lunedì 20 giugno 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Gli ultimi mesi del conflitto

Copertina del numero 10 - 17 Novembre 1918


-1- Nell'aprile 1918 sul fronte del Piave, all'infuori di qualche squadriglia di aviazione, non erano rimasti altri reparti tedeschi. Era dunque lecito supporre che l’offensiva nemica, ritenuta imminente, non ci sarebbe stata almeno per tutto il mese in corso, poiché gli austriaci erano restati soli e senza mezzi per poterla condurre a fondo.  
Questa notizia tranquillizzò Il presidente V. E. Orlando che, recatosi in zona di guerra, poté constatare personalmente il migliorato spirito combattivo delle truppe. Miglioramento questo riguardo al quale presso il Comando supremo c’era ancora  qualche dubbio, che venne dissipato il 12 aprile in un lungo colloquio tra il gen. A. Diaz e il responsabile dell’ufficio informazioni, col. Marchetti, al quale fu comunque raccomandato di tenere gli occhi bene aperti. L’11 maggio gli uffici informazioni di tutte le armate riferirono che il morale dei soldati era “buono” e, sette giorni dopo, giunsero addirittura a qualificarlo “ottimo”.

-2- Tra le tante ragioni che modificarono lo stato d’animo dei soldati, ebbero grande importanza i provvedimenti che migliorarono le loro condizioni di vita. Innanzitutto fu aumentato il vitto: la “razione di guerra” fu portata da 3.067  (novembre 1917) a 3.580 calorie  (giugno 1918), aumentando la quantità di pane e carne. Furono creati gli spacci cooperativi, che fornivano a buon mercato viveri, bevande e oggetti di prima necessità. Venne disposta la concessione ai soldati di una seconda licenza annuale di 10 giorni, in aggiunta a quella invernale di 15 giorni.

Furono concessi  esoneri per lavori agricoli in numero sempre più considerevole. Con due decreti del dicembre 1917 fu disposta a favore  dei militari e dei graduati l’emissione di polizze gratuite di assicurazione per 500 e per 1.000 lire, l’importanza delle quali fu spiegata alle truppe con manifesti e conferenze a cura dell’I.N.A.Il 1° novembre 1917 fu istituito il Ministero per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra. Nel dicembre fu creata l’Opera Nazionale Combattenti per l’assistenza ai militari dopo la smobilitazione e per creare nelle campagne un ceto di produttori associati, costituito da fanti-contadini.

-3- Dall'inizio del conflitto nell'esercito italiano un minimo di propaganda era dovuta  ad iniziative più o meno spontanee di ufficiali e deputati che si trovavano in zona di guerra e che con la loro parola incitavano i soldati alla resistenza. In pratica si faceva affidamento  sulle cosiddette “conferenze patriottiche”.  Dopo la ritirata di Caporetto passò del tempo prima che autorità politiche e militari si rendessero conto della necessità di uscire  dall'improvvisazione ed impiegare un numero adeguato di uomini e di mezzi nella propaganda. Uno dei primi tentativi in tal senso fu compiuto da Giuseppe Lombardo Radice presso il comando dell’arma del genio del V corpo d’armata.
Furono istituiti innanzitutto gli “ufficiali di collegamento con le prime linee”, incaricati di indagare sullo spirito delle truppe, di elencare gli elementi sospetti, di assistere ed incoraggiare gli elementi migliori di ogni reparto, scegliendo con cautela fra di essi i propri fiduciari. Detti ufficiali dovevano essere sempre al corrente delle vicende politiche e compiere un’azione di propaganda “diretta”, distribuendo materiale propagandistico. Ma particolare importanza veniva attribuita alla  propaganda “indiretta”,  effettuata sulla base del seguente pro-memoria:  «Si fa diramando a tutti gli ufficiali subalterni degli ‘spunti di conversazione coi soldati’.

Lo scopo precipuo che il Comando si propone è quello di far circolare fra tutte le truppe dipendenti lo stesso gruppo di idee, che siano come i ‘nuclei vitali’ del  pensiero che deve animare i soldati. Spostandosi un reparto e venendo i suoi soldati a contatto con quelli di un altro, hanno così occasione di sentire da superiori e da compagni di altri corpi ed armi le stesse idee. Unità di pensiero a tutta la grande unità, che,  come ha un capo militare nel suo generale, così deve avere un’anima sola.».

Anche il gen. Capello, che dopo Caporetto aveva avuto il comando di un’armata costituita in gran parte da sbandati, aveva istituito fin dal novembre 1917 un ufficio propaganda, con il compito di organizzare conferenze, inchieste, spettacoli fra le truppe. Solo il 1° febbraio 1918 il Comando supremo prescrisse che tutte le armate designassero “un ufficiale” con l’esclusivo incarico della propaganda fra le truppe. Tra la fine di febbraio e i primi di marzo un’opera attiva di propaganda fu resa necessaria e improcrastinabile da circostanze come le seguenti:

  • smentire i messaggi contenuti nei manifestini di cui gli austriaci inondavano le retrovie;
  • partecipare all’organizzazione messa in atto dagli alleati per una forte pressione propagandistica sul nemico;
  • "nobilitare" agli occhi delle masse il nuovo volto che andava assumendo il conflitto dopo la rivoluzione russa e l’intervento degli Stati Uniti. 

Molto utile ad ogni attività propagandistica fu il grandissimo numero di giornali per i soldati, detti “giornali di trincea”.
Prima di Caporetto si pubblicava a Roma un quindicinale, “Il soldato”, e a Milano un settimanale, “Il giornale del soldato”. Entrambi i periodici venivano diffusi soprattutto nelle caserme e nei depositi. Mentre qua e là, in zona di guerra, veniva stampato qualche foglio, poi diffuso limitatamente in uno o in pochi reparti.

Nei primi mesi dopo la disfatta non ci furono importanti iniziative giornalistiche.
A gennaio 1918 apparve “La trincea”, settimanale dei soldati che erano nella zona del Grappa. In febbraio uscì “L’Astico”, giornale  delle truppe schierate nella Val d’Astico, che più tardi divenne organo dell’intera l armata. Il primo giornale a grande tiratura fu “La tradotta”, settimanale della III armata, apparso il 21 marzo. Nello stesso periodo il Servizio Informazioni dell’Esercito diede vita a un altro settimanale, “La Giberna”. Poi fu la volta di “la Ghirba”, organo della V armata, e di “Il razzo”, organo della VII armata. La VI armata ebbe a giugno il suo foglio, il “Signor Sì”, al quale collaborarono soldati inglesi, francesi e cecoslovacchi, poiché l’armata era interalleata. A metà giugno erano circa  cinquanta i periodici che venivano stampati per le truppe italiane.

Dopo Caporetto anche i giornali quotidiani pubblicati nel Paese furono distribuiti in zona di guerra in quantità nettamente superiore rispetto al passato. Nello stesso tempo le autorità militari strinsero con le amministrazioni delle varie testate speciali accordi, secondo i quali i giornali avrebbero pubblicato articoli adatti alla propaganda fra le truppe, ed in compenso i comandi avrebbero acquistato varie migliaia di copie al prezzo di sette centesimi e mezzo, come i rivenditori. Gli  stessi comandi rivendevano ai soldati quelle copie al prezzo  di dieci centesimi, in quanto il darle in regalo avrebbe indotto gli acquirenti a non ritenere veritiere le notizie pubblicate.

Tra i tanti quotidiani che aderirono a detti accordi c’erano: “Il Corriere della Sera”, “Il Popolo d’Italia”, “Il Resto del Carlino”, “Il Secolo” di Milano, “L’Arena di Verona”.

-4- Nella primavera del 1918 la “propaganda di massa”, le cui possibilità erano ancora praticamente sconosciute, cominciò ad essere adoperata con ricchezza di mezzi e, nello stesso tempo, con ingenuità ed empirismo. Tuttavia si rivelò subito uno strumento efficace per ridare slancio ai combattenti.
Cartoline, opuscoli e libri furono diffusi a centinaia di migliaia di copie sia dalle autorità militari che da comitati e associazioni civili,  mentre i muri dei centri abitati, le pareti interne ed esterne delle baracche militari e delle “case del soldato” vennero tappezzati di manifesti multicolori raffiguranti il bersagliere in atto di lanciarsi all’attacco, la popolana scarmigliata e furibonda che chiedeva vendetta o i soldati italiani che insieme a quelli alleati schiacciavano l’Austria e la Germania.
Fu disposto che le decorazioni al valore fossero assegnate in maggior numero a soldati e sottufficiali.
L’on. Antonio Salandra propose l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini mobilitati, anche al di sotto del 21° anno di età.
Intanto, a partire dal marzo 1918, le varie armate cominciarono a dare un assetto organizzativo ai servizi di propaganda, e coloro che prima erano gli “ufficiali di collegamento con le prime linee” diventarono “ufficiali I. P.” (ufficiali per informazioni e propaganda)  o semplicemente “ufficiali P.”. Questi, tenendo lezioni  agli altri ufficiali e conversazioni alle truppe, dovevano fra l’altro cercare di: eliminare le cause di malcontento, curando vitto,  igiene e vestiario; aiutare i soldati a scrivere alla famiglia; tenere vivo il buonumore e spronare al gioco;  impiantare campi sportivi e cinematografi; distribuire carta da lettere e pubblicazioni. Inoltre gli “ufficiali P” dovevano: individuare gli elementi buoni, patriottici e fidati; sorvegliare i sospetti e premiare i buoni; combattere l’autolesionismo in accordo con medici e cappellani.
Agli stessi “ufficiali P” venivano anche suggeriti argomenti di conversazione con la truppa, come ad esempio: il rafforzare l’odio contro il nemico che assassinava donne, bambini e impiegava le mazze ferrate; l’evidenziare l’importanza dei miglioramenti concessi (razione viveri, assicurazione gratuita ecc. ); il dimostrare che gli ingegneri, i tecnici e gli operai delle fabbriche non erano imboscati.

-5- La confidenza acquistata con le tecniche propagandistiche consentì agli italiani di preparare, a partire dal marzo 1918, un’intensa azione di propaganda fra le truppe nemiche, la quale poteva senza dubbio essere utile a rompere la coesione dell’esercito austro-ungarico, che era composto da tedeschi, ungheresi, boemi, slovacchi, croati, sloveni ecc..  
Il 29 marzo il presidente V. E. Orlando nominò U. Ojetti commissario alla propaganda sul nemico. Il giorno seguente Pietro Badoglio, vice capo di stato maggiore, convocò gli “ufficiali P” delle armate italiane. Questi nel corso del convegno stabilirono che la propaganda avrebbe prodotto risultati immediati solo se fosse stata data  pubblicità alla proclamazione d’indipendenza dei popoli “asburgici”, con l’autorizzazione dei governi alleati. Autorizzazione questa che nel giro di poche ore  pervenne, sia pure con riserva, da Londra, Parigi e Roma.
Lo stesso gen. Badoglio impartì l’ordine di stampare volantini nelle varie lingue delle
truppe nemiche. Fra il 7 e l’8 aprile i lanci ebbero inizio, e in pochi mesi 51 milioni di volantini e oltre 9 milioni di copie di un settimanale furono lanciati con aerei dirigibili e razzi speciali.
I risultati ottenuti con la nuova propaganda furono giudicati molto buoni dal punto di vista militare, sia in occasione della battaglia di giugno che in quella finale di Vittorio Veneto. D’altronde la stessa propaganda  tendeva  a minare la compattezza di un esercito in cui tedeschi ed ungheresi erano considerati  popoli predominanti, mentre gli altri erano gli oppressi, i forzati.
Una prova evidente della disintegrazione dell’esercito austro-ungarico fu l’aver potuto costituire, nel maggio 1918, con circa 14mila disertori e prigionieri di quell'esercito la cosiddetta “divisione cecoslovacca”, i soldati della quale parteciparono alle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto, indossando la divisa grigioverde degli alpini.

-6- Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America molti italiani pensavano che essi non fossero in grado di contribuire positivamente alla lotta contro gli Imperi Centrali, in quanto la mancanza di qualità militari li rendeva incapaci di affrontare le difficoltà di fronte alle quali gli esperti eserciti europei si erano arrestati.
Invece gli U.S.A. in breve conquistarono l’opinione pubblica italiana, perché possedevano il prestigio della grande potenza, esaltavano gli ideali della democrazia e soprattutto inviavano in Italia uomini e copiosi mezzi per soccorrere ed assistere le popolazioni civili e l’esercito. Infatti la Croce Rossa Americana spedì aiuti molto generosi e l’associazione protestante YMCA creò un gran numero di “case del soldato” sul fronte del Piave, mentre nelle retrovie istituì posti di ristoro lungo le ferrovie e in prossimità delle prime linee, organizzò spettacoli cinematografici, teatrali e musicali per migliaia di soldati.
Giustamente, dunque, don Minzoni in una conferenza alle truppe disse che in Italia l’enorme apporto alla guerra dato dall’America era più morale che materiale. In effetti gli Stati Uniti, che avevano mobilitato 3.800.000 uomini, inviarono in Italia un contingente di appena 3.800 unità, perché ritennero opportuno impiegare quasi tutte le loro truppe sul fronte occidentale.
La stampa italiana dedicava larghissimo spazio alle notizie giunte dall’America e di essa si parlava con simpatia perfino nelle nostre zone rurali, dalle quali molti italiani erano emigrati  negli Stati Uniti.
Grande ammirazione riscuoteva da parte degli italiani il presidente U.S.A., Thomas Woodrow Wilson, che dopo il suo famoso discorso dei “quattordici punti”, pronunciato l’8 gennaio 1918 dinanzi al Senato americano,  era considerato massimo artefice di pace e di salvezza.
Il Partito socialista si fece interprete della passione del popolo che, come scrisse C. Treves, “per un felice istinto di vita e di salvezza  andava spontaneamente verso Wilson”. Contadini, operai e borghesi si sentirono affratellati da questa comune idolatria verso il presidente americano.

-7- Dopo  Caporetto l’organizzazione dei cappellani militari si mobilitò per rinsaldare lo spirito dell’esercito. In particolare don Giovanni Minzoni diede nuovo e maggiore impulso all’organizzazione delle “case del soldato” che dirigeva dalla fondazione. Tuttavia in molti ambienti militari e politici il clero era considerato corresponsabile della crisi morale, con la quale veniva solitamente spiegata la stessa sconfitta: al papa si rinfacciava il discorso sulla “inutile strage”, mentre erano accusati di “disfattismo politico” i cappellani, i quali ritenevano invece che l’atmosfera del nuovo Comando supremo andava venandosi “a poco a poco d’un lieve anticlericalismo scettico, quasi di un laicismo faceto, un umorismo ridicoleggiante abitudini pie e osservanze ritenute sino allora sacre ed utili, con un curioso e strano dileggio irriverente”(V.  G. Minzoni ).
Siffatto atteggiamento presto assunse il  carattere di totale diffidenza. Infatti don Minzoni venne improvvisamente degradato a vice-direttore delle “case del soldato”, delle quali fu nominato direttore un maggiore dei carabinieri.
Nel corso del 1918 l’attività dei cappellani assunse un valore diverso e più circoscritto rispetto al passato, quando erano stati i soli ad occuparsi dei problemi spirituali delle truppe. Problemi questi che dopo Caporetto diventarono la preoccupazione costante di tutti, dei militari come dei politici. In particolare gli “ufficiali P” assunsero la funzione di controllori dei cappellani che, nonostante i dissapori, continuarono  a svolgere con rinnovato ardore quell’opera patriottica, per la quale si erano tanto prodigati fin dall’inizio del conflitto.

-8- Gli austro-tedeschi nel programmare l’offensiva  di Caporetto erano convinti che un insuccesso militare italiano potesse provocare la rottura del fronte interno del Paese e forse la guerra civile come era avvenuto in Russia. Ma il contegno assunto dopo la disfatta dal Partito socialista e dalla classe operaia deluse i governi degli Imperi Centrali. Infatti si notarono subito i segni  di un risveglio patriottico in gran parte della classe operaia, fino ad allora rimasta contraria o indifferente alla guerra: “Quando il nemico calpesta il suolo della patria abbiamo solo il dovere di resistergli” scriveva l’on. Rigola, segretario generale della Confederazione Generale del Lavoro, mentre C. Treves e F. Turati affermavano che il proletariato avrebbe salvato la patria senza rinnegare se stesso, cioè confermavano di non volersi staccare dalla formula  “non aderire e non sabotare”.
Si può, dunque, dire che nel 1918 In Italia gli ideali wilsoniani prevalessero su quelli leninisti, in quanto all’epoca era in voga la formula: «Wilson o Lenin”.
Il 24 maggio, terzo anniversario dell’intervento, il sindaco socialista di Bologna, Zanardi, espose il gonfalone sul palazzo municipale e prese parte ad una manifestazione dei caduti; dopo qualche giorno egli accolse a nome della città Vittorio Emanuele III, offrendogli un mazzo di fiori tricolori, e il sovrano ebbe parole di elogio per l’amministrazione socialista.
Questi ed altri episodi dello stesso tipo evidenziano efficacemente la piena adesione degli italiani agli  ideali wilsoniani.

-9- Il generale Armando Diaz, già comandante sul Carso del XXII corpo d’armata, fu nominato Comandante supremo dell’esercito dopo l’esonero di Luigi Cadorna. Egli non era molto noto, perciò sia l’opinione pubblica che gli ambienti militari, non avendolo considerato fra i possibili candidati, furono colti di sorpresa    
Tuttora non è ben chiaro come si giunse alla sua nomina.
Subito dopo fra i quadri dell’esercito si diffuse un certo disagio, ma dopo qualche giorno tutti si mostrarono rassicurati e soddisfatti.
Con l’avvento di Diaz divennero molto rari i disaccordi e le tensioni tra Comando e Governo: tra i due poteri si stabilì un rapporto di collaborazione o, come più d’uno disse, di sostanziale subordinazione, nel senso che il potere militare era sottomesso
al potere civile.
“Io non sono che il rappresentante militare del governo” aveva dichiarato il generale A. Diaz dal primo giorno, rovesciando il concetto cadorniano secondo il quale il Comandante supremo era sì responsabile di fronte al governo, ma doveva rimanere rigorosamente autonomo.
Il presidente V. E. Orlando, nelle sue memorie scrisse che il periodo Diaz era stato “il solo periodo in tutta la storia della guerra, in tutti i paesi belligeranti”, in cui ci fosse stata “perfetta armonia e completa e leale collaborazione in tutti i sensi – tecnica compresa – fra il capo civile e quello militare”.
In media il capo del governo e il nuovo capo di stato maggiore si incontravano tre o quattro volte al mese, al  Comando supremo o a Roma: “Erano colloqui interminabili fra me e lui”, raccontò il presidente, aggiungendo che nel corso di quegli incontri l’uno accettava spesso i consigli dell’altro.
Le poche volte in cui fra i due poteri ci furono tensioni o contrasti, gli stessi non furono avvelenati né da questioni di principio né da fratture insanabili.    
 
-10- Quanto alla disciplina dei soldati il Comandante supremo Diaz, pur non avendo ripudiato ufficialmente le numerose rigide regole introdotte da Cadorna, certamente non permetteva né i giudizi sommari né le decimazioni, nonostante che i soldati continuassero a disertare, mentre sostanzialmente lo spirito dell’esercito tendeva a migliorare.                
I nuovi rapporti instaurati tra Comando e governo fecero sì che le diserzioni dei militari non divenissero occasione per uno scambio di reciproche accuse. I due poteri intendevano collaborare per esaminare le cause e applicare i rimedi.          
In ordine alle diserzioni, un increscioso episodio, severamente deplorato dall’opinione pubblica, si verificò a Torino all’inizio di giugno. Carabinieri e truppe circondarono interi quartieri popolari, entrando in tutte le abitazioni per un’operazione di polizia che portò all’arresto di 98 disertori, 53 renitenti e 6 favoreggiatori; altri 11 disertori si costituirono spontaneamente. Ovviamente finirono tutti dinanzi ai Tribunali di guerra, sull’attività dei quali è significativo il seguente racconto che Attilio Frescura scrisse nel suo “Diario di un imboscato”: «Oggi, 5 luglio ’18, sono stato giudice al tribunale di guerra. Dalle 9 alle 13 abbiamo giudicato quattordici imputati. Uno ogni 17 minuti, insomma, senza tener conto del tempo perso per chiacchierare o prendere il caffè. L’interrogatorio durava pochi minuti, il difensore si limitava a raccomandare l’imputato alla clemenza del tribunale, e il verdetto era deciso dai giudici in un battibaleno. Tutti e quattordici gli imputati erano accusati dello stesso reato: ritardo nel rientrare dalla licenza. La maggioranza di essi aveva ritardato due o tre giorni, ma i giudici, in camera di consiglio, facevano il conto delle ore di quel ritardo per tramutarle in anni di galera. Risultato: l’ergastolo.
Gli imputati erano tipi niente affatto interessanti, bravi ragazzi ‘senza luci ed ombre’, incappati in un processo senza rendersene ben conto. … »
Quindi i Tribunali militari nei riguardi degli accusati erano severi al punto di condannare alla massima pena detentiva anche coloro che rientravano da una licenza con un ritardo di due o tre giorni.

-11- Nei primi mesi del 1918 i soldati austriaci avevano patito la fame, e soltanto a giugno cominciarono a ricevere normali razioni alimentari. Intanto i loro comandi, in attesa di un prossima offensiva, cercavano di aumentarne la combattività sia col dire che in Italia i magazzini di alimentari erano fornitissimi sia col dare istruzioni sul come gli stessi potevano essere saccheggiati durante un prossimo attacco, senza che nulla andasse sprecato. Nello stesso tempo colonne di carri, dette “colonne di bottino”,  venivano predisposte nelle retrovie.
Comunque l’esercito austriaco era molto più armato che non a Caporetto, perché aveva 680 battaglioni e 7.000 pezzi d’artiglieria, contro i 574 battaglioni e i 5255 cannoni dell’ ottobre 1917.
Ma gli austro–ungarici, nel giugno 1918, rimasti senza l’appoggio dei generali tedeschi, non seppero far tesoro degli ammaestramenti tattici di Caporetto. Infatti dispersero le forze su un fronte troppo lungo, non riuscirono a sfruttare l’elemento sorpresa e impiegarono le artiglierie con criteri molto meno efficaci.
I comandi italiani, viceversa, dimostrarono di avere appreso la lezione di Caporetto. Infatti, disponendo di un buon servizio informazioni, riuscirono a conoscere in anticipo le mosse del nemico, iniziarono tempestivamente i bombardamenti, schierarono le truppe in profondità nell’eventualità che gli austriaci fossero riusciti a passare il Piave.
Sebbene all’inizio dei combattimenti lo spirito dei nostri soldati fosse abbastanza alto, allorché gli austriaci lanciarono circa 170mila proiettili a gas ci furono momenti di panico, che, però furono presto superati con una rinnovata volontà di resistenza.
All’efficienza dimostrata dalle truppe italiane contribuì l’innovazione di far giungere in linea reggimenti composti esclusivamente da giovanissimi. Fino a Caporetto le nuove leve erano sempre servite per colmare i vuoti nei vari reggimenti, col risultato che l’entusiasmo giovanile si contraeva, si smarriva al contatto col pessimismo o col cinismo dei veterani. Inoltre nell’autunno-inverno 1917 si temeva che i nuovi arrivati fossero contagiati dal “disfattismo” di coloro che avevano partecipato alla ritirata. Perciò il Comando supremo ordinò la costituzione di battaglioni complementari composti soltanto da reclute della classe 1899, i quali vennero mandati in linea dal novembre 1917. L’effetto psicologico di questa immissione di forze fresche fu grandissimo, come fu constatato nella cosiddetta battaglia del Piave o del solstizio, che iniziò il 15 giugno 1918  e, dopo otto giorni di durissima lotta, terminò il 23, allorché il Comando austriaco, a causa della difesa ostinata e aggressiva degli italiani, ordinò la sospensione dell’offensiva e il ripiegamento sulla riva sinistra del fiume Piave.  

-12- Il felice esito della battaglia del Piave ridiede animo agli italiani e fece  ritenere che la crisi di Caporetto fosse stata definitivamente superata. La popolazione civile apparve disposta ad affrontare nuovi disagi, mentre nella psicologia dei soldati sembrò essersi prodotto un mutamento profondo ed universale.
C’erano, dunque, tutte le condizioni affinché l’esercito italiano non continuasse a stare sulla difensiva.    
Francesi, inglesi e americani chiedevano con insistenza che Diaz lanciasse il suo esercito all’attacco,  spinti a ciò dal desiderio che l’Italia, impegnando sul fronte sud la maggior parte delle forze nemiche, rendesse ad essi  più facile il compito sul fronte occidentale.
Anche il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, temendo che l’Italia finisse col doversi presentare alla Conferenza di pace senza aver neppure tentato di riconquistare i territori perduti nel 1917, sollecitava il Comandante supremo a passare all’offensiva. Badoglio e Nitti, condividendo l’opinione di Diaz che la guerra non sarebbe finita prima del 1919, ritenevano come lui che fosse opportuno conservare intatte le energie delle truppe per lo sforzo finale, il quale sarebbe stato compiuto solo allora.
Intanto i tedeschi subivano pesanti perdite sul fronte occidentale, mentre manifestazioni pacifiste avvenivano in Austria e Germania e i governi degli Imperi Centrali sembravano desiderosi di uscire dal conflitto.
Pertanto il presidente V. E. Orlando  riconobbe anche lui che fosse necessario prendere al più presto l’iniziativa di una battaglia sul Piave.
Ma il Comandante supremo continuò a tergiversare e decise l’offensiva solo quando fu evidente che la guerra stava proprio volgendo al termine, per cui  Vienna avrebbe potuto accettare improvvisamente la pace.
Quindi nella tanto esaltata battaglia di Vittorio Veneto (che ebbe inizio in 26 ottobre ’18 e non il 24) in effetti, come scrisse L. Albertini, “gli italiani raccolsero, dopo due o tre giorni di lotta, il frutto delle ribellioni che dissolvevano l’esercito austro-ungarico”, le cui  condizioni morali e materiali erano oltremodo  precarie soprattutto a causa della mancanza di cibo.
Nonostante tutto gli austriaci non rinunziarono alla lotta e, all’inizio opposero una energica resistenza. Ma dopo alcune ore le loro prime linee cedettero e non ci fu più battaglia. A tal proposito G. Prezzolini scrisse: “Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani  debbono lasciarsi dire.”  

Pietro Congedo

martedì 14 giugno 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Dal tragico ottobre 1917 alla quasi lieta primavera 1918



La sconfitta di Caporetto e  l’esonero del gen. L. Cadorna determinarono la fine della separazione tra potere politico e militare, che aveva caratterizzato la Nazione italiana fin dall'inizio del conflitto. Nello stesso tempo il fatto che le truppe austro-tedesche fossero  penetrate profondamente al di qua dei confini nazionali suscitava le più nere previsioni nell'animo di politici e militari italiani. Infatti all'inizio solo pochissimi credevano alla possibilità di fermare il nemico sul Piave. Invece molti erano coloro che ritenevano opportuno ritirarsi fino al Mincio. Di questo si discusse il 15 novembre 1917 in un Consiglio di guerra, durante il quale il gen. Armando Diaz, che dal 30 ottobre era il nuovo Comandante supremo, insisté sulla convenienza di restare schierati sul Piave. Opinione questa condivisa dal capo del governo, V. E . Orlando.

Rimaneva comunque il timore di non poter resistere né sul Piave né sul Mincio, perciò numerosi erano coloro che sostenevano la necessità di una pace separata col nemico, della quale, però, il 10 novembre Luigi Einaudi affermò l’impossibile realizzazione, in quanto l’Italia dipendeva dai suoi alleati per le derrate alimentari, le materie prime, i crediti ecc.. Il successivo giorno 28 anche il ministro Francesco Saverio Nitti  affermò che gli italiani non avrebbero potuto sopravvivere neppure un mese senza l’aiuto amichevole degli alleati.

Tuttavia nell'inverno 1917-’18,  proprio in ordine ad un’eventuale pace separata, il governo italiano e quello austriaco intavolarono trattative con la mediazione della Santa Sede. Trattative queste che presto furono ritenute inopportune, poiché agli italiani non conveniva negoziare col nemico, mentre gli alleati anglo-francesi si trovavano in gravi difficoltà sul fronte occidentale a causa di una poderosa offensiva austro-tedesca.

L’invasione nemica, seguita alla disfatta di Caporetto, non portò la concordia fra gli italiani, infatti ci furono infiammate polemiche  subito dopo la nomina a presidente del Consiglio di V. E. Orlando, che numerosi interventisti indicavano fra i maggiori responsabili della stessa disfatta per la sua politica interna “floscia, irresoluta e snervata”, quando egli faceva parte del governo Boselli. In particolare l’on. Luigi Albertini sosteneva che il governo Orlando fosse il prodotto di una torbida atmosfera parlamentare e il risultato di una combinazione che poteva essere giudicata con favore da giolittiani e socialisti, cioè da neutralisti.

Al fine di combattere il cosiddetto “disfattismo parlamentare”, un centinaio di deputati e senatori, fra cui F. Martini, Antonio Salandra e lo stesso Albertini, si costituirono in “fascio di difesa nazionale”.
Intanto i contadini in Valdinievole (Toscana) gridavano “Viva i tedeschi” (V. F. Martini), quelli delle Marche erano “esultanti” per l’avvenuta disfatta, credendo e sperando nella pace (V. L. Bissolati),  il popolo minuto di Torino restava “irriducibile” (V. On De Fabris), quello di Milano cominciava ad augurarsi l’arrivo dei tedeschi (V. U. Notari), e nel “popolino” napoletano serpeggiavano propositi di rivolta (V. Lettera inviata il 15 dicembre da Benedetto Croce al presidente Orlando).

Il Comando del 3° Gruppo Legioni Carabinieri (Roma), in un rapporto sull’ordine pubblico in Toscana, Umbria, Lazio e Sardegna, relativo al periodo 1° settembre - 31 dicembre 1917, segnalò per due sole provincie su dodici, cioè per Roma e Pisa, un miglioramento delle condizioni dello spirito pubblico, le quali erano, invece, rimaste “normali” per Perugia, Cagliari e Sassari. A Firenze le stesse condizioni continuavano ad essere “anormali” per la carenza di generi  di prima necessità e per la propaganda dei sovversivi. A Lucca ci si lamentava per il prolungarsi della guerra, mentre ad Arezzo, Massa, Livorno, Siena e Grosseto il “malcontento generale” era motivato dalla difficoltà per gli approvvigionamenti.

Dopo Caporetto neppure le popolazioni rurali della province di Verona, Mantova e Padova, benché fossero sotto la diretta minaccia dell’invasione nemica, furono animate da sentimenti patriottici.
   
Nel novembre 1917 si notarono sintomi di ripresa fra le truppe, soprattutto nei primi giorni della resistenza sul Piave. Infatti molti reparti si difesero coraggiosamente contro gli assalti nemici. Tuttavia nel complesso lo spirito combattivo  dell’esercito  italiano continuò a destare non poche apprensioni, per cui ci fu un alternarsi di buone e cattive notizie.

Intanto gli sbandati, dopo il passaggio del Piave, vennero inviati alla rinfusa nei campi di raccolta. In un secondo momento gli stessi vennero suddivisi secondo l’arma a cui appartenevano: 200.000 fanti furono raccolti a Castelfranco Emilia (MO), 80.000 artiglieri a Mirandola (MO), 13.000 genieri a Guastalla (RE) e il carreggio a Copparo (FE). I militari, così suddivisi, cominciarono ad essere inquadrati in reparti organici e riforniti di viveri, vestiario ed armi. I corpi rimessi in efficienza venivano avviati al fronte, dove erano utilizzati con piena fiducia.

Insieme agli sbandati nei campi di raccolta furono radunate alcune migliaia di disertori che al gen. Diaz erano sembrati per la maggior parte “imbevuti” di idee pacifiste e antimilitariste.

Il 14 novembre 3.500 disertori, che erano nella caserma del Macao a Roma, cercarono di ribellarsi e l’ordine venne ristabilito da un reparto di cavalleria. La sera dello stesso giorno i suddetti partirono da detta caserma e, benché scortati da carabinieri e militari armati, durante tutto il percorso cantarono l’Inno dei lavoratori e l’Internazionale e gridarono: “Abbasso Sonnino! Noi non vogliamo la guerra”.

A metà dicembre 1917 il gen. A. Diaz informò il capo del governo che il nemico aveva “enormemente intensificato” lungo tutto il fronte una intensa propaganda demoralizzatrice e pacifista, mediante il lancio di manifestini dagli aerei e dalle trincee, e  con il tentativo di stabilire comunicazioni fra le trincee contrapposte. A questo si aggiungeva l’atteggiamento antipatriottico dei contadini nelle immediate retrovie. Era stata anche diffusa la falsa notizia che a Natale ci sarebbe stata la pace, inoltre il 21 dicembre, una fonte vaticana informò addirittura che, sempre per Natale, c’era il pericolo di uno sciopero militare.

Per questi motivi il Comando supremo impartì l’ordine di intensificare la vigilanza delle truppe dipendenti, di promuovere un’azione di contropropaganda patriottica e di spegnere con prontezza ed energia ogni focolaio di propaganda pacifista.

Prima del 25 dicembre furono quindi adottate le dovute precauzioni. Infatti nuclei speciali di carabinieri furono appositamente costituiti o rinforzati, mentre reparti pronti ad ogni evenienza e raggruppamenti di mitragliatrici e di autoblindo furono collocati nei luoghi ritenuti più vulnerabili.
Gli austro-tedeschi, forse informati delle preoccupazioni dei comandi italiani, proprio alla vigilia di Natale, impegnando al massimo le proprie truppe, tentarono di superare la resistenza dei nostri reparti; questi viceversa, resistendo tenacemente, inflissero loro gravi perdite.
Carabinieri, autoblindo e mitragliatrici, appostati per domare la temuta rivolta, vennero quindi ritirati in buon ordine, e il Natale 1917 venne ricordato dagli italiani come un “Natale eroico”.      

Le voci di “scioperi militari” al fronte e di complotti socialisti nel Paese indussero il Comando supremo a stabilire un’intesa col governo per stroncare la propaganda disfattista. Fu quindi emanato il cosiddetto “decreto Sacchi”, che prevedeva pene severe per chiunque commettesse o istigasse a commettere un qualsiasi fatto capace di “deprimere lo spirito pubblico”. Applicando questa legge furono poi arrestati il segretario nazionale del Partito socialista, Costantino Lazzari, ed il vice segretario, Nicola Bombacci.

Però nella realtà, dopo Caporetto, l’esercito fu più pressato dalla propaganda “disfattista” degli austriaci che non da quella dei neutralisti italiani. Infatti, mentre aerei e razzi nemici lanciavano continuamente sulle nostre armate attestate sul Piave manifestini ed altro materiale propagandistico, gruppi speciali di militari austriaci capaci di parlare italiano venivano inviati sulle prime linee e cercavano di mettersi in comunicazione con le opposte trincee per fare propaganda e nello stesso tempo per assumere informazioni.

Alcuni argomenti utilizzati dagli austriaci per avvilire lo spirito guerresco degli italiani erano: la pace conclusa con i sovietici e la “fraternizzazione” tra austriaci e russi; le vittorie conseguite dai tedeschi sul fronte occidentale e nella guerra sottomarina; il sostenere che Inghilterra e Stati Uniti fossero potenze imperialistiche che speculavano sulla guerra ed intendessero asservire il mondo; la corruzione del mondo politico italiano; l’insistenza sul fatto che le spose e le fidanzate dei combattenti tradissero mariti e promessi sposi con gli imboscati; il sostenere che il Tirolo e l’Istria non fossero abitate da italiani; il sottolineare la forza degli imperi centrali e la debolezza dell’Italia.

Una volta iniziata la resistenza sul Piave erano stati riscontrati segni di ripresa spirituale, ma presto ebbe inizio un susseguirsi di buoni e cattivi stati d’animo.

Secondo Giuseppe Lombardo Radice sul Piave “si resisteva”, ma c’era diffidenza da parte dei soldati verso la propaganda patriottica, e permaneva negli animi “una esagerata idea della potenza del nemico ed un sordo scetticismo per tutto ciò che si diceva circa la nostra capacità di risorgere e di vincere”. Né i comandanti si trovavano in uno stato d’animo molto diverso da quello delle truppe, in quanto la massima aspirazione patriottica nella media dei giovani ufficiali era quella di affermarsi con un’efficace resistenza, per poter riavere con trattative di pace le province invase”. Essi chiedevano insomma la pace con la mediazione vaticana.

Rino Alessi, a pag. 206 della sua opera “Dall'Isonzo al Piave”, ha scritto che esistevano brigate stanche, si riudivano canzoni di scherno per la guerra, e lo scetticismo si diffondeva fra soldati e ufficiali; alla mense di questi ultimi, anzi, si udivano talvolta “discorsi anarchici”.
Il fatto, riferito da Alessi, che  gli ufficiali  parlassero come sovversivi sta a significare che il ragionamento di molti militari era il seguente: poiché dopo Caporetto il sogno di conquistare Trento e Trieste era svanito e dal momento che l’Austria con una pace separata avrebbe certamente restituito all’Italia i territori invasi, per chi e per che cosa si continuava a combattere? Si continuava  a combattere – era la risposta – non più per l’Italia ma per la Francia e la Gran Bretagna.  

All’inizio del novembre 1917, mentre la rotta di Caporetto era ancora in corso, alcune divisioni inglesi e francesi giunsero in Italia e si fermarono tra Mantova, Verona e Brescia. Il Comando supremo italiano invano chiese che almeno una parte di esse fosse subito impiegata contro il nemico. Soltanto il 5 dicembre i comandi alleati consentirono ai primi contingenti di schierarsi sulla linea del Piave, che era ormai tenuta saldamente dalle nostre truppe. Perciò gli italiani ebbero la sensazione che gli anglo-francesi fossero venuti in Italia non come alleati, ma per compiere quasi un’opera di polizia militare. Ad esempio, don Minzoni s’indispettì moltissimo al vedere in qual modo gli ufficiali britannici “ispezionassero e criticassero” lo schieramento adottato dal reggimento di fanteria del quale egli era cappellano.

Sentimenti ostili verso la Gran Bretagna erano presenti fra gli italiani già prima di Caporetto, e nel marzo 1916 Filippo Turati aveva dichiarato in parlamento che i britannici erano interessatissimi a prolungare la guerra, dato che grazie ad essa riuscivano a concludere “eccellenti affari”.
Il risentimento verso gli inglesi superava di gran lunga quello verso i francesi, eppure, dopo Caporetto non dall’Inghilterra ma dalla Francia giunse in Italia un uomo politico intenzionato ad assicurare il predominio militare del suo paese sull’esercito di Diaz. Si trattava del deputato Abel Ferry, che nel dicembre 1917 era stato inviato dal parlamento francese per indagare sulle cause di Caporetto e sui problemi più urgenti dell’esercito italiano. Egli compilò una lunga relazione, nella quale rivolgeva ai quadri delle nostre truppe critiche come le seguenti: lo stato maggiore era di origine aristocratica ed aveva introdotto una disciplina di tipo germanico; gli ufficiali di truppa restavano distanti dai soldati, “non par nature, mais par ordre”; la qualità degli stessi ufficiali lasciava molto a desiderare, anche perché i gradi erano assegnati non ai meritevoli ma ai medio e piccolo borghesi, secondo un criterio sociale; i soldati invece erano buoni, capaci di resistere alla fame e al freddo più dei francesi, e di combattere con slancio. Ferry riferì che, secondo l‘opinione degli ufficiali francesi, l’esercito italiano era eccellente dal punto di vista umano, ma scadente dal punto di vista tecnico. Per rimetterlo in sesto toccava dunque ai francesi intervenire, magari, inviando in Italia 200-300 ufficiali istruttori.

Dunque con la ritirata di Caporetto gli italiani, già poco stimati dai francesi, avevano perso di colpo il prestigio militare conquistato con due anni di dure battaglie. Ma non si teneva conto del fatto che i soldati italiani erano poveri, mal vestiti e scarsamente nutriti, mentre quelli francesi e britannici giunti nel Veneto risultavano al confronto ricchi e privilegiati.

Tuttavia la presenza di truppe alleate suscitò sentimenti contrastanti, perché se da una parte destarono inquietudini, dall'altra promossero confronti e ripensamenti che misero in crisi molte norme comportamentali superate o errate. Per esempio, il fatto che i soldati francesi e inglesi ricevessero un trattamento migliore fu uno dei motivi che indussero il Comando supremo a prendere provvedimenti a favore delle truppe.

Alla fine del gennaio 1918 il Ministero dell’Interno chiese ai prefetti di raccogliere notizie sullo spirito delle truppe mediante interrogatori ai soldati che erano in licenza invernale.
Si ebbe così, con notizie raccolte in circa settanta province e circondari, una informazione complessiva, che non giustificava né i  giudizi pessimistici, circolanti anche in  ambienti governativi, né i giudizi ottimistici di chi immaginava un esercito trasformato dalla resistenza sul Piave. Molti prefetti dichiararono che lo stato d’animo delle truppe era migliorato rispetto all'inverno precedente, definendolo ottimo, buono o soddisfacente; ma nello stesso tempo sottolinearono i preoccupanti segni di stanchezza e di malcontento che inquietavano perfino il presidente Orlando, il quale aveva detto il 15 ottobre al giornalista Olindo Malagodi di ritenere che gli interventisti con i loro discorsi sulla ritirata Caporetto, intesa come “sciopero” o “rivolta politico militare”, avessero finito con l’insinuare nei soldati l’idea di mettere in atto ciò che prima della disfatta non avevano nemmeno pensato di fare.

Il 9 marzo, al Comando supremo, ci fu una riunione, alla quale parteciparono il presidente Orlando, i ministri Bissolati e Nitti, il gen. Diaz e i comandanti delle varie armate. I generali intervenuti dichiararono concordi che c’era stato un grande cambiamento dall'ottobre ‘17 in poi, che il morale delle truppe era “buono”, che l’esercito era ormai ricostituito in piena forza e che la posizione strategica sul Piave risultava “incomparabilmente migliore” di quella sull'Isonzo.
Purtroppo il 21 marzo tornò l’apprensione alla notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte occidentale minacciando direttamente Parigi e Calais. Tuttavia in aprile le angosce scomparvero: l’offensiva tedesca in Francia era stata arrestata.

Pietro Congedo