La sconfitta di Caporetto e l’esonero del gen. L. Cadorna determinarono la fine della separazione tra potere politico e militare, che aveva caratterizzato la Nazione italiana fin dall'inizio del conflitto. Nello stesso tempo il fatto che le truppe austro-tedesche fossero penetrate profondamente al di qua dei confini nazionali suscitava le più nere previsioni nell'animo di politici e militari italiani. Infatti all'inizio solo pochissimi credevano alla possibilità di fermare il nemico sul Piave. Invece molti erano coloro che ritenevano opportuno ritirarsi fino al Mincio. Di questo si discusse il 15 novembre 1917 in un Consiglio di guerra, durante il quale il gen. Armando Diaz, che dal 30 ottobre era il nuovo Comandante supremo, insisté sulla convenienza di restare schierati sul Piave. Opinione questa condivisa dal capo del governo, V. E . Orlando.
Rimaneva comunque il timore di non poter resistere né sul Piave né sul Mincio, perciò numerosi erano coloro che sostenevano la necessità di una pace separata col nemico, della quale, però, il 10 novembre Luigi Einaudi affermò l’impossibile realizzazione, in quanto l’Italia dipendeva dai suoi alleati per le derrate alimentari, le materie prime, i crediti ecc.. Il successivo giorno 28 anche il ministro Francesco Saverio Nitti affermò che gli italiani non avrebbero potuto sopravvivere neppure un mese senza l’aiuto amichevole degli alleati.
Tuttavia nell'inverno 1917-’18, proprio in ordine ad un’eventuale pace separata, il governo italiano e quello austriaco intavolarono trattative con la mediazione della Santa Sede. Trattative queste che presto furono ritenute inopportune, poiché agli italiani non conveniva negoziare col nemico, mentre gli alleati anglo-francesi si trovavano in gravi difficoltà sul fronte occidentale a causa di una poderosa offensiva austro-tedesca.
L’invasione nemica, seguita alla disfatta di Caporetto, non portò la concordia fra gli italiani, infatti ci furono infiammate polemiche subito dopo la nomina a presidente del Consiglio di V. E. Orlando, che numerosi interventisti indicavano fra i maggiori responsabili della stessa disfatta per la sua politica interna “floscia, irresoluta e snervata”, quando egli faceva parte del governo Boselli. In particolare l’on. Luigi Albertini sosteneva che il governo Orlando fosse il prodotto di una torbida atmosfera parlamentare e il risultato di una combinazione che poteva essere giudicata con favore da giolittiani e socialisti, cioè da neutralisti.
Al fine di combattere il cosiddetto “disfattismo parlamentare”, un centinaio di deputati e senatori, fra cui F. Martini, Antonio Salandra e lo stesso Albertini, si costituirono in “fascio di difesa nazionale”.
Intanto i contadini in Valdinievole (Toscana) gridavano “Viva i tedeschi” (V. F. Martini), quelli delle Marche erano “esultanti” per l’avvenuta disfatta, credendo e sperando nella pace (V. L. Bissolati), il popolo minuto di Torino restava “irriducibile” (V. On De Fabris), quello di Milano cominciava ad augurarsi l’arrivo dei tedeschi (V. U. Notari), e nel “popolino” napoletano serpeggiavano propositi di rivolta (V. Lettera inviata il 15 dicembre da Benedetto Croce al presidente Orlando).
Il Comando del 3° Gruppo Legioni Carabinieri (Roma), in un rapporto sull’ordine pubblico in Toscana, Umbria, Lazio e Sardegna, relativo al periodo 1° settembre - 31 dicembre 1917, segnalò per due sole provincie su dodici, cioè per Roma e Pisa, un miglioramento delle condizioni dello spirito pubblico, le quali erano, invece, rimaste “normali” per Perugia, Cagliari e Sassari. A Firenze le stesse condizioni continuavano ad essere “anormali” per la carenza di generi di prima necessità e per la propaganda dei sovversivi. A Lucca ci si lamentava per il prolungarsi della guerra, mentre ad Arezzo, Massa, Livorno, Siena e Grosseto il “malcontento generale” era motivato dalla difficoltà per gli approvvigionamenti.
Dopo Caporetto neppure le popolazioni rurali della province di Verona, Mantova e Padova, benché fossero sotto la diretta minaccia dell’invasione nemica, furono animate da sentimenti patriottici.
Nel novembre 1917 si notarono sintomi di ripresa fra le truppe, soprattutto nei primi giorni della resistenza sul Piave. Infatti molti reparti si difesero coraggiosamente contro gli assalti nemici. Tuttavia nel complesso lo spirito combattivo dell’esercito italiano continuò a destare non poche apprensioni, per cui ci fu un alternarsi di buone e cattive notizie.
Intanto gli sbandati, dopo il passaggio del Piave, vennero inviati alla rinfusa nei campi di raccolta. In un secondo momento gli stessi vennero suddivisi secondo l’arma a cui appartenevano: 200.000 fanti furono raccolti a Castelfranco Emilia (MO), 80.000 artiglieri a Mirandola (MO), 13.000 genieri a Guastalla (RE) e il carreggio a Copparo (FE). I militari, così suddivisi, cominciarono ad essere inquadrati in reparti organici e riforniti di viveri, vestiario ed armi. I corpi rimessi in efficienza venivano avviati al fronte, dove erano utilizzati con piena fiducia.
Insieme agli sbandati nei campi di raccolta furono radunate alcune migliaia di disertori che al gen. Diaz erano sembrati per la maggior parte “imbevuti” di idee pacifiste e antimilitariste.
Il 14 novembre 3.500 disertori, che erano nella caserma del Macao a Roma, cercarono di ribellarsi e l’ordine venne ristabilito da un reparto di cavalleria. La sera dello stesso giorno i suddetti partirono da detta caserma e, benché scortati da carabinieri e militari armati, durante tutto il percorso cantarono l’Inno dei lavoratori e l’Internazionale e gridarono: “Abbasso Sonnino! Noi non vogliamo la guerra”.
A metà dicembre 1917 il gen. A. Diaz informò il capo del governo che il nemico aveva “enormemente intensificato” lungo tutto il fronte una intensa propaganda demoralizzatrice e pacifista, mediante il lancio di manifestini dagli aerei e dalle trincee, e con il tentativo di stabilire comunicazioni fra le trincee contrapposte. A questo si aggiungeva l’atteggiamento antipatriottico dei contadini nelle immediate retrovie. Era stata anche diffusa la falsa notizia che a Natale ci sarebbe stata la pace, inoltre il 21 dicembre, una fonte vaticana informò addirittura che, sempre per Natale, c’era il pericolo di uno sciopero militare.
Per questi motivi il Comando supremo impartì l’ordine di intensificare la vigilanza delle truppe dipendenti, di promuovere un’azione di contropropaganda patriottica e di spegnere con prontezza ed energia ogni focolaio di propaganda pacifista.
Prima del 25 dicembre furono quindi adottate le dovute precauzioni. Infatti nuclei speciali di carabinieri furono appositamente costituiti o rinforzati, mentre reparti pronti ad ogni evenienza e raggruppamenti di mitragliatrici e di autoblindo furono collocati nei luoghi ritenuti più vulnerabili.
Gli austro-tedeschi, forse informati delle preoccupazioni dei comandi italiani, proprio alla vigilia di Natale, impegnando al massimo le proprie truppe, tentarono di superare la resistenza dei nostri reparti; questi viceversa, resistendo tenacemente, inflissero loro gravi perdite.
Carabinieri, autoblindo e mitragliatrici, appostati per domare la temuta rivolta, vennero quindi ritirati in buon ordine, e il Natale 1917 venne ricordato dagli italiani come un “Natale eroico”.
Le voci di “scioperi militari” al fronte e di complotti socialisti nel Paese indussero il Comando supremo a stabilire un’intesa col governo per stroncare la propaganda disfattista. Fu quindi emanato il cosiddetto “decreto Sacchi”, che prevedeva pene severe per chiunque commettesse o istigasse a commettere un qualsiasi fatto capace di “deprimere lo spirito pubblico”. Applicando questa legge furono poi arrestati il segretario nazionale del Partito socialista, Costantino Lazzari, ed il vice segretario, Nicola Bombacci.
Però nella realtà, dopo Caporetto, l’esercito fu più pressato dalla propaganda “disfattista” degli austriaci che non da quella dei neutralisti italiani. Infatti, mentre aerei e razzi nemici lanciavano continuamente sulle nostre armate attestate sul Piave manifestini ed altro materiale propagandistico, gruppi speciali di militari austriaci capaci di parlare italiano venivano inviati sulle prime linee e cercavano di mettersi in comunicazione con le opposte trincee per fare propaganda e nello stesso tempo per assumere informazioni.
Alcuni argomenti utilizzati dagli austriaci per avvilire lo spirito guerresco degli italiani erano: la pace conclusa con i sovietici e la “fraternizzazione” tra austriaci e russi; le vittorie conseguite dai tedeschi sul fronte occidentale e nella guerra sottomarina; il sostenere che Inghilterra e Stati Uniti fossero potenze imperialistiche che speculavano sulla guerra ed intendessero asservire il mondo; la corruzione del mondo politico italiano; l’insistenza sul fatto che le spose e le fidanzate dei combattenti tradissero mariti e promessi sposi con gli imboscati; il sostenere che il Tirolo e l’Istria non fossero abitate da italiani; il sottolineare la forza degli imperi centrali e la debolezza dell’Italia.
Una volta iniziata la resistenza sul Piave erano stati riscontrati segni di ripresa spirituale, ma presto ebbe inizio un susseguirsi di buoni e cattivi stati d’animo.
Secondo Giuseppe Lombardo Radice sul Piave “si resisteva”, ma c’era diffidenza da parte dei soldati verso la propaganda patriottica, e permaneva negli animi “una esagerata idea della potenza del nemico ed un sordo scetticismo per tutto ciò che si diceva circa la nostra capacità di risorgere e di vincere”. Né i comandanti si trovavano in uno stato d’animo molto diverso da quello delle truppe, in quanto la massima aspirazione patriottica nella media dei giovani ufficiali era quella di affermarsi con un’efficace resistenza, per poter riavere con trattative di pace le province invase”. Essi chiedevano insomma la pace con la mediazione vaticana.
Rino Alessi, a pag. 206 della sua opera “Dall'Isonzo al Piave”, ha scritto che esistevano brigate stanche, si riudivano canzoni di scherno per la guerra, e lo scetticismo si diffondeva fra soldati e ufficiali; alla mense di questi ultimi, anzi, si udivano talvolta “discorsi anarchici”.
Il fatto, riferito da Alessi, che gli ufficiali parlassero come sovversivi sta a significare che il ragionamento di molti militari era il seguente: poiché dopo Caporetto il sogno di conquistare Trento e Trieste era svanito e dal momento che l’Austria con una pace separata avrebbe certamente restituito all’Italia i territori invasi, per chi e per che cosa si continuava a combattere? Si continuava a combattere – era la risposta – non più per l’Italia ma per la Francia e la Gran Bretagna.
All’inizio del novembre 1917, mentre la rotta di Caporetto era ancora in corso, alcune divisioni inglesi e francesi giunsero in Italia e si fermarono tra Mantova, Verona e Brescia. Il Comando supremo italiano invano chiese che almeno una parte di esse fosse subito impiegata contro il nemico. Soltanto il 5 dicembre i comandi alleati consentirono ai primi contingenti di schierarsi sulla linea del Piave, che era ormai tenuta saldamente dalle nostre truppe. Perciò gli italiani ebbero la sensazione che gli anglo-francesi fossero venuti in Italia non come alleati, ma per compiere quasi un’opera di polizia militare. Ad esempio, don Minzoni s’indispettì moltissimo al vedere in qual modo gli ufficiali britannici “ispezionassero e criticassero” lo schieramento adottato dal reggimento di fanteria del quale egli era cappellano.
Sentimenti ostili verso la Gran Bretagna erano presenti fra gli italiani già prima di Caporetto, e nel marzo 1916 Filippo Turati aveva dichiarato in parlamento che i britannici erano interessatissimi a prolungare la guerra, dato che grazie ad essa riuscivano a concludere “eccellenti affari”.
Il risentimento verso gli inglesi superava di gran lunga quello verso i francesi, eppure, dopo Caporetto non dall’Inghilterra ma dalla Francia giunse in Italia un uomo politico intenzionato ad assicurare il predominio militare del suo paese sull’esercito di Diaz. Si trattava del deputato Abel Ferry, che nel dicembre 1917 era stato inviato dal parlamento francese per indagare sulle cause di Caporetto e sui problemi più urgenti dell’esercito italiano. Egli compilò una lunga relazione, nella quale rivolgeva ai quadri delle nostre truppe critiche come le seguenti: lo stato maggiore era di origine aristocratica ed aveva introdotto una disciplina di tipo germanico; gli ufficiali di truppa restavano distanti dai soldati, “non par nature, mais par ordre”; la qualità degli stessi ufficiali lasciava molto a desiderare, anche perché i gradi erano assegnati non ai meritevoli ma ai medio e piccolo borghesi, secondo un criterio sociale; i soldati invece erano buoni, capaci di resistere alla fame e al freddo più dei francesi, e di combattere con slancio. Ferry riferì che, secondo l‘opinione degli ufficiali francesi, l’esercito italiano era eccellente dal punto di vista umano, ma scadente dal punto di vista tecnico. Per rimetterlo in sesto toccava dunque ai francesi intervenire, magari, inviando in Italia 200-300 ufficiali istruttori.
Dunque con la ritirata di Caporetto gli italiani, già poco stimati dai francesi, avevano perso di colpo il prestigio militare conquistato con due anni di dure battaglie. Ma non si teneva conto del fatto che i soldati italiani erano poveri, mal vestiti e scarsamente nutriti, mentre quelli francesi e britannici giunti nel Veneto risultavano al confronto ricchi e privilegiati.
Tuttavia la presenza di truppe alleate suscitò sentimenti contrastanti, perché se da una parte destarono inquietudini, dall'altra promossero confronti e ripensamenti che misero in crisi molte norme comportamentali superate o errate. Per esempio, il fatto che i soldati francesi e inglesi ricevessero un trattamento migliore fu uno dei motivi che indussero il Comando supremo a prendere provvedimenti a favore delle truppe.
Alla fine del gennaio 1918 il Ministero dell’Interno chiese ai prefetti di raccogliere notizie sullo spirito delle truppe mediante interrogatori ai soldati che erano in licenza invernale.
Si ebbe così, con notizie raccolte in circa settanta province e circondari, una informazione complessiva, che non giustificava né i giudizi pessimistici, circolanti anche in ambienti governativi, né i giudizi ottimistici di chi immaginava un esercito trasformato dalla resistenza sul Piave. Molti prefetti dichiararono che lo stato d’animo delle truppe era migliorato rispetto all'inverno precedente, definendolo ottimo, buono o soddisfacente; ma nello stesso tempo sottolinearono i preoccupanti segni di stanchezza e di malcontento che inquietavano perfino il presidente Orlando, il quale aveva detto il 15 ottobre al giornalista Olindo Malagodi di ritenere che gli interventisti con i loro discorsi sulla ritirata Caporetto, intesa come “sciopero” o “rivolta politico militare”, avessero finito con l’insinuare nei soldati l’idea di mettere in atto ciò che prima della disfatta non avevano nemmeno pensato di fare.
Il 9 marzo, al Comando supremo, ci fu una riunione, alla quale parteciparono il presidente Orlando, i ministri Bissolati e Nitti, il gen. Diaz e i comandanti delle varie armate. I generali intervenuti dichiararono concordi che c’era stato un grande cambiamento dall'ottobre ‘17 in poi, che il morale delle truppe era “buono”, che l’esercito era ormai ricostituito in piena forza e che la posizione strategica sul Piave risultava “incomparabilmente migliore” di quella sull'Isonzo.
Purtroppo il 21 marzo tornò l’apprensione alla notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte occidentale minacciando direttamente Parigi e Calais. Tuttavia in aprile le angosce scomparvero: l’offensiva tedesca in Francia era stata arrestata.
Pietro Congedo