">nostr(a)e tempestatis perfidiam: ex Talmud aliisque</span><br />
<span style="font-size: x-small;">hebraicis libris nuper excerptun: & </span><br />
<span style="font-size: x-small;">quadruplici linguarum genere</span><br />
<span style="font-size: x-small;">eleganter cogestum</span><br />
<span style="font-size: x-small;">[Traduzione: L’opera più utile in tutto il mondo, riguardo ai misteri della verità cattolica contro l’ostinatissima perfidia dei giudei del nostro tempo: estratta ultimamente dal Talmud e da altri libri ebraici, scritta correttamente in quattro lingue.] </span><br />
<span style="font-size: x-small;">A questa epigrafe segue un epigramma in ebraico in lode dell’autore del libro </span><br />
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<br />Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1711613898679362067.post-6363325586060535712015-11-13T17:39:00.001+01:002015-11-18T13:17:04.666+01:00Pietro Colonna detto "Il Galatino" - parte prima<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFbnEpIA4si_11P1KiModS5xl5kQlY9tiOp1UnO9GVNZ1Rvt0-LKTEf7PGsV41UxSUcIfqLnYwy_NO8pxMU0tNaRgBnUgI0mtBnNyw-8ZmXfwDEVpuyXv2TtKv1vmGDOzw1ZuBHI5WcpeC/s1600/galatino_01.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="220" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFbnEpIA4si_11P1KiModS5xl5kQlY9tiOp1UnO9GVNZ1Rvt0-LKTEf7PGsV41UxSUcIfqLnYwy_NO8pxMU0tNaRgBnUgI0mtBnNyw-8ZmXfwDEVpuyXv2TtKv1vmGDOzw1ZuBHI5WcpeC/s400/galatino_01.JPG" width="400" /></a></div>
<br />
<b> Premessa </b><br />
Un’apposita commissione, della quale facevano parte Luigi Papadia (sindaco e presidente), Antonio Dolce, Pietro Garrisi e Giuseppe Galluccio, compilò il 5 novembre 1873 per il Ginnasio – Convitto di Galatina un nuovo regolamento, che all’art. 1 recitava testualmente: “Lo stabilimento letterario sistente (sic) in Galatina prenderà da oggi innanzi il nome di Ginnasio-Convitto Galatino, in memoria dell’illustre cittadino Pietro Galatino.”<br />
<br />
Con decreto 3 marzo 1898 il Ginnasio-Convitto Galatino venne dichiarato dal re Umberto I istituto pubblico di beneficenza (IPAB), ovvero opera pia. In seguito la Commissione Amministrativa dello stesso IPAB fu nominata dal Consiglio Comunale di Galatina con delibera n. 50 del 7 agosto 1999. In questa delibera compare per la prima volta la denominazione Pio Istituto Pietro Colonna detto il Galatino, usata poi nella forma ridotta Pio Istituto P. Colonna. Denominazione quest’ultima con cui è stato, quindi, sostituito nella pratica il nome Ginnasio-Convitto Galatino del 1873. <br />
<br />
Il nome del grande e famoso umanista italiano Pietro Colonna detto il Galatino è noto a tutti solo in quanto attribuito alle Scuole Classiche e all’annesso Convitto maschile di Galatina. Invece gli studiosi (in particolare i letterati, i filosofi e i teologi) conoscono bene di lui la singolare biografia e il grande valore delle numerose opere.<br />
<br />
Scopo di questo scritto è quello di dare anche al grande pubblico, specialmente a quello giovanile, la possibilità di venire a conoscenza, almeno per grandi linee, della vita e delle opere dell’illustre galatinese che fu teologo, filosofo ed esegeta di fama mondiale.<br />
<br />
<b> La vita</b><br />
Non si conosce con esattezza la denominazione del casato di Pietro Galatino, che si faceva chiamare in tal modo dal nome della città natale in quanto appartenente all’Ordine dei Frati Minori.<br />
<br />
Tuttavia il domenicano Alessandro Tommaso Arcudi, nella sua opera Galatina Letterata (Genova, 1709), con sicurezza afferma testualmente: “…Nacque in S. Pietro in Galatina da Filippo Colonna, famiglia estinta: ed una sorella, chiamata Leonarda, fu moglie di Antonio Arcudi…” . Opinione questa che, sebbene all’epoca fosse condivisa da altri autori, lo stesso A.T. Arcudi fu costretto a difendere strenuamente in polemica con l’abate Domenico De Angelis, autore dell’opera in due tomi “Le vite de’ Letterati Salentini” (Napoli , 1713), nella quale a pag. 213 è addirittura riportato il ritratto del Galatino con la scritta:<br />
<br />
“<i>Petro Mongiò vulgo dicto Galatino a S. Petro Galatinae. […]. </i><br />
<i> Dominicus de Angelis Lyciensis.</i>” <br />
<br />
L’Arcudi nel corso di detta polemica col De Angelis affermò anche che la madre del Galatino si chiamava Caterina Mollona.<br />
<br />
Intanto la tesi del De Angelis sembrava prevalere, in quanto il galatinese arcivescovo di Lanciano e poi vescovo di Pozzuoli, Lorenzo Mongiò (1551 – 1632), dichiarandosi pronipote del Galatino otteneva dal papa il permesso di trascriverne le opere, che si trovavano nella Biblioteca Vaticana. Ma a tal proposito l’Arcudi aveva già scritto che il suddetto Lorenzo Mongiò fosse “…pronepote del Galatino per via materna…”. <br />
<br />
Con accurate ricerche sulla denominazione del casato del personaggio in questione, lo storico Giancarlo Vallone ha demolito la tesi che la stessa fosse ‘Colonna’, ma senza accettare quella di ‘Mongiò’. Egli, Infatti, nel 1989 ha pubblicato un saggio dal titolo propositivo “Pietro S. Galatino”, nel quale in maniera adeguatamente documentata sostiene che la lettera iniziale del vero cognome del Galatino fosse una “S”, introduttiva di un cognome probabilmente albanese. Questo è stato poi confermato, sia pure con qualche riserva, dallo stesso Vallone in un suo articolo, pubblicato nel n. 5 /2013 della rivista ‘il filo di Aracne’. Tale conferma è avvenuta sulla base di uno scritto dell’artista galatinese Pietro Cavoti, rinvenuto nel museo di Galatina da Luigi Galante, dal quale scritto si apprende che il Galatino era figlio del soldato albanese Tho. Spanoi che, sbarcato in Calabria con l’esercito del condottiero Demetrio Reres, aveva disertato e, vagando senza fissa dimora, si era rifugiato, forse nel 1459, in Galatina. Qui fu assunto come domestico da persone benestanti e, messa su famiglia, ebbe dei figli, tra i quali Pietro Spanoi, il quale volle cambiare per sempre il proprio cognome con quello di Galatino, datogli dai francescani del Convento Santa Caterina, dove aveva iniziato i suoi studi.<br />
<br />
Tuttavia c’è chi sostiene che, mentre rifiutava il suo vero cognome, egli accettava o addirittura agevolava quello di Colonna, che, sebbene fosse insignificante in Galatina, era invece di gran prestigio a Roma, dove visse a lungo. Tra coloro che sostengono questa tesi c’è anche l’orientalista Giuseppe Gabrieli (1872-1942) di Calimera (LE).<br />
<br />
La data di nascita di Pietro Galatino, prima variamente indicata dai biografi, è stato poi possibile fissarla con sufficiente approssimazione al 1460, in quanto egli nel dedicare intorno al 1539 una sua opera al vescovo di Nicastro (CZ) dichiarava di avere 79 anni, e sottraendo il numero 79 da 1539 si ottiene appunto 1460.<br />
<br />
Giovanissimo prese l’abito francescano dei Frati Minori nel Convento di Santa Caterina, fondato in Galatina da Raimondello del Balzo Orsini alla fine del XIV secolo. Ivi rimase almeno fino al 1480, infatti a proposito dell’eccidio di Otranto, che avvenne in quell’anno, in un suo scritto dichiarò: “…Pauca referam, quae oculis vidi… . ” […Riferirò le poche cose che vidi con i (miei) occhi… .]. Ma non molto tempo dopo i suoi superiori, per l’eccezionale intelligenza e per la ferma volontà di proseguire gli studi da lui dimostrate, lo mandarono a Roma, dove rimase per quasi tutta la vita, allontanandosene solo per non lunghi periodi.<br />
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Infatti nel 1492 fu a Taranto, dove potette osservare il testo della profezia di San Cataldo; a gennaio del 1506 fu a Napoli per fare omaggio al re Ferdinando il Cattolico della sua opera “De optimi principis diademate” con la seguente dedica: “ Prego dunque che la tua maestà si degni di accettare il mio piccolo dono con volto benevolo (come è tua abitudine) e che consideri affidati alla tua benevolenza me, il mio Ordine del quale sei molto devoto, la stessa mia patria(*) e tutto questo regno”.<br />
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Dimorò a Bari, in qualità di Ministro dei Frati Minori della “Provincia Apulia”, intitolata a San Nicola, nell’ultima fase unitaria dell’Ordine minoritico, cioè prima che papa Leone X, successore di Giulio II, separasse con la bolla “Ite vos” (29 maggio 1517) i Frati Minori Osservanti dai Frati Minori Conventuali.<br />
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Dal 1536 al 1539 fu ancora Ministro provinciale dei Frati Minori Osservanti.<br />
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Il Galatino, stando a Roma, alla perfetta conoscenza del latino e del greco aggiunse quella della lingua ebraica, in cui acquistò una tale pratica da essere creduto egli stesso un ebreo convertito. Studiò anche l’etiopico con Giovanni Potken.<br />
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Per questa larga conoscenza delle lingue si congratularono con lui da una parte l’imperatore Massimiliano I, fautore dello studio delle lingue orientali per la propaganda della fede, dall’altra l’arcivescovo titolare di Nazaret Giorgio de Salviatis. Della stessa conoscenza egli si servì per l’interpretazione dei sacri testi.<br />
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Tuttavia, frequentando il circolo romano che si raccoglieva intorno al cardinale Egidio Canisio da Viterbo, apprese anche la cabala, cioè la divinazione del futuro a mezzo di lettere, numeri, figure o sogni, appassionandosene tanto da non sapersi più sottrarre all'influsso delle preoccupazioni criptografiche che essa gli suggeriva.<br />
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E’ probabile che il Galatino abbia esercitato il magistero di Teologia e di lingua greca. Mentre è certo che egli abbia tenuto l’ufficio di Penitenziere apostolico della Basilica di S. Pietro e che sia stato cappellano prima del Cardinale Lorenzo Puccio e dal 1531 del cardinale Francesco Quinones.<br />
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Questa preminente posizione in Roma gli consentì di contrarre autorevoli amicizie. In particolare entrò in relazione con i pontefici Leone X e Paolo III, dei quali fu anche commensale, e fu in corrispondenza, oltre che con l’imperatore Massimiliano I e il re Ferdinando il Cattolico, con Carlo V , Enrico VIII d’Inghilterra e con i più celebri umanisti del suo tempo.<br />
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Il Galatino ebbe in vita grandissima fama come teologo, filosofo, esegeta, tanto da essere esaltato in versi latini ed ebraici, e il noto grecista tedesco Giovanni Reuchlin lo salutava “doctissime ac disertissime, gemma ordinis Minorum”.<br />
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Tale fama declinò, però, dopo la sua morte che avvenne probabilmente nel 1540, in quanto sappiamo che lasciò incompleto il trattato De vera Theologia, al quale lavorava in anni successivi al 1536, mentre Luca Wadding, storico dell’Ordine francescano, riferendosi all’anno 1539 afferma: “vivebat in hoc anno in senili iam aetate frater Petrus”.<br />
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Quindi egli morì all’età di circa ottanta anni e fu sepolto nella chiesa di Aracoeli in Roma, dove volle che fossero custoditi i suoi manoscritti, che tuttavia furono poi trasferiti nella Biblioteca Vaticana.<br />
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Anche sulla sua immagine non è mancata l’incertezza, giacché è da ritenere del tutto fantastico il ritratto riportato nel libro del De Angelis. Mentre è accettabile la seguente descrizione che ne fa A. T. Arcudi: “Fu Pietro Colonna di bell’aspetto, pallido, e femminile, di faccia pienotta, e alquanto tonda, come appare dal suo ritratto, ch’io tengo in rame.” Questa immagine (senza tener conto del riferimento al ritratto in rame, che nessuno ha visto o può vedere) corrisponde in tutti i lineamenti alla miniatura del viso del francescano, che si trova in una Q iniziale sulla copertina dell’unico suo libro stampato nel 1518, il De arcanis catholicae veritatis, del quale una copia era nel Convento S. Caterina e ora si trova nella Biblioteca “P. Siciliani” di Galatina, mentre altre copie sono a Basilea, Francoforte e Parigi.<br />
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A conclusione della presente breve biografia di Pietro Galatino c’è da rilevare che nei suoi numerosi scritti, oltre al già citato riferimento all’eccidio di Otranto, non ci sono notizie relative agli avvenimenti del suo tempo. Ciò risulta veramente singolare, ove si consideri tanto l’importanza dei fatti di cui sarebbe stato informato o addirittura spettatore (basti per tutti il celebre sacco di Roma del 6 maggio 1527 ad opera dei lanzichenecchi), quanto la sua grande amicizia con personaggi che all’epoca erano di prim’ordine.<br />
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<b>Pietro Congedo</b></div>
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<span style="font-size: x-small;">(*) Non è da escludere che con tale omaggio il Galatino abbia voluto richiamare la benevola attenzione del sovrano spagnolo sui problemi della Comunità francescana di Galatina, che aveva perduto il Convento S. Caterina, in quanto a suo tempo il re Alfonso II d’Aragona lo aveva donato insieme all’Ospedale e al relativo patrimonio all’Ordine Olivetano. Perciò era in corso da anni una penosa lite fra i due Ordini.</span><br />
<span style="font-size: x-small;">Comunque è certo che in maniera inaspettata sia entrato in scena, inviato (forse su preghiera di re Ferdinando il Cattolico) da papa Giulio II, il cardinale Giovanni Antonio di San Giorgio, vescovo di Frascati che riuscì a mettere d’accordo gli olivetani con i francescani. Infatti, con atto notarle del 1° giugno 1507, i primi, conservando l’Ospedale di Galatina e il suo patrimonio, cedettero ai secondi il Convento S. Caterina e il giardino detto ‘Parco’. </span></div>
Francesco Congedohttp://www.blogger.com/profile/04508157530659873466noreply@blogger.com