Le truppe si adattarono presto alla nuova guerra, tanto diversa da quelle del passato. In particolare anche l’adattamento consistente nell'accettazione di un conflitto di lunga durata che non era certo facile, fu reso possibile dal fatto che i soldati continuarono a credere nella brevità della guerra. Infatti alla fine del 1915 previdero la pace per la primavera del 1916, in primavera la attesero per l’autunno, in autunno per la primavera successiva, e così di seguito. Finché, nell'autunno del 1918 furono in molti ad ingannarsi, pensando che la pace sarebbe giunta nella primavera del 1919. Per esempio, il giornalista Ugo Ojetti, addetto presso il Comando supremo alla tutela degli oggetti d’arte e dei monumenti delle zone di guerra, il 25 ottobre 1918 scrisse alla propria moglie: “Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera”.
I soldati, che nelle prime settimane del conflitto non sapevano scavare nel terreno luoghi in cui ripararsi dal fuoco nemico, impararono presto a costruire complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali si poteva vivere sia pure nel fango e nella sporcizia, sia sotto tiro dei fucili che sotto il bombardamento dei cannoni austriaci.
Inoltre si adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal nemico, in quanto riuscivano a vivere la vita di trincea come se si trattasse di un’esistenza “normale”, priva di eccessive tensioni od emozioni.
D'altronde abitualmente il vivere in trincea, mentre di notte era movimentato, di giorno era tranquillo. Infatti di notte i soldati o uscivano di pattuglia o dovevano restare all’erta per evitare sorprese. Invece di giorno: non c’era sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire, poiché c’era tanto poco da fare che la distribuzione dei viveri costituiva quasi sempre l’unico avvenimento della giornata.
Tuttavia il trascorrere nell'ozio intere giornate finiva col logorare psicologicamente gli stessi soldati, procurando loro una “forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può concorrere al proprio benessere, e con un torpore intellettuale” ( V. Relazione del gen. Luigi Capello del gennaio 1916).
I combattenti istruiti e colti soffrivano più degli altri a causa di questa decadenza intellettuale. A tal proposito in una lettera del gennaio 1916 Giacomo Morpurgo scriveva: “Davvero che i nostri cervelli si impigriscono nell'esercizio unico e limitato del compito giornaliero, sempre uguale, e sempre terra terra».
Neppure le azioni difensive o offensive scuotevano il soldato dall'apatia e dal fatalismo nei quali era immerso. Anzi, secondo lo psicologo Agostino Gemelli, “L’insensibilità affettiva, l’apatia sentimentale crescevano durante le azioni. …”. Apatia e fatalismo si manifestavano soprattutto durante i bombardamenti austriaci, quando non restava che attendere, nella più assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico.
Lo spirito delle truppe era già definitivamente mutato alla fine 1915. Infatti era ormai scomparso lo spirito garibaldino e la guerra sembrava ai combattenti non troppo diversa da un lavoro da portare a termine, o da una calamità naturale che necessariamente bisognava accettare.
Distacco, spersonalizzazione e fatalismo caratterizzavano tutti i comportamenti del veterano, il quale ormai sapeva adattarsi alle circostanze. Se egli non si offriva più volontario ad azioni pericolose, era perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato l’inutilità di tanti gesti eroici compiuti perfino durante azioni insignificanti.
L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sul comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei numerosissimi fanti-contadini. A tal proposito scriveva padre A. Gemelli: “Parlare di patria a … questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno certo coscienza nazionale […] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi […] E’ un uomo.”
Di conseguenza gli accenti epici molto di rado comparivano nelle canzoni, spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi fra i combattenti. In esse quasi mai si nominava l’Italia, invece quasi sempre si esprimevano affetti familiari ed amorosi: in altri termini i sentimenti dell’uomo prevalevano su quelli del cittadino.
Fra i soldati erano, però, molto diffuse strofette e canzoni “proibite”, che nominavano la patria, il re o Cadorna, ma per schernirli o per ingiuriarli.
Gli obiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio “Trento e Trieste”, erano forse gli unici che tutti i soldati potevano comprendere facilmente. Tuttavia gli stessi non potevano avere un significato patriottico per i contadini, che rappresentavano circa metà dell’esercito e quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite e, perciò, alla fine del conflitto, gli orfani di contadini erano 218.000 (63%), su un totale di 345mila orfani di guerra. La classe più contraria alla guerra offrì, dunque, alla patria il maggior contributo di sangue.
I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia alla luce delle loro esperienze dirette, cioè come presa di possesso di territori da arare e da seminare. A tal proposito Arrigo Serpieri, economista agrario, ha scritto: “I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell'ira di Dio per conquistare quella terra da pipe”.
Dopo il 1915 gli ufficiali si trovarono in una condizione di spirito molto somigliante a quella dei loro subordinati. Sotto molti punti di vista, anzi, l’adattamento degli ufficiali risultò più difficile di quello dei soldati. Infatti gli ufficiali potevano distinguersi dai semplici soldati per una maggiore sensibilità ai valori patriottici, per l’istruzione e l’educazione ricevute, per le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando, per i privilegi conferiti dal grado. Ma nelle prime linee la guerra parificava tutti i combattenti, senza fare distinzioni tra comandanti e comandati. Infatti in trincea l’ufficiale non correva rischi minori di quelli dei suoi soldati, e durante le azioni ne affrontava forse di più grandi, poiché usciva sempre con gli altri allo scoperto, spesso esponendosi davanti a tutti per dare esempio di coraggio.
La maggiore sensibilità ai valori patriottici procurava agli ufficiali una maggiore pena nel vedere deluse le attese della vigilia. Perciò nello svolgersi della dura esperienza quotidiana anche il loro sentimento patriottico si affievoliva.
Le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando talvolta portavano l’ufficiale ad avere invidia dei propri subordinati. Sentimento questo che Paolo Marconi, giovane ufficiale alpino, espresse in una sua lettera del febbraio 1916, scrivendo fra l’altro: “… I soldati…se ne stanno lunghe ore tranquilli a contemplare il cielo e la terra, maestosamente. … Noi no! Noi dobbiamo vigilare, tutto osservare, a tutto badare. Spesso manifestare severità e rigidezza che in realtà non abbiamo. E di fronte all'incubo delle cose esterne … si fanno aride le fonti della vita interiore”.
Nella prolungata vita trincea proprio queste cogenti responsabilità spesso determinavano in alcuni seri disturbi di natura psicologica. Il direttore di sanità del VI Corpo d’armata, Gerundo, essendo stato interpellato a tal proposito dal gen. Luigi Capello, il 7 gennaio 1916 scriveva: “Da qualche tempo si notano frequenti casi di esaurimento nervoso specialmente negli ufficiali, che si presentano la maggior parte sotto una forma depressiva ed in alcuni casi, fortunatamente rari, sotto forma eccitatoria (sic). Mentre i primi si presentano in genere apatici, indolenti, ipobulici, attoniti, gli altri si presentano con fenomeni alterni di eccitabilità e di depressione. […]”.
Nel corso del conflitto la questione che più di ogni altra agitò l’animo dei combattenti fu quella degli “imboscati”, cioè di tutti coloro che si sottraevano al servizio di guerra e restavano lontano dal fronte. Tuttavia, essendo tale questione molto sentita, il termine “imboscato” finì con l’assumere svariati significati. Per esempio: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia, che chiamavano “armate della salute”; per i fanti erano imboscati gli artiglieri; e per l’intero esercito erano imboscati tutti coloro che non si trovavano in zona di guerra.
Comunque il problema dell’imboscamento veniva avvertito dai soldati in forma sempre più acuta, perché continuamente ne venivano alla luce casi clamorosi come i seguenti:
- lontano dal fronte prestarono sempre servizio i tre figli del presidente del Consiglio Antonio Salandra, il quale a suo tempo aveva solennemente dichiarato che gli stessi sarebbero andati in prima linea;
- il sottotenente Edoardo Agnelli, proprietario della FIAT, prestava servizio presso il Comando supremo in qualità di vice-direttore del parco automobilistico, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage FIAT di Milano.
A partire dall'ottobre 1915 il Governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio militare dell’importo annuo di lire sei (subito battezzata dai soldati “tassa sugli imboscati”), alla quale erano assoggettati sia i riformati che gli esonerati. Questi ultimi costituivano una categoria molto numerosa, poiché vi facevano parte gli addetti a vari uffici e servizi nonché gli operai di industrie in qualsiasi modo impegnate in produzioni utili alla guerra. Inoltre gli operai richiamati raramente erano assegnati alla fanteria poiché, se conoscevano anche superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, venivano avviati ad altri corpi speciali. Questo convinse il fante-contadino che dire operaio equivaleva dire imboscato, cioè nascosto in qualche corpo speciale o semplicemente rimasto in città a lavorare guadagnando bene.
I fanti-contadini, che non avevano certo voluto la guerra, vivevano, dunque, nella consapevolezza che soltanto per loro non esistevano alternative alla lotta in prima linea, come peraltro riconobbero alcuni autorevoli uomini politici: “La guerra la fanno i contadini!” gridò alla Camera l’on. Soderini. “La pagano col loro sangue in proporzione del 75 per cento”, confermò l’on. G. Ferri.
Francesco Congedo