sabato 26 marzo 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Contrasti e crisi del primo semestre 1916

Gen. Luigi Cadorna
Nel 1916 fra politici e militari divenne sempre più aspra la contesa su “chi” dovesse guidare la guerra che, invece, continuò a procedere quasi per suo conto, perversa e indomabile, ribelle ad ogni regola che le si sarebbe voluta imporre.
 A tal proposito il generale Antonino Di Giorgio nel 1919 ammise: “La verità  è che nessuno governò l’Italia in guerra”.
In passato i politici si erano quasi sempre disinteressati dell’esercito, mentre i militari avevano impedito al Parlamento di ingerirsi nei loro affari. Tuttavia non erano mancate del tutto le interferenze fra i due mondi. Infatti i ministri della Guerra e della Marina dibattevano i problemi dei loro dicasteri  in seno al Consiglio dei ministri e, come tutti i membri dell’esecutivo, erano soggetti al controllo del Parlamento; il Governo utilizzava di continuo le truppe per garantire l’ordine pubblico. Nonostante questo, i due mondi continuavano a restare estranei l’uno all’altro, animati da reciproca diffidenza. Per esempio: mentre il generale Emilio De Bono, descrivendo la vita degli ufficiali nell’anteguerra,  affermava che nessuno di essi si occupava di politica, l’on. F. Marazzi testimoniava che prima del conflitto era stato “quasi un vanto civico far pompa d’ignoranza di ogni nozione militare”.

Le operazioni militari, che nel 1915 si erano concluse con un bilancio del tutto insoddisfacente, e le notizie diffuse nel Paese dai militari feriti o in licenza destavano allarmi e apprensioni non solo ai comuni cittadini, ma anche ai  parlamentari.                  
Fra i tanti l’on. Giampietro, che era ufficiale dell’esercito, denunciava un vero e proprio spreco di denaro pubblico causato da un piano strategico e da un’azione sbagliati, mentre il giornalista Gaetano Salvemini, tornato dal fronte, affermava  che il tentare e ritentare sempre la stessa impresa, senza che questa riuscisse, aveva depresso lo spirito dei soldati.
Il 26 gennaio 1916 in una riunione del Governo Salandra il gen. Vittorio Italico Zupelli, responsabile del dicastero della guerra, nell’intento di dare fiducia a quei suoi colleghi che dicevano di non capire nulla di tattica e di strategia, presentò un memoriale nel quale affermava fra l’altro che il gen. Luigi Cadorna avrebbe dovuto:

  • evitare di disperdere tutta le forze disponibili sull’intero fronte e concentrarle, invece, sul Carso dove il nemico era più vulnerabile; 
  • non sospendere le ostilità in inverno, poiché proprio in tale stagione sarebbe stato possibile impadronirsi del Carso e precludere al nemico le vie per Trieste.

Secondo Zupelli  bisognava, perciò, riunire immediatamente su un breve fronte di 12 km almeno 500 delle 770 bocche di fuoco possedute ed riprendere le operazioni offensive  entro il mese di febbraio, cioè nel giro di pochi giorni.
Dopo Zupelli, prese la parola il ministro Sidney Sonnino, il quale dichiarò che le sorti della guerra le doveva decidere il  “Consiglio di difesa”, ma  che, essendo questo un organismo operante solo in periodo di pace, si era nell’impossibilità di convocarlo.
Pertanto il presidente  Salandra ritenne opportuno scrivere il 30 gennaio una lettera al Re per informarlo del disagio dell’intero Governo per quanto stava accadendo.
Il Consiglio dei ministri tornò a d occuparsi della questione il 6 febbraio, decidendo di inviare Zupelli al fronte, perché esponesse il proprio piano a Cadorna.
Il ministro della guerra partì e tornò soddisfatto, perché il Comandante supremo aveva  accolto i concetti base del piano formulato nel suddetto memoriale in modo diverso da come ci si potesse aspettare.
Però col passar del tempo i concetti espressi in detto memoriale, peraltro già non ritenuti validi dal Re, cominciarono a sembrare fantastici ed assurdi agli stessi ministri che in un primo momento li avevano approvati.
Intanto il Comandante supremo, che ben sapeva di avere molti avversari, messo sul chi vive dal memoriale Zupelli e dalle voci in giro di una sua imminente sostituzione, decise di passare al contrattacco avverso i “nemici che erano a Roma”. Infatti chiese il sostegno del giornalista Ugo Ojetti, il quale, oltre a farlo subito  intervistare in un posto avanzato da un giornalista del quotidiano «Idea Nazionale», gli assicurò sulla stampa italiana di febbraio tutta una serie di articoli laudativi del suo operato. Perciò  Cadorna il 29 febbraio ringraziò Ojetti, dimostrandosi contento che il Comando supremo fosse stato considerato superiore alle critiche degli ignoranti e degli sfaccendati. Chiara allusione questa agli uomini politici.
Però lo stesso Cadorna, dopo l’esaltante campagna giornalistica in suo favore, poté finalmente dare sfogo al proprio risentimento verso Zupelli, imponendo a Salandra la destituzione del ministro della guerra: o via lui, scrisse, o via io.
Il presidente del Consiglio rispose di non poter subire imposizioni, precisando altresì che secondo lo Statuto del Regno d’Italia solo al sovrano spettava la nomina e la revoca dei ministri.
Due giorni dopo Cadorna replicò al Capo del governo con la presentazione delle proprie  dimissioni da Comandante supremo.
Salandra reagì rimettendo l’intera questione nelle mani del Re, cioè dichiarando fra l’altro: “Con perfetta tranquillità di spirito ritengo però che in questo momento sia nell’intesse del Paese minor danno cambiare il ministro che non cambiare il capo di stato maggiore, perciò rassegno le mie dimissioni e resto in attesa degli ordini di Vostra Maestà”.
Il Re ribadì il principio che la richiesta di allontanare Zupelli non era corretta  dal punto di vista costituzionale. Cadorna rinunciò allora sia alla sua richiesta sia al suo proposito di dimettersi. Anche Salandra non parlò più di lasciare il Governo.
Alla fine, dunque, se nella forma l’ebbe vinta il presidente del Consiglio, nella sostanza fu il comandate supremo a prevalere, anche perché il 9 marzo Zupelli, adducendo come motivo il clamore suscitato da una campagna giornalistica in corso, si dimise. A questo proposito Salandra scrisse poi al Re di ritenere che il ministro della guerra non a torto vedeva nella la campagna giornalistica contro di lui l’ispirazione dello Stato Maggiore.
Fu quindi nominato ministro della guerra  il generale Paolo Morrone, in base a una scelta fatta non da Salandra, ma dallo stesso Cadorna. Circostanza questa peraltro confermata dal ministro delle Poste Vincenzo Riccio, il quale scrisse che il Morrone era in seno al Consiglio dei ministri la longa manus del gen. Cadorna, i cui ordini eseguiva “con poco ingegno e molta scrupolosità”. Il Consiglio dei ministri si adattò al nuovo modus vivendi e per un certo tempo non pose più in discussione l’operato del Comando supremo
Tutto questo è la dimostrazione inequivocabile che nel 1916 in Italia il Comando supremo dell’Esercito contava molto più del Governo dello Stato.

Il 15 maggio, improvvisamente, le truppe austro-ungariche, iniziarono nel Trentino, fra i fiumi Adige e Brenta la strafexpedition (= spedizione punitiva) contro l’Italia che aveva tradito la Triplice Alleanza, di cui faceva parte insieme a Germania e Austria. Sin dagli ultimi giorni di marzo erano stati avvertiti dai reparti italiani i sintomi di una possibile offensiva austriaca, ma non era stata messa in atto nessuna misura preventiva in quanto Cadorna diceva di non creder che i nemici volessero impegnarsi nel Trentino. E il 15 maggio, quando gli austriaci  avevano già sfondato le linee italiane, i ministri, che ancora non lo sapevano, dopo una riunione del Consiglio, erano rimasti a discorrere della guerra, in quanto erano preoccupati che dal punto di vista militare l’Italia si stesse facendo molto poco.
Ma quando giunsero le prime gravissime notizie dal fronte lo sgomento fu generale.
La strafexpedition aveva portato la guerra in casa: gli austriaci avanzavano in territorio italiano e non si sapeva ancora dove sarebbe stato possibile arrestarli. Pertanto il 24 maggio, 1° anniversario della dichiarazione di guerra, ci fu un’agitatissima riunione del Consiglio dei ministri, durante la quale  Barzilai e Martini dichiararono che la loro fiducia in Cadorna era scossa, mentre Sonnino disse addirittura di essere seriamente preoccupato che le sorti d’Italia fossero affidate ad una sola persona, la quale neppure dava conto del suo operato e, perciò, propose  la convocazione di un convegno tra Cadorna, i Comandanti di armate, il Capo del governo e cinque ministri.
Tale proposta venne approvata dal Consiglio, ma il Comandante supremo il 25 maggio telegraficamente comunicò il proprio rifiuto di aderirvi, adducendo una articolata motivazione la quale si concludeva con l’affermazione che egli, fino a quando avesse avuto l’onore di godere della fiducia del Re e del Governo, si sarebbe assunte tutte le responsabilità, altrimenti avrebbe pregato di essere sostituito con la massima urgenza. Comunque si dichiarava disposto a fornire tutte le informazioni desiderate.
A questo punto i ministri, non sapendo cosa fare, inviarono in zona di guerra per raccogliere informazioni il solo gen. Morrone. Questi, dopo quattro giorni, tornando dal fronte portò al Consiglio il rapporto di Cadorna, costituito di  un sola paginetta!
In questa, però, era fra l’altro scritto che, a causa della minacciata invasione austriaca dalla parte della Val Lagarina, poteva diventare necessaria la nostra ritirata dall’Isonzo al Piave.
La lettura di detto rapporto provocò una vera insurrezione dei ministri presenti.      
E, mentre V. E. Orlando dichiarava che una ritirata fino al Piave avrebbe significato la capitolazione e la guerra perduta, Sonnino affermava che Cadorna aveva tradito il Paese e bisognava porre il dilemma: “O lui, o noi”. Anche Martini, Barzilai e Riccio sostenevano che fosse necessaria la sostituzione del Capo di stato maggiore, che fu quindi proposta al Re. Questi non sollevò obiezioni, ma dichiarò esplicitamente che l’iniziativa doveva essere assunta dal Governo. Ma il presidente Salandra, cercando di non affrontare subito il problema, convinse il Consiglio a deliberare di lasciare Cadorna al suo posto, tenendo pronto un successore. Quindi tutto restò come prima e non si riuscì neppure a convincere il Comandante supremo ad informare preventivamente il governo di una eventuale ritirata dall’Isonzo al Piave.              
Questa impotenza, dimostrata nella direzione delle vicende militari, contribuì alle dimissioni del presidente Salandra (18 giugno 1916), ormai inevitabili in quanto al suo scarso impegno nella condotta della guerra (peraltro dichiarata contro la sola Austria) erano addebitati i gravi insuccessi sui campi di battaglia.
Dopo la caduta di Salandra la classe politica italiana non fu in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Venne, infatti, costituito un governo di unità nazionale, presieduto da un uomo politico di scarso rilievo e di ancor più scarsa autorità, qual era l’anziano patriota Paolo Boselli. Questi secondo il senatore L. Albertini era “uomo che nel discutere scivolava via senza che si riuscisse ad afferrarne il pensiero, perché non aveva un pensiero ben definito e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze”.
Proprio traendo norma dall’ambiente e dalle circostanze e vedendo che l’offensiva nemica sull’Altopiano di Asiago era stata fermata, il neo Capo del Governo ritenne opportuno inviare un telegrafico e fidente saluto “all’insigne capitano” che guidava “i soldati d’Italia alla vittoria”.
Ma di queste parole furono scontenti tanto Cadorna e i cadorniani quanto gli anticadorniani. I primi perché giudicavano le stesse troppo caute e, quindi, non   rappresentanti un vero encomio. I secondi perché rimproveravano al nuovo Governo di avere in tal modo impegnato, senza un preventivo esame, la propria libertà di giudizio in ordine al problema di un eventuale esonero del Comandante supremo. Problema questo che si era seriamente posto il Ministero precedente.
Nei primi giorni di attività governativa Boselli chiese al Capo di stato maggiore  una relazione sulle ultime operazioni militari da leggersi in parlamento. La ebbe, ma non se ne valse. Cadorna si offese, tanto più perché venne a sapere che il presidente del Consiglio abitualmente parlava male di lui.
La contesa tra militari e politici sulla conduzione della guerra, che tendeva a inasprirsi all’inizio del 1916, non era stata, quindi, neppure mitigata, intorno alla metà di giugno in virtù dell’azione generosa anche se non sempre appropriata di alcuni uomini di governo, ed in particolare del ministro  Zupelli.
Ma alla fine del 1° semestre, cioè dopo l’uscita di scena del Governo Salandra (17 giugno), mentre la guida dell’Esercito era ben salda nelle mani di Luigi Cadorna le condizioni politiche del Paese subirono un imprevisto e grave peggioramento. Infatti il Governo Boselli “Era il ministero della debolezza che simulava la forza”,  come disse F. S. Nitti. Era un Governo di Unità Nazionale, cioè di tutti i partiti e rischiava l’inefficienza e la paralisi nell’azione. Inoltre era guidato da un politico compiacente e benevolo con tutti e ormai al termine della sua carriera politica.                                                                                                                                                    
Il Ministero Salandra aveva avuto dodici ministri. Invece quello di Boselli ne contava venti, di cui solo tre [ V. E. Orlando (interni), P. Morrone (guerra), S. Sonnino (esteri)] con l’esperienza governativa che mancava agli altri diciassette. Infine questi ultimi, essendo diversi fra loro per formazione ed idee, difficilmente avrebbero potuto assicurare quell’azione decisa ed efficiente necessaria al Paese in guerra.

Pietro Congedo