Padre Agostino Gemelli in divisa da Ufficiale Medico |
Il 30 giugno 1914 cominciarono
le ostilità dell’Austria contro la Serbia: ebbe così inizio il conflitto che divenne poi mondiale
e durò più di quatto anni.
Il successivo 3
settembre il cardinale Giacomo Della Chiesa fu eletto papa col nome di
Benedetto XV e il 1° novembre 1914 pubblicò la sua prima enciclica “Ad
Beatissimi Apostolorum”, nella quale si appellava ai governanti delle Nazioni
per far tacere le armi, perché cessasse lo spargimento di sangue umano.
In seguito all'entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915) la Santa Sede, chiusa e prigioniera in
Vaticano, rimase ancor più isolata dopo la dipartita degli ambasciatori degli
stati belligeranti. Tuttavia Benedetto XV, constatando con amarezza l’allargamento del conflitto e il notevole
incremento del numero di morti e distruzioni, non smise mai di inviare sia
proclami per la pace ai governi degli stati belligeranti e concreti aiuti alle
popolazioni civili direttamente coinvolte
dalle vicende belliche.
Egli è
particolarmente ricordato per essersi invano prodigato a promuovere, con una
“nota” del 1° agosto 1917, la sostituzione della guerra con un arbitrato
internazionale atto a far cessare la “inutile strage” di esseri umani.
Il grido di dolore
del pontefice per siffatta strage e i suoi continui proclami di pace furono,
però, molto ascoltati dai cappellani militari, detti “soldati di Dio”. Questi
godevano del favore incondizionato del comandante supremo dell’esercito
italiano, Luigi Cadorna, il quale era molto religioso ed anche padre di due
suore, ma nello stesso tempo era il più accanito sostenitore della “giustizia
del piombo” (cioè dei processi sommari concludentisi tutti con la fucilazione
dei militari ritenuti indisciplinati) nonché l’inventore di quella efferata
forma di annientamento d’innocenti, detta “decimazione”.
I cappellani
militari furono tra le figure più importanti e significative della grande
guerra. I soldati trovavano nel proprio cappellano un prezioso confidente, un
ponte tra l’orrore delle battaglie e i ricordi della propria terra o della
propria famiglia; una speranza tra la violenza e la morte. Grazie alla figura
del cappellano, il soldato poteva sentirsi al riparo dai turbamenti che la
guerra procurava. Il richiamo alla dimensione religiosa era spesso in grado di
attenuare e perfino annullare i sentimenti negativi.
Ci furono cappellani
che dopo il conflitto si distinsero per il loro impegno sia religioso e
pastorale che sociale e politico come: don Angelo Giuseppe Roncalli, divenuto
poi papa Giovanni XXIII; Giovanni Forgione da Pietralcina, che divenne padre
Pio; padre Giulio Bevilacqua, nominato
cardinale da Paolo VI; don Primo Mazzolari, diventato in seguito una delle
figure più significative del cattolicesimo italiano della prima metà del XIX
secolo; don Giovanni Minzoni, martire antifascista.
Divenne famoso dopo
il conflitto anche Padre Agostino Gemelli, al secolo Edoardo Gemelli, che però non vi aveva partecipato come
cappellano militare ma come medico e neppur condivideva il dolore e i proclami di pace del pontefice. Egli, nato
nel 1878 da un’agiata famiglia milanese legata alla massoneria, aveva avuto in
gioventù tali simpatie socialiste da convincersi a partecipare ai moti
verificatisi a Milano nel 1898 a causa delle molto precarie condizioni sociali
- economiche delle classi popolari.
Successivamente si
converti al cattolicesimo ed entrò nell'Ordine dei Frati Minori.
Conseguita la laurea
in medicina nell'Università degli Studi di Pavia, in breve divenne una colonna
portante della psicologia.
Nel 1914 fondò la
rivista Vita e Pensiero, che divenne un
vero laboratorio d’idee.
Durante l’anno di
neutralità dell’Italia Gemelli, interventista dichiarato, auspicava che l’Italia
scendesse in guerra a fianco degli Imperi Centrali.
Tuttavia, quando al
contrario il Governo italiano dichiarò guerra all’Austria e alla Germania, il
Nostro, con una conversione a centottanta gradi scriveva:
“La patria chiama
tutti alla sua difesa.
Cessino le
discussioni e i dissidi…[…]. Oggi non c’è più luogo che per il proprio dovere,
per tutto il proprio dovere compiuto con sacrificio, sino all'eroismo.
Noi cattolici, che
sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta
la nostra vita, tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il
nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani i destini della Patria.” (V. “Vita e
Pensiero” del 1° ottobre 1915).
Dopo con
disinvoltura si atteggiò a teorico della lotta ai tedeschi, ritenuti “barbari”.
Egli pensava che la guerra
fosse fondamentalmente un’occasione da non perdere.
Teorizzava il
conflitto come “espiazione”, “rinascita”, insistendo affinché, negli orrori, le
masse (“e soprattutto i miscredenti della classe operaia …”) si rivolgessero
alla Fede cristiana come speranza di salvezza.
Lo storico Sergio
Tanzarella ha scritto: «Gemelli era
capitano medico assegnato al Comando Supremo. In quel ruolo fu uno dei più
ascoltati consulenti di Cadorna. Come psicologo si propose di abbassare ogni
forma di resistenza tra i soldati rispetto alla morte che li attendeva agli
inutili assalti. Alla stessa morte Gemelli attribuiva una valenza religiosa in
grado di convincere i fanti che si trattava di condividere la missione
salvifica di Cristo. Gli articoli di Gemelli in quelli anni e il suo libro,
intitolato “Il nostro soldato. Saggi di
psicologia militare”, Milano, 1917,
sono un’abominevole raccolta di pensieri raccapriccianti, dove la fede viene
posta a servizio di una causa di morte. Gemelli scriveva che la conversione del
soldato si realizzava sul letto dell’Ospedale prima di morire, ma era
cominciata al fronte e ad essa aveva dato un contributo decisivo una singolare
forza di catechesi, la catechesi del cannone.
Pertanto la guerra
era compresa come provvidenziale occasione di rinascita cristiana. Gemelli fu
molto abile a preparare un intruglio di edificazione-rassegnazione di fronte
alla catastrofe della guerra offrendo ad essa una mistica consolatrice come
quando scrive: “Per noi che rimaniamo, per le spose, per le madri, per i figli,
per le sorelle, per gli amici, per i compagni d’armi, per quanti siamo in lutto
in queste giornate di prova la morte dei nostri giovani è ragione di conforto.
Essi hanno accettato di morire, perché hanno sentito la bellezza cristiana del
sacrificio per la patria. Essi hanno fatto di più: hanno fatto risuonare nella
morte questa dolce voce di speranza cristiana che consola, che rende forte, che
sprona al sacrificio, che ci fa degni insomma dell’ora della prova in cui
viviamo”» (V. Gigante, Kocci e Tanzarella La
grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno raccontato sulla I guerra
mondiale, Ed, Dissensi, Viareggio, 2015).
Da quanto sopra
esposto risulta evidente che padre Agostino Gemelli, in qualità di frate minore,
non si preoccupò minimamente di portare tra le rigide pareti del comando
cadorniano la mitezza e la bontà proprie del Santo di Assisi.
Purtroppo, come
durante la sua attività sperimentale di scienziato non s’impietosiva mai del
dolore animale (“… sembra che l’animale provi dolore, ma non è del tutto
esatto: si tratta, più che altro, di contrazioni nervose istintive …”), così
non provava alcuna compassione per i poveri fanti e aviatori che, esauriti,
malati di nervi e traumatizzati dalla guerra, si presentavano per visita medica.
Egli li rispediva al fronte senza pietà, spesso trattandoli da poltroni e da
vigliacchi, affermando che “La paura non è una malattia”.
Quindi
l’impassibilità dimostrata da Gemelli durante gli esperimenti su animali è la
stessa che egli ostentò nei riguardi dei poveri soldati traumatizzati dagli
orrori delle battaglie.
Forse all'epoca i
traumi psichici erano ancora ben lungi dall'essere studiati, ma da un frate minore
diventato esperto psicologo forse qualcosa in più ci si poteva aspettare.
Pietro Congedo