venerdì 22 aprile 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Contrasti tra politici e militari alla fine del 1916: Soldati e Ufficiali nella guerra «cronica»

Reparti schierati per assistere ad una fucilazione
Del Governo di Unità Nazionale, formato da Paolo Boselli nel giugno1916, faceva parte come ministro senza portafoglio, ma che ufficiosamente aveva l’incarico di creare un collegamento tra l’esecutivo e il Comando Supremo, Leonida Bissolati. Questi, avendo grande autorità e prestigio, avrebbe dovuto incarnare le speranze degli italiani, in quanto coerente con le sue idee di acceso interventista: allo scoppio della guerra si era arruolato volontario a 54 anni e, partecipando eroicamente ai combattimenti sul Monte Nero (1915) e sull’Altopiano di Asiago (1916), aveva meritato due medaglie d’argento.

Dopo la nomina a ministro Bissolati fece ritorno in zona di guerra per parlare col Re, con Cadorna e con Porro della necessità di promuovere un’inchiesta sugli avvenimenti relativi alla strafexpedition. Questo suo intervento suscitò la diffidenza generale e soprattutto urtò la suscettibilità del Comandante Supremo, il quale con una lettera del 7 agosto comunicò seccamente al presidente del Consiglio che egli non riconosceva a Bissolati la funzione d’intermediario e che le relazioni tra il Governo e lo Stato Maggiore dell’Esercito dovevano esser tenute solamente dal ministro della Guerra.

Boselli, da quel debole che era, rispose dichiarandone il proprio totale ed incondizionato accordo.
Cadorna inviò, quindi, ai comandi dell’Esercito un ordine col quale vietava a qualunque ministro di entrare in zona di guerra senza il suo preventivo assenso.   Egli, peraltro, temeva che Bissolati volesse “silurarlo” e sostituirlo col generale Luigi Capello.

Pertanto quando, in seguito alla conquista di Gorizia (9 agosto 1916), la stampa esaltava Capello, comandante del VI Corpo d’armata, considerandolo artefice della vittoria, il Comandante supremo vide nella campagna giornalistica una precisa orchestrazione contro di lui. Inoltre trapelò la notizia che tra Capello e Bissolati ci fossero “legami settari” (massonici). Perciò Cadorna ai primi di settembre tolse a Capello il comando del VI Corpo d’armata, nell’intento di punire tanto Capello quanto Bissolati.

Col passar dei giorni l’ira del Comandante Supremo crebbe ancor più, poiché Bissolati si trovò coinvolto in uno scandalo involontariamente provocato dal comandante del Servizio Aeronautico Italiano, il colonnello Giulio Douhet. Questi infatti, verso la fine di agosto, aveva redatto un memoriale anticadorniano, che cercò di  far pervenire ai ministri Bissolati e Sonnino tramite  l’on. Gaetano Mosca. Ma a quest’ultimo fu sottratto in treno il compromettente plico che giunse proprio nelle mani di Cadorna. Douhet fu quindi denunciato al tribunale militare che lo condannò ad un anno di reclusione. Durante il processo l’accusa, secondo Bissolati, non era riuscita a provare l’esistenza di alcuna “congiura” contro il Comandante Supremo. Tuttavia la tensione salì alle stelle, perciò il presidente del Consiglio Boselli si recò personalmente in zona di guerra, recando con sé una lettera, che Bissolati mandava a Cadorna per significare di non aver mai voluto creare imbarazzi, ordire insidie o fomentare l’indisciplina contro il Comando Supremo.

Lo stesso Boselli, facendo appello al patriottismo, disse che, se Bissolati non fosse stato ricevuto in detto Comando, tutto il Governo avrebbe dovuto dimettersi.      

Il Comandante Supremo dapprima ribadì il suo rifiuto, ma dopo 15 giorni, grazie anche all’intervento del Re, acconsentì a ricevere il ministro Bissolati, anche se in realtà continuò a porre limiti severissimi alle attività dello stesso in zona di guerra.

Tuttavia in seguito i rapporti tra Cadorna e Bissolati divennero quasi amichevoli.                    
Il miglioramento, iniziato con i ringraziamenti del primo al secondo per le prudenti ed accondiscendenti dichiarazioni fatte alla Camera in merito al caso Douhet, fu consolidato da una sostanziale coincidenza di opinioni su vari problemi della guerra. C’è stato, però, chi non a torto ha sostenuto che il segreto della rappacificazione fra i due fosse la sottomissione di Bissolati a Cadorna. Quest’ultimo, quindi, aveva ancora una volta dimostrato di possedere un’energia ben diversa da quella della maggioranza dei politici del suo tempo.

L’Esercito italiano si oppose validamente alla strafexspedition austro-ungarica e, nel corso dei combattimenti avvenuti tra maggio e giugno 1916, perdette circa 113mila  uomini tra morti e feriti. Tuttavia lo stato d’animo delle truppe non era stato uniforme sull’intero fronte. Infatti, mentre le ali dello schieramento si erano mantenute abbastanza salde, al centro le truppe avevano mollato. Perciò un generale uccise 8 soldati che fuggivano e ordinò di fucilare chiunque avesse mollato.

Il 21 maggio, quando ci fu lo sfondamento delle linee italiane, Cadorna, avendo constatato che alcuni reparti avevano abbandonato posizioni di capitale importanza senza nemmeno cercare di difenderle, affermò in presenza dei piantoni  che bisognava fucilare “senza processo” e che egli se ne assumeva la responsabilità. Un esplicito ordine in tal senso venne poi impartito il giorno 26 con lettera del  Comando Supremo, stampata e distribuita a tutti i comandi.

Solo due giorni dopo, cioè il 28 maggio, un sottotenente, tre sergenti e otto soldati del 141° reggimento di fanteria messo in fuga dagli austriaci, furono fucilati per ordine del  colonnello comandante, che ricevette un solenne encomio da Cadorna.

Questo fu il primo caso di decimazione avvenuto nel Regio Esercito italiano.

Il seguente 11 giugno fu destituito il comandante del XIV Corpo d’Armata per non aver adottato mezzi subitanei di repressione nei riguardi di reparti “andati a rifascio in brevissimo tempo senza combattere”, dei quali aveva però  deferito alcuni ufficiali alla corte marziale. Fu quindi ribadito l’ordine di fucilare sul posto sia i soldati che gli ufficiali, poiché si sapeva che i tribunali erano restii ad emettere condanne a morte.    

Ai primi di luglio l’89° reggimento della brigata Salerno, dopo 10 mesi trascorsi in uno dei più disagiati settori del fronte, era stato trasferito in un settore più tranquillo per un periodo di “riposo”, ma fu sorpreso dalla strafexpedition e dovette combattere. In seguito parecchi soldati, in parte feriti, erano in una località, da cui non potevano rientrare nelle linee italiane, perché sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Dopo essere stati isolati e senza soccorsi per due giorni e due notti nella zona fra le opposte trincee, cioè nella terra di nessuno, tentavano di arrendersi al nemico. Perciò i comandi superiori ritennero opportuno ordinare alle artiglierie di far fuoco su di essi. Due giorni dopo il comando del corpo d’armata ordinò la decimazione tra i militari dell’89°, che comportò la fucilazione di otto militari. Nondimeno Cadorna si dichiarò convinto che la giustizia non avesse colpito ciecamente.

D’altronde il generalissimo considerava gli uomini irreggimentati nell’esercito da lui comandato “un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi, che un comandante non aveva il tempo di rieducare”. Tuttavia i suoi giudizi negativi coinvolgevano anche gli ufficiali, i quali  avrebbero dovuto essere i naturali educatori di quelle masse. Infatti all’inizio della guerra, mentre considerava la mancanza di almeno 13.500 unità, riferendosi ai 15mila ufficiali effettivi esistenti, affermava che questi erano “abbastanza buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi, ed in alto – insieme a parecchi buoni ed ottimi – altri non pochi insufficienti”.
Non poteva certo essere migliore il giudizio del Comandante Supremo nei riguardi dei  tanti mobilitati che erano  ufficiali di complemento.

Per ovviare alla grave carenza di ufficiali fu necessario istituirne a ritmo serrato corsi di addestramento, che normalmente duravano tre mesi, ai quali erano ammessi i mobilitati che fossero in possesso della licenza di scuola secondaria superiore. Quindi i frequentanti dei corsi erano uomini anche laureati, ma soprattutto giovani, talvolta non ancora ventenni.  Vennero anche istituiti i cosiddetti “corsi di corsa”, con i quali l’allievo otteneva la nomina a sottotenente in 60 (sessanta) giorni, e precisamente 40 a Modena e 20 alla Porretta, seguiti da una breve licenza; subito dopo il neo-ufficiale veniva mandato a comandare un reparto di linea.  
Dall’agosto del 1914 al novembre 1918 furono molto rapidamente addestrati più di 160mila nuovi ufficiali.

 Scrisse il gen. Luigi Capello: “E’ evidente che l’improvvisazione di una così gran massa dovesse andare a scapito della qualità”.

Disse Adolfo Omodeo che il più grave problema, per il giovane ufficiale di provenienza borghese, era quasi sempre costituito dal rapporto con il soldato proletario, spesso analfabeta, spesso più anziano e più maturo del suo tenente.
Senza mezzi termini Emilio De Bono spiegò come fosse facile che i neo ufficiali si trovassero in un primo tempo alla mercé dei loro subordinati.
“Siamo in mano alle criature”(cioè ai bambini) disse un fante al suo generale.

Durante e dopo la guerra gli ufficiali di complemento criticavano duramente di “carrierismo” i loro colleghi effettivi, arrivando addirittura a sostenere che spesso avessero ordinato ai reparti azioni inutili, ma dispendiose in vite umane, al fine di conseguire un avanzamento di grado. Inoltre i primi rivolgevano ai secondi  anche l’accusa di “imboscati”, sostenendo che, grazie alla complicità dei superiori, gli ufficiali permanenti riuscissero ad ottenere posti più sicuri nel Paese ed al fronte. Quest’ultimo genere di accusa ha trovato conferma i varie testimonianze scritte, tra cui quella di Cesare Battisti, contenuta in una lettera alla moglie del 5 settembre ’15.
          
La conquista di Gorizia, avvenuta l’8 agosto 1916, pur non avendo un grande valore strategico, rianimò un poco sia l’opinione pubblica che lo spirito dei combattenti, ma  tutti si avvidero rapidamente che la guerra quotidiana continuava nelle forme ormai consuete.
Intanto nel luglio 1916 gli uomini alle armi erano diventati 2.350.000, mentre un anno prima erano un milione e mezzo.

Nel settembre successivo ebbe inizio l’impiego di un nuovo tipo di artiglieria da trincea, “la bombarda”, il cui tiro – si disse – avrebbe certamente distrutto i reticolati nemici, ma la nebbia e l’umidità autunnali impedirono quasi sempre il raggiungimento di tale risultato.

Tuttavia Cadorna tra ottobre e novembre ordinò due brevi offensive, ma tanto costose in vite umane che alcuni reggimenti della III Armata si erano ribellati, subendo perciò la decimazione. Quando finalmente il generalissimo ordinò la sospensione dei combattimenti fino alla primavera del 1917, il bilancio dell’anno 1916  si rivelò doloroso: 404.500 morti e feriti, contro i 246.500 del 1915.
Come il numero delle perdite anche l’indice di autolesionismo aumentò notevolmente nel secondo anno di guerra. Infatti nel 1916 ci furono 4.133 condanne per mutilazioni volontarie o per lesioni e infermità procurate al fine di evitare il servizio militare, mentre le stesse nel 1915 erano state 1.403 . Tuttavia  gli autolesionisti cominciarono a diminuire alla fine del 1916: essi fino ad allora, stando in carcere se condannati, rimanevano lontani dal fronte, invece un decreto luogotenenziale dell’ottobre stabilì che anche se condannati alla reclusione dovessero essere inviati in linea.

Alla vigilia del secondo inverno di guerra molti ufficiali avvertivano l’urgente necessità di risollevare in qualche modo lo spirito delle truppe. In particolare un generale dichiarò che ai soldati avrebbe fatto più bene un’ora di divertimento, che cento grammi di pane in più.

Invece, la razione di pane fu ridotta da 750 a 600 grammi, e il 19 novembre Cadorna emanò una circolare, con la quale imponeva ad ufficiali e soldati di comportarsi in pubblico “in modo conforme alle esigenze dello stato di guerra” e, quindi, evitando distrazioni e divertimenti.
Una distrazione consentita era quella della lettura e le Case del Soldato erano abbastanza fornite di libri.

Fino al 1916 la propaganda “sovversiva e disfattista” non aveva ancora suscitato gli allarmi del Comando Supremo, il quale solo il 18 giugno di quell’anno emanò una circolare contro la diffusione di pubblicazioni antimilitariste.
Invece, relativamente alla propaganda pacifista, nell’agosto del 1916  una circolare del Ministero della Guerra vietava di far giungere alle truppe opuscoli o manifesti “tendenti a deprimerne il morale ed a fare opera contraria alle istituzioni ed alle aspirazioni nazionali”.
Grande importanza ebbe poi la circolare inviata il 4 novembre dal Ministro degli Interni, V. E. Orlando, ai Prefetti per segnalare la minaccia della propaganda che elementi “rivoluzionari” avrebbero potuto svolgere presso i soldati che giungevano in licenza invernale. Si cominciava, dunque, a temere che influenze negative del Paese potessero turbare lo stato d’animo delle truppe.
In particolare si temeva che il Partito Socialista potesse cavalcare la grande preoccupazione generale dovuta al prolungarsi indefinito della guerra e, quindi, imporre la pace e far precipitare l’Italia nel caos e nella sconfitta.

Tuttavia il ministro Orlando ostentava tranquillità e si rifiutava di adottare misure di carattere straordinario nei riguardi dei socialisti, spiegando in privato che Turati e Treves, capi del partito, stavano impedendo e frenando gli eccessi dei loro compagni più intransigenti, e che non avrebbero potuto continuare la loro attività moderatrice se il partito venisse colpito da provvedimenti eccezionali.

Invece era seriamente preoccupato per l’atteggiamento dei socialisti (che in Parlamento avevano anche presentato una mozione per chiedere la pace senza annessioni) il ministro Bissolati, al quale stesso Orlando, avendolo incontrato il 31 dicembre, precisò di avere pronti i decreti per proclamare, se necessario, lo stato d’assedio.

In effetti, però, neppure la frazione estremista del Partito socialista era disposta ad assumersi fino in fondo la responsabilità di una disfatta.
Pietro Congedo

martedì 19 aprile 2016

L’Università Castrense di San Giorgio di Nogaro (UD)

Elena d'Orléans in divisa di volontaria della Croce Rossa


Alla fine del 1915, di fronte alle drammatiche conseguenze dovute alla carenza di medici per l’Assistenza Sanitaria Militare, sia il Comando Supremo dell’Esercito che le alte sfere medico-militari e politiche del Regno d’Italia ritennero che si dovesse provvedere con la massima sollecitudine al reclutamento di giovani Ufficiali Medici. Pertanto il Comando Supremo avanzò la proposta d’istituire una vera e propria “Scuola Medica da Campo”, giuridicamente riconosciuta, a ridosso del fronte isontino. Proposta questa che aprì nel Paese un duro contenzioso giuridico tra coloro che in Parlamento difendevano le prerogative delle Regie Università e lo stesso Comando Supremo, il quale riteneva fra l’altro che si dovesse sfruttare il periodo invernale di calma operativa per potenziare l’apparato sanitario militare. Ma il relativo dibattito parlamentare, iniziato nella seconda metà del dicembre 1915, si sarebbe potuto concludere addirittura nel marzo 1916, poiché solo allora il Parlamento, chiuso per le festività natalizie, avrebbe ripreso i suoi lavori.
Perciò il Governo, a Camere chiuse, emanò il  Decreto Luogotenenziale n°38 del 9 gennaio 1916, con cui venne appunto  istituita la  “Scuola Medica da Campo” detta anche “Università Castrense”, nella quale durante il biennio 1916 – 1917 si sarebbero svolti corsi accelerati di medicina e chirurgia per i militari-studenti aspiranti medici.

Si riteneva opportuno collocare detta istituzione tra le retrovie della III Armata (comandata da Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta), Corpo molto impegnato nel conflitto e che più degli altri aveva avvertito la carenza di assistenza sanitaria.
Grazie all'interessamento di Elena d’Orléans, moglie del Duca d’Aosta, il Comando Supremo scelse San Giorgio di Nogaro, paese centrale tra le retrovie carsiche e le grandi arterie di comunicazione, la cui Amministrazione Comunale mise a disposizione il palazzo del Municipio.
Nell’arco di 15 giorni vennero costruite dal Genio Militare due spaziose baracche in legno, che servivano da aule, e fu anche effettuata la ristrutturazione di un cascinale, che avrebbe ospitato la scuola per malattie speciali.

A presiedere l’Università fu chiamato il tenente colonnello Giuseppe Tusini, che da civile era docente ordinario di chirurgia nella R. Università di Modena, mentre il tenente colonnello Annibale Orani venne nominato ‘segretario amministrativo di facoltà’ (funzione questa da lui esercitata nella vita civile presso l’Università di Torino)  al fine di garantire la corretta applicazione delle norme vigenti per la facoltà di medicina e chirurgia.

Gli effetti amministrativi e disciplinari furono sottoposti alla giurisdizione del Comando Supremo e la Direzione trovò alloggio nel sopraccitato palazzo municipale. [V. A.A. V.V. Studenti al fronte, Libreria Ed. Goriziana, GORIZIA, 2010, p.p. 83-87].

Il 26 gennaio 1916 venne pubblicato il Decreto che istituiva i Corsi di medicina e chirurgia per gli studenti di 5° e 6° anno che si trovavano sotto le armi.

Nell’elenco riportato qui di seguito sono indicati i professori dei Corsi, scelti fra i docenti universitari ordinari o libero docenti che prestavano servizio militare come ufficiali medici nella III Armata, i quali sarebbero stati coadiuvati nel loro insegnamento da egregi medici, anch'essi in servizio nella Sanità Militare e che da civili erano stati aiuti o assistenti in Università del Regno.
Prof. Giuseppe Tusini per chirurgia generale e medicina operatoria;

  • Maurizio Ascoli per medicina generale;
  • Angelo Signorelli e Giuseppe Lucibelli per semeiotica medica;
  • Michelangelo Savarè per ostetricia e ginecologia;
  • Gaetano Samperi per clinica oftalmica;
  • Ferdinando De Napoli per dermosifilopatia;
  • Ottorino Rossi per malattie nervose e mentali;
  • Antonio Dionisi per anatomia patologica;
  • Attilio Cevidalli per medicina legale;
  • Battista Allaria per pediatria;
  • Salvatore Citelli per otorinolaringoiatria;
  • Amedeo Perna per stomatologia;
  • Carlo Gazzetti per farmacologia;
  • Gino Galeotti e Vittorio Scaffidi per patologia generale;
  • Giunio Salvi per anatomia descrittiva e topografica;
  • Leonardo Dominici per patologia speciale e chirurgica:
  • Francesco Feliziani per patologia medica;
  • Giuseppe Buglia per fisiologia.

Gli studenti che iniziarono a frequentare regolarmente le lezioni il 14 febbraio 1916 erano 366, di cui 356 di 5° anno e 10 di 6°, mentre i malati utilizzati per le lezioni e gli esercizi sarebbero stati fino al 1917 ben 5.977. Il professore di anatomia patologica, Antonio Dionisi, fece 245 autopsie davanti agli studenti.

La suddetta Duchessa Elena d’Aosta, in qualità di Ispettrice delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana abitava stabilmente in una villa di San Giorgio di Nogaro e spesso frequentava assieme agli studenti le lezioni della “Scuola Medica da Campo”, della quale scuola era in un certo senso “la madrina”(*).

I suddetti studenti giunti a metà corso ottennero una licenza dal 15 al 26 aprile per sostenere gli esami arretrati, giacché dei 366 solo 103 erano in pari con gli esami. Usufruirono della licenza 221 studenti, i quali sostennero 809 esami su materie delle quali avevano già seguito i corsi nelle proprie Università e per la maggior parte riportarono votazioni molto superiori alla semplice approvazione, mentre i respinti  furono soltanto 10. Fu anche possibile rilevare che i migliori risultati li ottennero coloro che per le materie di esame avevano seguito l’insegnamento complementare effettuato in San Giorgio di Nogaro.

Le lezioni tenute dal 14 febbraio al 24 maggio furono complessivamente 580, delle quali: 512 sulle materie dell’ultimo biennio e 68 sulle materie arretrate.
Purtroppo il 24 maggio 1916 lezioni vennero sospese, perché da circa 10 giorni era in atto l’offensiva austro-germanica detta strafexpedition (spedizione punitiva) sull’Altopiano di Asiago e la maggior parte delle truppe schierate sull’Isonzo venivano trasferite a sostegno del nuovo fronte. Questa brusca interruzione dei corsi turbò la soddisfazione dei professori per l’insegnamento impartito e il numero di esami arretrati sostenuto dagli studenti.

Per tutta l’estate non ci furono lezioni nell’Università Castrense.

Ma già alla fine del settembre 1916 il Comando Supremo si dimostrò favorevole alla riapertura dei Corsi in San Giorgio di Nogaro per gli studenti del 5° e 6° di anno di medicina, vincolati al servizio militare. Infatti ritenne opportuno inviare al Ministero della P.I. una relazione sui servizi resi all’Esercito durante la campagna estiva dagli studenti che ne avevano frequentato le lezioni dal 14 febbraio al 24 maggio 1916, relazione questa che si concludeva con l’auspicio di una riorganizzazione degli stessi Corsi.

Il 4 ottobre l’on Angelo Roth, sottosegretario alla P.I., visitando la sede dell’Università Castrense, si convinse dell’opportunità di riprendere le lezioni.

Il successivo 6 novembre il Comando Supremo stabilì che entro il 12 dicembre venissero inviati a S. Giorgio di Nogaro gli studenti di medicina vincolati al servizio militare in zona di guerra e che per l’anno scolastico 1916-17 fossero iscritti al 5° o 6° anno di studio.

Fu così che il 26 novembre venne emanato il Decreto Legislativo n. 1678 che stabiliva la riorganizzazione dei corsi in questione.    

Risultarono iscritti all’Università Castrense 832 studenti, e precisamente 200 al 5° e 632 al 6° anno. Di questi giunsero alla fine dei corsi 812 (191 del 5° e 621 del 6°). Dei restanti 20 uno si laureò nell’Università di provenienza, 10 rientrarono ai Corpi di appartenenza per non aver voluto rinunciare al grado di farmacista (in 4 casi) o a quello che avevano nell’arma combattente (6 casi); i restanti 9 vennero col tempo mandati in zona territoriale, perché dichiarati dall’autorità competente inabili ai servizi mobilitati.

Terminate le lezioni, gli esami di laurea si tennero presso l’Università di Padova, dal 2 al 6 aprile 1917, davanti a cinque Commissioni esaminatrici, in ciascuna delle quali i docenti della Scuola di San Giorgio erano 3 su 11.
Dei 621 iscritti al 6° anno si presentarono all’esame di laurea soltanto 467 e di questi 12 sostennero l’esame su tesi scritta, mentre gli altri 455, avvalendosi della facoltà concessa dal comma ferzo dell’art. 7 del D.L. n. 1678/26.11.1916, discussero ciascuno il tema scelto tra i due che a cura della Direzione della Scuola si erano fatti estrarre a sorte 10 giorni prima dell’esame di laurea, fra i 330 scelti ed inviati dal prof. Luigi Lucatello, preside della Facoltà di Medicina di Padova, tra quelli proposti dai professori di Padova e di San Giorgio.

I risultati degli esami di laurea superarono ogni aspettativa, in quanto ci furono:
n. 28 laureati con pieni voti e lode, n. 69 con pieni voti assoluti, n. 146  con pieni voti legali, n. 219 con voti da 98 a 77/110 e n. 5 con voti inferiori a 77/110.

L’elenco completo dei suddetti laureati è riportato nel volume “A.A. V.V. STUDENTI AL FRONTE, Libreria Editrice Goriziana, GORIZIA, 2010 p.p. 169 – 173”.

Tutti i 467 laureati furono proposti per la nomina a Sottotenente medico di complemento e mandati alle proprie case per una breve licenza. Allo spirare di questa vennero posti a disposizione dell’Intendenza Generale dell’Esercito per essere inviati ai Corpi mobilitati.  

Questi giovani medici, nel corso del 1917, in estate vennero falcidiati nelle battaglie dell’Ermada, dell’Ortigara, della Bainzizza ecc., e alla fine di ottobre furono coinvolti nella ritirata di Caporetto, nel corso della quale il Comune di San Giorgio di Nogaro rimase quasi completamente spopolato, poiché gli abitanti fuggirono in altre parti del Regno, mentre danni gravissimi subirono quasi tutti gli edifici, a causa degli incendi dei  saccheggi e soprattutto per lo scoppio dei depositi di munizioni, avvenuto alle ore 19,30 del 30 ottobre.

Il 13 novembre 1917 il Sottocapo di Stato di Stato Maggiore dell’Esercito, Carlo Porro, d’intesa con il ministro della Guerra, Gaetano Giardino, rese nota la convenzione con il Ministero della P.I. di rinunciare definitivamente ai Corsi accelerati di medicina e chirurgia.

La “Università Castrense” ebbe così il suo epilogo.

(* )La Duchessa Elena d’Aosta nel corso della Grande Guerra ricevette una medaglia d’argento, tre croci al merito e il suo operato ispirò al poeta Gabriele d’Annunzio la “ Canzone di Elena di Francia

Pietro Congedo

venerdì 8 aprile 2016

Notazioni sull’assistenza sanitaria alle truppe italiane durante i primi sei mesi della Grande Guerra

Aula Magna dell'Università Castrense di San Giorgio di Nogaro

All’alba del 24 maggio 1915 ai 400mila soldati della II e III armata fu ordinato di balzare in avanti. Avanzando nel buio, le truppe a nord raggiunsero le pendici del sistema montuoso Mrzli-Sleme-Vodil, al centro si fermarono alle pendici del massiccio del Sabotino, mentre a sud avanzarono senza grandi difficoltà fino alla prima settimana di giugno, quando passarono l’Isonzo a Pieris e poi a Gradisca.          Prima dell’offensiva generale, che inizierà il 23 giugno, la guerra purtroppo mostrò il suo truce volto a danno di quei reparti che vennero scagliati alla conquista delle dorsali dei suddetti monti e delle isole sabbiose nei pressi di Gradisca.

Nel diario(*) del dott. Primo Dondero, ufficiale medico sul fronte del monte Sabotino, si legge: “… Alle 20 ( del 27 maggio) il gen. Vespigni mi fa chiamare; deve scendere nella valle che conduce al Sabotino e vuole che lo accompagni… . Lungo la mulattiera incontriamo feriti portati in barella o sorretti da portaferiti. Le notizie sono gravi: abbiamo molti morti, gli austriaci sono ben riparati, in trincee di cemento armato…”.
Mentre i militari trovavano sbarramenti micidiali, i medici dovevano curare ferite sconosciute per la prassi chirurgica civile.

Scrive, infatti, Dondero: “La sezione di Sanità alloggiata nel castello dei Comar … sta allacciando vasi a un caporale a cui una granata ha asportato gli arti inferiori; una cantina del castello è stata trasformata in sala di operazioni. … I due chirurghi sono instancabili, non so quando riposino, continuano ad arrivare feriti, portano gravi notizie. …”[V. Studenti al fronte, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone, 2010, p. 28].

Il 4 giugno il posto di medicazione del dott. Dondero, mentre veniva spostato verso le prime linee, in una osteria abbandonata, venne investito verso le ore 10  da una grandine di shrapnels e granate, a cui risposero con rabbia le nostre batterie. Questa fu un’occasione per rendersi conto di quanto fosse difficile la gestione logistica delle strutture sanitarie campali sotto un furioso duello di artiglieria.
Annota Dondero: “…Gemono i feriti, chiedono soccorso… . Tutti gli altri posti di medicazione sono affollatissimi: le ambulanze continuano a sgombrare verso Quisca e anche su di esse sparano gli austriaci. Alle 18 cessa il tiro nemico e così m’è dato sgombrare dai feriti le sale del castello. …”[Ibidem, p.29]

Dal 23 giugno al 7 luglio ebbe luogo la prima battaglia dell’Isonzo, durante la quale i fanti italiani, andando all’attacco quasi sempre spalla a spalla, serrati l’uno all’altro, venivano investiti e falcidiati dal micidiale fuoco di sbarramento degli austriaci.

Perciò i risultati conseguiti furono minimi nonostante la perdita di 13.411 uomini (1.916 morti + 11.495 feriti), che rappresentavano il 6% del totale delle forze impiegate sull’intero fronte.
Le strutture sanitarie, sebbene fossero state organizzate per garantire la spedalizzazione immediata del 20% dei componenti di una unità, di fronte ad un numero superiore di feriti, iniziarono a collassare. Ciò avveniva perché le perdite riguardavano quasi esclusivamente i reparti che avevano preso parte alle prime ondate dell’offensiva, gli organici dei quali andarono distrutti dal 50% al 70%.

Il 24 giugno il dott. Dondero scriveva nel suo diario: “… Poveri miei fanti! Vi ho lasciati da breve tempo … eravate così ragazzoni ingenui e pieni di baldanza … ora tornate da me, grondanti sangue, laceri, febbricitanti, barcollanti … supini sulle barelle, coperti, dalle occhiaie incavate nei visi pallidi e sparuti, come se una lunga tragedia, una lunga estenuante febbre vi avesse consumati … sospirate, scrutando nel vuoto un nome che è di persona lontana che prega per voi e non sa che la vita vi sfugge … . Mando tutti i portaferiti … alle 15 sul Sabotino. … E’ un ininterrotto arrivo di feriti, i più leggeri da soli, i più gravi sorretti, portati.”.

Il 25 giugno così prosegue “… Prima dell’alba un battaglione del 34° è sceso da Podsabotino per occupare parte delle nostre trincee; due nostre compagnie sono di rincalzo. Alle 10 giungono i primi feriti del 34°; il Sabotino non dà tregua. Il tenente medico Capugi del 34° mi dà il cambio perché il maggiore ha detto che dobbiamo ripulirci e riposare almeno una notte. Là mi corico sulla mia coperta di lana stesa sul pavimento. …”.
Ma dopo un paio d’ore al dott. Dondero fu ordinato dallo stesso maggiore di andare nelle trincee a raccogliere i feriti e i morti, poiché gli austriaci avevano alzato la bandiera della Croce Rossa [V. Ibidem p.p. 32, 33 e 34].    

La seconda battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 18 luglio al 3 agosto 1915. Essa, nella descrizione fatta dagli austriaci, fu per le truppe italiane “un massacro senza precedenti. Un orribile bagno di sangue. Il sangue scorre ovunque, ed i morti e i corpi fatti a pezzi si trovano tutt'intorno”.
In effetti ci fu l’annientamento di 41.846 uomini, in appena 15  giorni ed in un arco geografico non superiore ai 30 chilometri. “Passarono molti autocarri stracarichi di feriti: soldati di fanteria insanguinati e laceri; teste, braccia e gambe fasciate, un orrore!” raccontò chi c’era.
I comandi, impreparati ad un simile costo umano, reagivano cercando di occultare al paese il reale dramma che stavano vivendo i nostri soldati. Nello stesso tempo ordinavano: “I posti di medicazione, durante il combattimento, non siano sistemati in mezzo alle truppe per evitare ai rincalzi, che attendono di portarsi in linea, un’impressione deprimente …”[V. Ibidem  p.p. 35-36].

Della terza battaglia dell’Isonzo (18 ottobre – 4 novembre 1915) un soldato della  brigata del dott. Dondero così ha descritto l’offensiva a cui prese parte: “… Era il 21 ottobre 1915, alle dieci del mattino, il capitano ha tirato il sorteggio, quale dei quattro plotoni della compagnia doveva uscire per primo. … Adesso tocca a me, sono tutto agitato, mi preparo bene, salto fuori dalla trincea, vado avanti tra le pallottole, poi mi stendo dietro una piccola pietra. …Sono (disteso)… quando sento un colpo nella spalla e poi un altro nel piede … . Sento il sangue alla spalla destra e al piede, e resto tre ore sempre lì … . La gamba destra gonfia a vista d’occhio, continuo a perdere sangue. Arriva un portaferiti, gli chiedo di aiutarmi, mi risponde: ‘L’ordine è di portare giù solo i morti’. … Allora mi trascino giù rotolando lungo la montagna […]. E cado come morto proprio nel posto di medicazione. Un tenente medico ordina di medicami, mi bendano alla meglio, resto lì su una barella fino all’indomani. Poi con la barella mi portano a Plava, due chilometri più in basso. A Plava si concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Lì ci sono anche i pezzi dell’artiglieria e i nostri ci hanno messo sopra una croce rossa. Ma gli austriaci se ne accorgono, incominciano a bombardare, noi feriti saremmo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro. Nella notte ci portano verso San Floriano … . Poi arriviamo a Udine, nel campo contumaciale, dove saremmo cinquemila  i feriti. In uno stanzone al primo piano sono sette o otto i medici che operano, c’è anche il dottor Lerda di Torino. C’è una finestra spalancata, e sotto nel cortile c’è un camion. I medici tagliano braccia e gambe, e le buttano dalla finestra, le buttano sul camion perché non puzzino … .  [V. Ibidem p.p. 37 e 38].

Il 4 novembre, dopo una serie di attacchi e contrattacchi … le operazioni offensive terminarono.
Nella Terza Battaglia dell’Isonzo ci furono: 10.663 morti, 44.290 feriti e 11.985 dispersi: quasi tremila quindi erano i feriti che ogni giorno scendevano dalle prime linee. Il tenente Carlo Salsa, di fronte a quel carnaio, scrisse fra l’altro: “Il posto di sanità è installato in una casupola nascosta … . La fiumana dei feriti e dei malati s’infrange contro la porta angusta: sosta in silenzio rassegnato, inerte, sotto l’acquerugiola che infierisce; sfila a poco a poco, come filtrando fra gli spiragli di una chiusa, dinanzi alla spiccia ruvidità dei medici frettolosi. …[V. Ibidem p. 39]
           
Il 10 novembre 1915 ebbe inizio la Quarta Battaglia dell’Isonzo, nel corso della quale in mezzo a un nubifragio, peggiorato dalla Bora che spazzava l’altipiano, i fanti della II e III armata si lanciavano all'assalto del Sabotino, del Podgora e del monte San Michele senza riuscire a conseguire i risultati sperati. Tra il monte San Michele e San Martino del Carso la brigata Sassari perdette 2.549 uomini, circa la metà del suo organico, prima di venir rispedita in retrovia, dove gli ospedali erano già oberati di feriti: “Si sentiva la povera gente che gridava, perché operavano senza indormia (senza anastesia). Tagliavano braccia, gambe, secondo la ferita che si aveva. Quelli che morivano venivano portati al cimitero su un carretto tirato da un cavallo o da un mulo. Il cimitero era pieno. I feriti erano molti e avevano un aspetto spaventoso. In alcuni si vedevano pendere le bende sanguinanti e pezzi di carne. Uno piangeva, l’altro gemeva, il terzo chiedeva aiuto. […]
I feriti arrivano e partono in processione. Essi giacciono uno vicino all'altro nei corridoi, sulla paglia, e vengono portati in sala d’operazione a seconda delle ferite più o meno gravi. Alcuni muoiono sulla barella, altri sul tavolo d’operazione, i più fortunati nel loro letto. IL sangue scorre in terra, non si può passare senza insanguinarsi, l’odore del sangue è sempre nel naso” [ V. Ibidem p. 41].
Il 2 dicembre, al termine dell’offensiva durata 23 giorni, oltre 7.400 erano i soldati morti, quasi 40.000 i feriti, e 7.100 i dispersi.
L’arrivo dell’inverno comportava la cessazione delle offensive generali.

Le perdite subite dai reparti dell’Esercito, impiegati nelle prime quattro battaglie dell’Isonzo, erano state superiori alle possibilità assistenziali e chirurgiche che potevano essere garantite dalle strutture ospedaliere campali. Infatti, mentre tra maggio e  novembre 1915 le divisioni della III armata operanti in linea sul Carso avevano avuto un numero di feriti pari al 44% del numero delle forze disponibili (cioè  173mila su un organico di 352mila), alla Sezione Sanità erano state fornite risorse (umane e mediche) sufficienti per un numero di feriti corrispondente al 25% delle stesse forze. Inoltre nell’inverno del 1915 esplosero gravissime infezioni di tifo e di colera, a causa delle quali su circa 21mila contagiati ci furono 4.229 morti.
Pertanto il Servizio Sanitario Militare e della C.R.I. aveva l’impellente necessità di avere aumentate le proprie risorse umane.

La mancanza di un congruo numero di medici nei posti di soccorso e negli ospedali comportava sia l’impossibilità di curare in tempo i feriti gravi, che spesso morivano per dissanguamento, sia l’effettuazione di operazioni chirurgiche frettolose, le quali si concludevano quasi sempre con amputazioni che magari sarebbero state evitate se fosse stato possibile agire con la dovuta calma.
Fra i primi espedienti a cui si ricorse per ovviare alla scarsezza di personale sanitario  ci fu la chiamata alle armi (aprile 1916) dei medici di classi antecedenti all’ultima classe mobilitata (1876) nonché il riesame dei sanitari delle zone territoriali per vedere quanti di essi e per quali ragioni fossero inidonei ai servizi di guerra. Ma tutto questo non era certo sufficiente per fronteggiare le esigenze del servizio di prima linea, le quali richiedevano un gran numero di giovani medici.
Pertanto si ritenne indispensabile provvedere al cambiamento dello status del servizio sanitario mediante la nomina ad Aspiranti Ufficiali Medici (nuovo grado  nella gerarchia militare) degli studenti che avessero compiuto il 4° anno di medicina, i quali dovevano coadiuvare gli Ufficiali Medici ed eventualmente sostituirli nei battaglioni .
Dopo molte discussioni e qualche inevitabile compromesso si arrivò  all'emanazione del Decreto Luogotenenziale n° 38 del 9 gennaio 1916, con il quale si istituivano in San Giorgio di Nogaro i ‘Corsi di medicina e chirurgia  per gli studenti del 5° e 6° anno di medicina che si trovavano sotto le armi’. [V. Ibidem p.p. 43 – 48].

Nacque così la Scuola Medica da Campo, denominata anche  Università Castrense.

Pietro Congedo

Note
(*) Il diario del dott. Primo Dondero  è consultabile sul sito www.isonzofront.altervista.org