martedì 16 febbraio 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Religiosità e superstizione dei soldati durante la Grande Guerra


La mobilitazione generale (22 maggio 1915), alla quale tre giorni dopo seguì l’inizio delle ostilità dell’Italia contro l’Austria, determinò l’arrivo sotto le armi di centinaia di migliaia di uomini, che non erano soltanto laici. Infatti in breve tempo ci furono fra i mobilitati almeno 10mila appartenenti al clero secolare o regolare, che vennero comunemente detti “preti-soldati”.
Nel Governo Italiano al vertice del Ministero della Guerra c’era il generale Luigi Cadorna, cattolico praticante, che affrontò subito la questione dell’assistenza spirituale ai soldati, nella convinzione che il sacerdote fosse elemento di equilibrio e di conforto non solo per i feriti e gli ammalati, ma per tutti i combattenti, compresi quelli impegnati in prima linea.

L’iniziativa del Governo colse quasi impreparata la Chiesa che, tuttavia, con encomiabile tempestività stabilì la necessaria intesa con lo Stato. Infatti il 1° giugno 1915, la Sacra  Congregazione Concistoriale indicò come  Vescovo Castrense (ovvero Vescovo di Campo)  mons. Angelo Bartolomasi, Vescovo ausiliario della diocesi di Treviso. Successivi accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede portarono all’emanazione del R.D. 27 giugno 1915, con il quale fu istituita la Curia Castrense e resa ufficiale la nomina a Vescovo di Campo di mons. Bartolomasi. Questi, insediatosi a Treviso, ebbe affidati l’organizzazione e la direzione del servizio, il reperimento e rifornimento del materiale religioso, la formulazione del regolamento del clero militare, gli affari civili e militari per i territori occupati, le  conferme dei cappellani già mobilitati dalle direzioni di Sanità dei Corpi d’Armata territoriali, ma  soprattutto gli fu conferito il potere di scegliere fra i preti-soldati i cappellani militari, nella previsione che bisognava  assegnarne uno ad ogni reggimento.
Al Vescovo Castrense venne assegnato il grado e il trattamento economico di maggiore generale dell’esercito, mentre i suoi Vicari ebbero il grado di maggiore, i coadiutori dei Vicari quello di capitano e i semplici cappellani il grado di tenente.

Mons. Bartolomasi  si rivelò veramente capace di espletare il compito a cui era stato chiamato, come si evince dalla seguente dichiarazione fatta ai cappellani militari: «Sapete bene che in trincea non ci sono atei. Il pericolo accosta gli uomini a Dio e dunque al sacerdote che di Dio è il ministro. Il conflitto è una grande occasione di apostolato, per ridare la fede ai dubbiosi e rinsaldare tra la Chiesa e i battezzati quei legami che la pacifica vita di tutti i giorni ha così spesso allentati. […]». Inoltre egli accortamente esortava i suoi subordinati ad operare anche al di fuori dell’ambito strettamente religioso, dicendo loro: «Fatevi anche gli umili e buoni segretari dei soldati e quando questi non possono, non sanno scrivere, fate voi per loro.»

Comunque non tutti  i religiosi mobilitati divennero cappellani. In particolare fra i suddetti 10mila, richiamati nell’estate 1915, solo 700 furono scelti da mons. Bartolomasi. E’ stato poi appurato che, durante l’intero corso della guerra, gli ecclesiastici alle armi furono 24.446 e i cappellani 2.400.
 Per ovviare all’insoddisfazione di coloro che erano rimasti semplici preti-soldati fu riconosciuto loro il diritto di chiedere il passaggio alle compagnie di Sanità, che comprendevano anche il Corpo ausiliario militare della Croce Rossa, dove svolgendo mansioni di infermieri, portaferiti ecc., potevano raggiungere il grado di sergente.

Fra i preti non cappellani, però, fu possibile riscontrare una varietà di situazioni. Risulta, fra l’altro, che 1.582 religiosi, in virtù dei titoli di studio posseduti, furono ammessi a frequentare i corsi di allievi ufficiali, divenendo poi tenenti o capitani.

La nomina a cappellano militare, che era a tutti gli effetti una promozione, prevedeva la presenza nei reparti combattenti, dei quali indossavano divisa, fregi ed emblemi con la sola aggiunta di una croce di panno sul lato sinistro della giubba.

L’attività dei cappellani richiedeva il disprezzo del pericolo al fine di poter visitare i combattenti nelle trincee per assisterli durante le azioni. Molti ottennero encomi e decorazioni per il coraggio dimostrato in mezzo alle battaglie, ed è singolare constatare che alcuni compirono atti di valore in circostanze estranee alla missione sacerdotale. Per esempio: don Sebastiano Allio del 33° fanteria nell’ottobre 1915 sul monte Sabotino salvò la bandiera del reggimento rimasta in una casa, sulla quale sparava l’artiglieria nemica; don Giovanni Minzoni, cappellano del 255° reggimento fanteria, il 15 giugno 1918 durante la battaglia del Piave imbracciò il fucile e alla testa di una pattuglia di arditi si lanciò contro il nemico. Perciò fu decorato con medaglia d’argento.

La guerra avvicinava gli uomini alla Chiesa, ma fin dall’inizio ci fu chi sosteneva che la maggiore partecipazione dei fedeli (combattenti e non combattenti) alle pratiche religiose testimoniasse un autentico risveglio religioso, e chi viceversa vedeva nella più numerosa partecipazione ai riti religiosi un riflesso delle paure e delle superstizioni che in quel triste periodo dominavano gli individui.
Gli ecclesiastici al fronte erano i primi a dubitare dell’autenticità del risveglio religioso, anche se giornalmente si trovavano di fronte a fatti come i seguenti:

  • un soldato calabrese passava di trincea in trincea portandosi dietro una grossa croce di ferro, che poi piantava vicino alla sua postazione;
  • un capitano ferito al torace vietava al medico, che lo operava, di togliergli dal  collo la catenina con la medaglietta della Madonna;
  • moltissimi soldati portavano sul berretto o sulla divisa o al polso medagliette religiose, considerandole veri e propri portafortuna. 

D’altronde durante la guerra le superstizioni si propagavano in maniera impressionante in tutti gli eserciti.

Nei momenti di pericolo: il fante abruzzese, che usava portare sul petto un po’ di terra del paese natio, ne gettava un pizzico dietro le proprie spalle; l’ufficiale calabrese stringeva al petto una crocetta di legno stregato; i soldati piemontesi pronunciavano la formula magica «Samel Arant, Samel Su»; i fanti lombardi conservavano gelosamente le schegge del ceppo natalizio (sciocc de Natal), portandosele appresso in un sacchetto; i militare francesi per vincere la paura stringevano una pietra a forma di cuore, che avevano sempre con sé; i soldati inglesi stringevano invece il cuore di un gatto nero; la corda servita per impiccagione a Trento di Cesare Battisti, fu ridotta in minutissimi pezzi, contesi avidamente come portafortuna dai militari austro-ungarici presenti all’esecuzione; molti erano i soldati che avevano lunghi chiodi di ferro o addirittura ingombranti ferri di cavallo cuciti al cinturone. Benito Mussolini confessò di portare al dito mignolo un anello fatto con un chiodo di cavallo.

In genere le pratiche superstiziose appartenevano alla tradizione popolare delle regioni, dalle quali provenivano i soldati, ma in zone di guerra le stesse si mescolavano con grandissima rapidità. Alcune di esse divennero internazionali, come, per esempio, il divieto di accendere tre sigarette con lo stesso fiammifero.

Con una circolare del 19 dicembre 1916 l’Intendente generale dell’Esercito comunicava che in alcuni ospedali i cappellani e le suore compivano, sia pure involontariamente, propaganda pacifista, insegnando preghiere e invocazioni atte a deprimere lo spirito guerresco degli assistiti. Il Comando Supremo – si leggeva nella  circolare – desiderava invece che l’opera di assistenza assumesse carattere più virile e consono alle ineluttabili necessità del momento.

Il successivo 13 gennaio lo stesso Comando Supremo invitò i comandi in sottordine a vigilare sulla corrispondenza  di contenuto pacifista o religioso, ricevuta dai soldati.

Nel 1917 ci fu forte tensione tra le autorità militari e i cappellani, quando questi ultimi, su proposta di padre Agostino Gemelli, procedettero alla “consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù”. Consacrazione questa che fu effettuata  in maniera collettiva, con la partecipazione volontaria dei soldati alle funzioni religiose del 1° venerdì del mese. Ogni partecipante ricevette l’immagine del Sacro Cuore, quale simbolo dell’avvenuta consacrazione e degli impegni da essa derivanti (i soldati, fra l’altro, si erano obbligati a far consacrare anche le loro famiglie). Le numerose manifestazioni relative all’iniziativa furono quasi sempre bene accolte, ma non mancarono altrettanti dissenzienti. Infatti alla fine di febbraio il Ministero della Guerra diramò una circolare, nella quale si precisava che l’iniziativa di padre Gemelli non era stata autorizzata e, soprattutto, si giudicava la stessa “consacrazione” come pericolosa per la disciplina, in quanto essa, imponendo ai soldati “consacrati” di portare sulla giubba o sul berretto il simbolo del Sacro Cuore, determinava “una palese differenziazione fra i militari di una stessa fede religiosa”.

Mons. Bartolomasi dispose allora che detto simbolo fosse portato dai soldati in modo non visibile. Ma l’Autorità militare non fu d’accordo, e lo stesso Bartolomasi dovette ordinare ai cappellani di desistere dall’iniziativa.

Grande amarezza provò il Vescovo Castrense quando, essendo stata vietata nell’esercito la preghiera scritta da papa Benedetto XV per la pace, egli stesso dovette compiere ispezioni  per accertarsi che il divieto fosse rispettato.      

Comunque, a parte i problemi creati dalla Consacrazione al S. Cuore di Gesù e dal divieto di pregare
per la pace, lo stato d’animo dei cappellani mutò sensibilmente tra la fine del 1916 e l’inizio del 1917. Infatti, svanita l’aspettativa di una breve durata delle ostilità, i sacrifici di ogni genere uniti agli orrori delle battaglie causavano stanchezza e sfiducia ai cappellani e ai preti-soldati, come a tutti i combattenti. Ma ai cappellani, che all’inizio avevano considerato la guerra come occasione di apostolato, i lunghi mesi trascorsi al fronte mettevano a dura prova la loro stessa vocazione.
Il conflitto, iniziato con imponenti manifestazioni di devozione collettiva, riservò ai cappellani sorprese e delusioni, in quanto si constatava un crescente assenteismo dei soldati dalle funzioni sacre, sintomo evidente di notevole rilassamento nella religiosità e nella moralità.

In occasione della prima Pasqua di guerra (1916) nella maggior parte dei reggimenti, essendoci stata una partecipazione alle funzioni religiose superiore all’80%, le confessioni andarono molto per le lunghe. Perciò alcuni cappellani per la Pasqua 1917, prevedendo un uguale  afflusso di fedeli, chiesero a preti-soldati di aiutarli nelle confessioni. Ma i confessori attesero invano i penitenti, poiché se ne presentò appena il 4% , di cui la maggior parte seminaristi.
In un convegno di cappellani uno degli intervenuti affermò che, ormai, il sacrificio di se stessi era l’unico modo efficace all’esercizio della propria missione.

Ognuno si rendeva conto che le belle parole avevano perduto il loro fascino, infatti perfino i discorsi patriottici di padre Giovanni Semeria (1867 – 1931), predicatore barnabita famoso per il suo impegno nell’ambizioso progetto di dare agli “orfani di guerra” una casa, e con essa un’educazione e una famiglia, venivano accolti dalle truppe con fischi ed altre rumorose proteste.
Nell’agosto 1917 la pubblicazione da parte di papa Benedetto XV della “nota diplomatica” (tendente alla sostituzione della guerra in corso con un arbitrato internazionale, atto a far cessare la “inutile strage”) fu accolta malissimo dai Generali. In particolare Cadorna si preoccupava che le parole del pontefice demoralizzassero le truppe, impegnate proprio in quelle ore nella battaglia sull’altopiano della Bainzizza.

Invece le parole del pontefice aumentarono la combattività dei soldati, poiché si ricorse all’espediente di dire loro: «Il papa vuole la pace: è giusto, è bene, ma noi la pace l’avremo dando un buon colpo al nemico. Vedete, questo è proprio l’ultimo sforzo: diamogli dunque addosso!»

Pietro Congedo