venerdì 8 aprile 2016

Notazioni sull’assistenza sanitaria alle truppe italiane durante i primi sei mesi della Grande Guerra

Aula Magna dell'Università Castrense di San Giorgio di Nogaro

All’alba del 24 maggio 1915 ai 400mila soldati della II e III armata fu ordinato di balzare in avanti. Avanzando nel buio, le truppe a nord raggiunsero le pendici del sistema montuoso Mrzli-Sleme-Vodil, al centro si fermarono alle pendici del massiccio del Sabotino, mentre a sud avanzarono senza grandi difficoltà fino alla prima settimana di giugno, quando passarono l’Isonzo a Pieris e poi a Gradisca.          Prima dell’offensiva generale, che inizierà il 23 giugno, la guerra purtroppo mostrò il suo truce volto a danno di quei reparti che vennero scagliati alla conquista delle dorsali dei suddetti monti e delle isole sabbiose nei pressi di Gradisca.

Nel diario(*) del dott. Primo Dondero, ufficiale medico sul fronte del monte Sabotino, si legge: “… Alle 20 ( del 27 maggio) il gen. Vespigni mi fa chiamare; deve scendere nella valle che conduce al Sabotino e vuole che lo accompagni… . Lungo la mulattiera incontriamo feriti portati in barella o sorretti da portaferiti. Le notizie sono gravi: abbiamo molti morti, gli austriaci sono ben riparati, in trincee di cemento armato…”.
Mentre i militari trovavano sbarramenti micidiali, i medici dovevano curare ferite sconosciute per la prassi chirurgica civile.

Scrive, infatti, Dondero: “La sezione di Sanità alloggiata nel castello dei Comar … sta allacciando vasi a un caporale a cui una granata ha asportato gli arti inferiori; una cantina del castello è stata trasformata in sala di operazioni. … I due chirurghi sono instancabili, non so quando riposino, continuano ad arrivare feriti, portano gravi notizie. …”[V. Studenti al fronte, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone, 2010, p. 28].

Il 4 giugno il posto di medicazione del dott. Dondero, mentre veniva spostato verso le prime linee, in una osteria abbandonata, venne investito verso le ore 10  da una grandine di shrapnels e granate, a cui risposero con rabbia le nostre batterie. Questa fu un’occasione per rendersi conto di quanto fosse difficile la gestione logistica delle strutture sanitarie campali sotto un furioso duello di artiglieria.
Annota Dondero: “…Gemono i feriti, chiedono soccorso… . Tutti gli altri posti di medicazione sono affollatissimi: le ambulanze continuano a sgombrare verso Quisca e anche su di esse sparano gli austriaci. Alle 18 cessa il tiro nemico e così m’è dato sgombrare dai feriti le sale del castello. …”[Ibidem, p.29]

Dal 23 giugno al 7 luglio ebbe luogo la prima battaglia dell’Isonzo, durante la quale i fanti italiani, andando all’attacco quasi sempre spalla a spalla, serrati l’uno all’altro, venivano investiti e falcidiati dal micidiale fuoco di sbarramento degli austriaci.

Perciò i risultati conseguiti furono minimi nonostante la perdita di 13.411 uomini (1.916 morti + 11.495 feriti), che rappresentavano il 6% del totale delle forze impiegate sull’intero fronte.
Le strutture sanitarie, sebbene fossero state organizzate per garantire la spedalizzazione immediata del 20% dei componenti di una unità, di fronte ad un numero superiore di feriti, iniziarono a collassare. Ciò avveniva perché le perdite riguardavano quasi esclusivamente i reparti che avevano preso parte alle prime ondate dell’offensiva, gli organici dei quali andarono distrutti dal 50% al 70%.

Il 24 giugno il dott. Dondero scriveva nel suo diario: “… Poveri miei fanti! Vi ho lasciati da breve tempo … eravate così ragazzoni ingenui e pieni di baldanza … ora tornate da me, grondanti sangue, laceri, febbricitanti, barcollanti … supini sulle barelle, coperti, dalle occhiaie incavate nei visi pallidi e sparuti, come se una lunga tragedia, una lunga estenuante febbre vi avesse consumati … sospirate, scrutando nel vuoto un nome che è di persona lontana che prega per voi e non sa che la vita vi sfugge … . Mando tutti i portaferiti … alle 15 sul Sabotino. … E’ un ininterrotto arrivo di feriti, i più leggeri da soli, i più gravi sorretti, portati.”.

Il 25 giugno così prosegue “… Prima dell’alba un battaglione del 34° è sceso da Podsabotino per occupare parte delle nostre trincee; due nostre compagnie sono di rincalzo. Alle 10 giungono i primi feriti del 34°; il Sabotino non dà tregua. Il tenente medico Capugi del 34° mi dà il cambio perché il maggiore ha detto che dobbiamo ripulirci e riposare almeno una notte. Là mi corico sulla mia coperta di lana stesa sul pavimento. …”.
Ma dopo un paio d’ore al dott. Dondero fu ordinato dallo stesso maggiore di andare nelle trincee a raccogliere i feriti e i morti, poiché gli austriaci avevano alzato la bandiera della Croce Rossa [V. Ibidem p.p. 32, 33 e 34].    

La seconda battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 18 luglio al 3 agosto 1915. Essa, nella descrizione fatta dagli austriaci, fu per le truppe italiane “un massacro senza precedenti. Un orribile bagno di sangue. Il sangue scorre ovunque, ed i morti e i corpi fatti a pezzi si trovano tutt'intorno”.
In effetti ci fu l’annientamento di 41.846 uomini, in appena 15  giorni ed in un arco geografico non superiore ai 30 chilometri. “Passarono molti autocarri stracarichi di feriti: soldati di fanteria insanguinati e laceri; teste, braccia e gambe fasciate, un orrore!” raccontò chi c’era.
I comandi, impreparati ad un simile costo umano, reagivano cercando di occultare al paese il reale dramma che stavano vivendo i nostri soldati. Nello stesso tempo ordinavano: “I posti di medicazione, durante il combattimento, non siano sistemati in mezzo alle truppe per evitare ai rincalzi, che attendono di portarsi in linea, un’impressione deprimente …”[V. Ibidem  p.p. 35-36].

Della terza battaglia dell’Isonzo (18 ottobre – 4 novembre 1915) un soldato della  brigata del dott. Dondero così ha descritto l’offensiva a cui prese parte: “… Era il 21 ottobre 1915, alle dieci del mattino, il capitano ha tirato il sorteggio, quale dei quattro plotoni della compagnia doveva uscire per primo. … Adesso tocca a me, sono tutto agitato, mi preparo bene, salto fuori dalla trincea, vado avanti tra le pallottole, poi mi stendo dietro una piccola pietra. …Sono (disteso)… quando sento un colpo nella spalla e poi un altro nel piede … . Sento il sangue alla spalla destra e al piede, e resto tre ore sempre lì … . La gamba destra gonfia a vista d’occhio, continuo a perdere sangue. Arriva un portaferiti, gli chiedo di aiutarmi, mi risponde: ‘L’ordine è di portare giù solo i morti’. … Allora mi trascino giù rotolando lungo la montagna […]. E cado come morto proprio nel posto di medicazione. Un tenente medico ordina di medicami, mi bendano alla meglio, resto lì su una barella fino all’indomani. Poi con la barella mi portano a Plava, due chilometri più in basso. A Plava si concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Lì ci sono anche i pezzi dell’artiglieria e i nostri ci hanno messo sopra una croce rossa. Ma gli austriaci se ne accorgono, incominciano a bombardare, noi feriti saremmo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro. Nella notte ci portano verso San Floriano … . Poi arriviamo a Udine, nel campo contumaciale, dove saremmo cinquemila  i feriti. In uno stanzone al primo piano sono sette o otto i medici che operano, c’è anche il dottor Lerda di Torino. C’è una finestra spalancata, e sotto nel cortile c’è un camion. I medici tagliano braccia e gambe, e le buttano dalla finestra, le buttano sul camion perché non puzzino … .  [V. Ibidem p.p. 37 e 38].

Il 4 novembre, dopo una serie di attacchi e contrattacchi … le operazioni offensive terminarono.
Nella Terza Battaglia dell’Isonzo ci furono: 10.663 morti, 44.290 feriti e 11.985 dispersi: quasi tremila quindi erano i feriti che ogni giorno scendevano dalle prime linee. Il tenente Carlo Salsa, di fronte a quel carnaio, scrisse fra l’altro: “Il posto di sanità è installato in una casupola nascosta … . La fiumana dei feriti e dei malati s’infrange contro la porta angusta: sosta in silenzio rassegnato, inerte, sotto l’acquerugiola che infierisce; sfila a poco a poco, come filtrando fra gli spiragli di una chiusa, dinanzi alla spiccia ruvidità dei medici frettolosi. …[V. Ibidem p. 39]
           
Il 10 novembre 1915 ebbe inizio la Quarta Battaglia dell’Isonzo, nel corso della quale in mezzo a un nubifragio, peggiorato dalla Bora che spazzava l’altipiano, i fanti della II e III armata si lanciavano all'assalto del Sabotino, del Podgora e del monte San Michele senza riuscire a conseguire i risultati sperati. Tra il monte San Michele e San Martino del Carso la brigata Sassari perdette 2.549 uomini, circa la metà del suo organico, prima di venir rispedita in retrovia, dove gli ospedali erano già oberati di feriti: “Si sentiva la povera gente che gridava, perché operavano senza indormia (senza anastesia). Tagliavano braccia, gambe, secondo la ferita che si aveva. Quelli che morivano venivano portati al cimitero su un carretto tirato da un cavallo o da un mulo. Il cimitero era pieno. I feriti erano molti e avevano un aspetto spaventoso. In alcuni si vedevano pendere le bende sanguinanti e pezzi di carne. Uno piangeva, l’altro gemeva, il terzo chiedeva aiuto. […]
I feriti arrivano e partono in processione. Essi giacciono uno vicino all'altro nei corridoi, sulla paglia, e vengono portati in sala d’operazione a seconda delle ferite più o meno gravi. Alcuni muoiono sulla barella, altri sul tavolo d’operazione, i più fortunati nel loro letto. IL sangue scorre in terra, non si può passare senza insanguinarsi, l’odore del sangue è sempre nel naso” [ V. Ibidem p. 41].
Il 2 dicembre, al termine dell’offensiva durata 23 giorni, oltre 7.400 erano i soldati morti, quasi 40.000 i feriti, e 7.100 i dispersi.
L’arrivo dell’inverno comportava la cessazione delle offensive generali.

Le perdite subite dai reparti dell’Esercito, impiegati nelle prime quattro battaglie dell’Isonzo, erano state superiori alle possibilità assistenziali e chirurgiche che potevano essere garantite dalle strutture ospedaliere campali. Infatti, mentre tra maggio e  novembre 1915 le divisioni della III armata operanti in linea sul Carso avevano avuto un numero di feriti pari al 44% del numero delle forze disponibili (cioè  173mila su un organico di 352mila), alla Sezione Sanità erano state fornite risorse (umane e mediche) sufficienti per un numero di feriti corrispondente al 25% delle stesse forze. Inoltre nell’inverno del 1915 esplosero gravissime infezioni di tifo e di colera, a causa delle quali su circa 21mila contagiati ci furono 4.229 morti.
Pertanto il Servizio Sanitario Militare e della C.R.I. aveva l’impellente necessità di avere aumentate le proprie risorse umane.

La mancanza di un congruo numero di medici nei posti di soccorso e negli ospedali comportava sia l’impossibilità di curare in tempo i feriti gravi, che spesso morivano per dissanguamento, sia l’effettuazione di operazioni chirurgiche frettolose, le quali si concludevano quasi sempre con amputazioni che magari sarebbero state evitate se fosse stato possibile agire con la dovuta calma.
Fra i primi espedienti a cui si ricorse per ovviare alla scarsezza di personale sanitario  ci fu la chiamata alle armi (aprile 1916) dei medici di classi antecedenti all’ultima classe mobilitata (1876) nonché il riesame dei sanitari delle zone territoriali per vedere quanti di essi e per quali ragioni fossero inidonei ai servizi di guerra. Ma tutto questo non era certo sufficiente per fronteggiare le esigenze del servizio di prima linea, le quali richiedevano un gran numero di giovani medici.
Pertanto si ritenne indispensabile provvedere al cambiamento dello status del servizio sanitario mediante la nomina ad Aspiranti Ufficiali Medici (nuovo grado  nella gerarchia militare) degli studenti che avessero compiuto il 4° anno di medicina, i quali dovevano coadiuvare gli Ufficiali Medici ed eventualmente sostituirli nei battaglioni .
Dopo molte discussioni e qualche inevitabile compromesso si arrivò  all'emanazione del Decreto Luogotenenziale n° 38 del 9 gennaio 1916, con il quale si istituivano in San Giorgio di Nogaro i ‘Corsi di medicina e chirurgia  per gli studenti del 5° e 6° anno di medicina che si trovavano sotto le armi’. [V. Ibidem p.p. 43 – 48].

Nacque così la Scuola Medica da Campo, denominata anche  Università Castrense.

Pietro Congedo

Note
(*) Il diario del dott. Primo Dondero  è consultabile sul sito www.isonzofront.altervista.org