Quando il 24 maggio
1915 ebbero inizio le ostilità dell’Italia contro l’Austria [mentre quelle di Austria-Ungheria contro
la Serbia erano già iniziate il 28 luglio 1914 e in breve avevano coinvolto sia
Russia, Francia e Inghilterra (alleate della Serbia) che la Germania (alleata
dell’Austria)] il tumultuoso
contrasto tra neutralisti e interventisti si placò non tanto a causa dei
silenzi imposti dalla censura sulla stampa o dalle nuove leggi di Pubblica
Sicurezza, quanto proprio per il turbamento e il disorientamento provocati in
tutti i partiti dalla realtà della guerra.
Tuttavia il Partito
socialista (che era sempre stato contrario alla guerra) adottava ufficialmente
la formula del «non aderire né sabotare»,
i cattolici dichiaravano di volersi comportare da cittadini obbedienti alle leggi,
i giolittiani mantenevano un atteggiamento prudente e riservato (mentre il loro
capo in un patriottico discorso dichiarava di essere devoto al Re e di voler sostenere
il Governo), e il cinquantenne Cesare De Lollis, fondatore del gruppo
neutralista “Italia Nostra”, partiva volontario per il fronte.
Ma nelle città e
ancor più nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate, già estranee
al dibattito sull’intervento, tenevano un atteggiamento indifferente - se non addirittura ostile – nei riguardi del conflitto
ormai in atto, il quale, non assomigliando per nulla alle tre brevi guerre
d’indipendenza dell’800, richiedeva invece la partecipazione di tutti i
cittadini, uomini e donne, sia per la costituzione di un esercito di enormi
dimensioni, sia per l’indispensabile impegno produttivo dei campi e delle officine.
In altri termini, mentre quella in atto era una guerra totale, guerra di masse
e, come tale, molto dura e non certo breve, sul conto della stessa sia fra gli
uomini della strada, sia fra quanti avevano responsabilità decisionali dominava
l’idea del tutto falsa che si trattasse di un conflitto non diverso di quello
per la conquista della Libia (1911-12).
Infatti il Governo
non si preoccupava per niente dell’acquisto di ciò che in inverno sarebbe stato
necessario all’Esercito: lo stato d’animo prevalente era quello di un’attesa fiduciosa.
Non mancava certo l’angoscia nelle famiglie per i congiunti mandati al fronte,
ma pochi erano veramente coscienti dei
rischi e della gravità dell’impresa a cui la Nazione si era accinta.
I soldati partivano
senza sapere quale spaventosa esperienza fosse la guerra che già si combatteva
da circa dieci mesi in Francia o nei Balcani. Essi si avviavano e partecipavano
ai primi combattimenti con un morale nel complesso abbastanza alto. Questo si
riscontrava, però, nei combattenti evoluti culturalmente, mentre la grande
massa di fanti contadini e analfabeti non solo non sapeva, ma neppure si
preoccupava di sapere per quali ragioni la guerra era combattuta. A tale
proposito Adolfo Omodeo scriverà: «…La guerra era sentita dal popolano come un
fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni: sarebbe passata, ma ci
voleva pazienza; per il contadino, infatti, la guerra era un male, un castigo
dei peccati: “Ma , una volta scatenatosi il flagello, lo accettava e lo
sopportava virilmente, come il buon agricoltore regge alla tempesta e al
solleone”».
Stati d’animo del
tutto simili si ripetevano negli eserciti degli altri paesi belligeranti.
Tuttavia all’inizio del conflitto era possibile notare il diffondersi di una
certa eccitazione, capace di stimolare un poco tutti al patriottismo. Anche i
civili avvertivano tale incitamento, ma ne venivano colpiti soprattutto i
militari, sui quali agivano contemporaneamente sia i mezzi coercitivi, sia i valori di cameratismo e solidarietà
propri dei combattenti, sia i naturali fattori agonistici che tendono a
manifestarsi con l’esercizio delle armi.
Nel maggio del 1915
non c’erano ancora le idee e la pratica della guerra totale, e lo spirito risorgimentale e garibaldino
animava tanti combattenti.
Comunque talvolta non
si era contro la guerra anche per motivi
contingenti per es.:
- nell’Italia del 1915, la popolazione era in gran parte costituita da analfabeti o semianalfabeti, da modestissimi contadini o operai o artigiani, che in genere vivevano in condizioni disagiate, quindi il vitto quotidiano, assicurato dalla appartenenza all’Esercito, rappresentava per loro un notevole miglioramento delle condizioni di vita;
- all’epoca per quasi tutti gli italiani rarissime erano le occasioni per muoversi, viaggiare e distrarsi, quindi il servizio militare, rompeva la monotonia della vita quotidiana, consentendo di conoscere luoghi e uomini nuovi.
Fin dall’inizio
venne impedito a tutte le forze politiche favorevoli alla guerra, sia di destra
(per es. i nazionalisti), sia di sinistra (repubblicani, socialisti radicali
ecc.) di far sentire la propria voce in seno all’esercito.
Del tutto
sporadicamente, in occasione di qualche cerimonia o alla vigilia di qualche
azione pericolosa, i comandi si rivolgevano all’intellettuale, al letterato,
all’avvocato interventista che ora vestiva la divisa di ufficiale, affinché
pronunciasse un discorso d’incoraggiamento patriottico ai commilitoni, in
nessun modo si verificò qualcosa che potesse far pensare ad una attività
meditata e concertata di propaganda, sia pure sotto il controllo delle autorità
militari.
Il 10 giugno 1915 il
generale Zuppelli, ministro della guerra, inviò disposizioni ai comandi di
corpo d’armata, di divisione e di reggimento perché s’impedisse agli
interventisti rivoluzionari qualsiasi forma di propaganda. Proprio in questa
fase a repubblicani, radicali socialisti ecc. nonché ai loro figli fu vietata
la partecipazione ai corsi per allievi ufficiali. A tale divieto incorse, fra
gli altri, Benito Mussolini.
In precedenza (23
maggio) il Governo aveva deciso di vietare la costituzione di corpi volontari
autonomi, perciò i Fratelli Garibaldi, che nel 1914 avevano formato in Francia
la “legione italiana”, tornando in patria fecero parte dell’esercito regolare.
La liberazione delle
regioni nord-orientali era uno dei primi obiettivi della guerra: si soleva dire
ai soldati che il loro grande e meraviglioso compito fosse quello di redimere i
fratelli oppressi dall’Austria. Accadeva
invece, con grande delusione degli interventisti, che proprio le popolazioni
del Friuli orientale accogliessero con freddezza, con diffidenza e sovente con
aperta antipatia i soldati italiani. A tal proposito anche Vittorio Emanuele
III espresse il suo rammarico affermando: «La
popolazione oltre confine, che è rimasta nelle case, non ci è amica».
Nonostante l’acquisto
nell’aprile nel 1915 di un certo numero di cannoni, le artiglierie italiane
erano ancora insufficienti e prive di adeguate scorte di munizioni.
Scarseggiavano anche le armi leggere, infatti fanteria e bersaglieri all’inizio
della guerra non avevano mitragliatrici e solo a luglio ne ricevettero due per
ogni reggimento, mentre il nemico ne possedeva dapprima due e poi otto per
battaglione. Erano sconosciute le bombe a mano e le prime cassette, giunte ai
comandi, contenevano un modello assai imperfetto che nessuno sapeva adoperare.
Gli ufficiali, non
avevano ricevuto in tempo le pistole d’ordinanza, perciò se non acquistavano da
armaioli pistole di un qualunque tipo,
rimanevano disarmati.
I soldati erano
circa un milione e mezzo, ma non erano disponibili altrettanti fucili modello
91, perciò si distribuivano anche gli antiquati moschetti Wetterli.
In quell’epoca le autovetture
circolanti in Italia erano circa 20.000, ma il 24 maggio, al passaggio del
confine, il secondo Corpo d’Armata, forte di diecine di migliaia di uomini,
possedeva soltanto l’auto del comandante.
Nel maggio 1915 i
soldati dell’esercito italiano avevano già la divisa di panno grigioverde, ma non
possedevano l’elmetto, avendo come copricapo una sorta di chepì anch’esso di
panno.
Le truppe italiane
andavano ai primi assalti in formazioni molto fitte, e gli austriaci
affermavano che tirare sugli italiani era più facile che tirare al bersaglio.
Durante la guerra di Libia i reparti
avevano imparato a diradarsi, ma nell’estate del ’15 tale esperienza venne
dimenticata. A questo proposito il generale Pettorelli-Lalatta, in data 27
agosto, scriveva: «E qui lanciamo ancora
le fanterie all’assalto… a bandiera spiegata, ammassate, con musica».
Secondo le
disposizioni del comandante supremo Luigi Cadorna, contenute nella circolare del 1915, intitolata “Attacco frontale ed ammaestramento tattico”(che,
essendo stata ampiamente diffusa, era certamente nota anche al nemico), ogni
azione della fanteria doveva essere preparata da tiri delle artiglierie capaci
di spianare la via e di spazzare “coll’impeto
e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione”.
Ma nella pratica le nostre artiglierie, che erano imprecise e disponevano di un
insufficiente numero di bocche di fuoco e di scarse munizioni, iniziavano il
bombardamento sulle posizioni avversarie, del quale il principale effetto era
quello di porre il nemico in stato di allarme, poiché raramente venivano
colpiti i reticolati e le trincee nemici. Quando terminava il
bombardamento i fanti uscivano allo
scoperto e trovavano i reticolati nemici intatti, e le mitragliatrici pronte a
falciarli. Se poi il bombardamento aveva operato un varco nei reticolati (e
creato dunque un passaggio obbligato), il compito dei tiratori austriaci era addirittura
facilitato.
Il generale Cadorna,
pienamente cosciente dell’impreparazione e dell’insufficiente equipaggiamento
delle truppe, non perdeva occasione per chiedere al Governo di colmare le
lacune che si andavano riscontrando. In particolare insisteva nel chiedere
munizioni e cannoni, pretendendo anche che questi fossero funzionanti, in
quanto ben ventidue obici erano esplosi per difetti “nelle bocche di fuoco e negli esplosivi”.
Egli era convinto
che le forbici taglia-fili potessero efficacemente servire ad aprire varchi nei
reticolati nemici, perciò rimproverava il ministero di avergliele concesse “solo dopo lunghi stenti e pressanti
insistenze”, ma esse non servirono a niente.
La probabilità che a
causa dell’impreparazione il Regio Esercito andasse incontro ad un insuccesso
nei primi scontri col nemico aveva anche indotto il Comandante Supremo a
chiedere, il 17 giugno 1915, al Presidente del Consiglio Salandra d’intervenire
sugli alleati perché iniziassero anch’essi un offensiva “contemporanea” al fine
di mettere in crisi gli Austriaci. Ma
poi rompendo gl’indugi ordinò l’attacco.
Ebbe cosi inizio la prima battaglia
dell’Isonzo (23 giugno – 7 luglio), destinata al fallimento. Anche la seconda
battaglia dell’Isonzo (18 luglio – 4 agosto) venne da
Cadorna disposta senza la necessaria preparazione, ma immediatamente soltanto
perché a causa dell’insuccesso della prima egli “sentiva salire la marea di malcontento” in tutti i settori
dell’opinione pubblica.
Quando anche la seconda
battaglia si concluse con elevate perdite e guadagni assai modesti, il
Comandante supremo informò Salandra che non avrebbe più ripreso l’offensiva
fino a che non gli fossero stati forniti
complementi, munizioni e rifornimenti in misura tale “da evitare per l’avvenire la grave crisi odierna”.
Così successivamente
per oltre due mesi l’esercito rimase sostanzialmente fermo.
Il 18 ottobre Cadorna, sia perché
i mezzi tanto insistentemente richiesti gli erano in parte pervenuti, sia in
quanto voleva assolutamente conseguire un successo prima della fine dell’anno
per non sfigurare di fronte degli alleati nonché di fronte agli stessi
italiani, decise di dare inizio alla terza battaglia dell’Isonzo, che terminò
il 4 novembre, seguita a meno di una settimana dalla quarta (10 nov. – 2 dicembre).
Le suddette quattro
battaglie comportarono la perdita di 183mila uomini, di cui 62mila i morti, ma
i risultati furono molto modesti. Quindi svaniva l’illusione della ‘guerra
breve’ ed una profonda crisi morale sopravvenne
nel corso delle offensive d’autunno, quando la pioggia, il fango, le
sofferenze patite intristivano gli uomini e mutavano il volto della guerra.
Gli assalti si
ripetevano con esasperante monotonia e sempre contro le medesime posizioni. A tal proposito scriverà in
seguito Curzio Malaparte: «… A un tratto,
tranquillamente, la fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava trotterellando verso le mitragliatrici
austriache, con un vocio confuso che nulla aveva di eroico. Gli uomini (o) cadevano a gruppi uno sull’altro…(oppure),
senza un lamento, andavano a stendere le
proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare».
Nel 1915 coloro che
avevano immaginato rapide e vistose conquiste, potettero ricevere dal fronte
notizie assai vaghe. Infatti i giornalisti non erano ammessi nelle zone di
guerra, in tutto il Paese vigeva la censura e ben poco si poteva ricavare dalla
lettura dei bollettini ufficiali, i quali peraltro finirono solo col suscitare
allarmi e preoccupazioni in quanto, mentre all’inizio fornivano quotidianamente
le cifre delle perdite subite dai reparti combattenti o da questi inflitte al
nemico, avevano poi improvvisamente cessato di farlo.
Essendo anche le
lettere dei combattenti rigorosamente censurate, il Paese cominciò ad intuire
la cruda realtà del conflitto dai
racconti dei feriti ricoverati nelle retrovie o in convalescenza nelle proprie
case, nonché dai soldati in licenza.
Tuttavia non mancò
la vigilanza anche su detti militari e alcuni furono anche puniti e fatti
rientrare nei reparti, mentre per volere di Cadorna veniva ridotta al minimo la
concessione di licenze.
La crisi della
guerra cronica, nata sul fiume Isonzo, era presto rimbalzata nel Paese
procurando lutti e sofferenze inaudite, di fronte ai quali molto grave fu il
disagio degli interventisti, perché più doloroso era in loro il crollo delle
illusioni, più grande il peso delle responsabilità. A tal proposito scriverà
poi A. Omodeo: «Lo smarrimento morale
della guerra cronica fu la prova più amara per l’esercito. Falliva ciò per cui
si era sognata la guerra: la rapidità tagliente delle risoluzioni.»
Gli interventisti che
erano sotto le armi cominciarono ad essere trattati con odio e disprezzo dai
commilitoni. Chi era partito volontario cercava di mantenere questo fatto
assolutamente segreto.
Il 1° novembre 1915
B. Mussolini era al fronte e un soldato, incontrandolo, gli chiese: “Sei tu
Mussolini?” “Si.” “Benone, ho una notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni.
Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti.”
Il monaco barnabita padre Giovanni Semeria,
cappellano militare, essendo stato un appassionato interventista, al cospetto degli orrori della “provò l’angoscia smarrita di aver tradito la sua
vocazione sacerdotale”; internato in
una casa di cura svizzera, pensava addirittura di togliersi la vita, “credendosi colpevole della morte di giovani,
di padri di famiglia, che alcuni suoi incitamenti potevano aver spinto alla
guerra”.
Cadorna chiedeva al
Governo il massimo sforzo finanziario per ottenere gli uomini e i mezzi
necessari per riprendere nella primavera
del ’16 la lotta con maggiori
probabilità di successo. Ma la situazione finanziaria dello Stato era
drammatica e preoccupava seriamente il
Capo del Governo, che il 18 settembre 1915 convocò i Ministri sia per
informarli che le richieste del Comando supremo comportavano una spesa di 15
miliardi di lire, sia per porre loro la domanda: “Dove trovare tanto denaro?”
L’interrogativo
rimase senza risposta e i ministri deliberarono molto genericamente che ognuno
ci avrebbe pensato e poi proposto un programma di economie.
La guerra, dunque,
era ormai entrata in una fase per molti versi incomprensibile, irrazionale, che
lasciava senza risposta scottanti interrogativi.
I primi sei mesi
della stessa avevano cancellato i trascorsi entusiasmi al punto che nel «…funereo autunno del 1915 […] le radiose
giornate di maggio erano diventate il più fastidioso dei ricordi e il solo
nominarle assumeva il sapore amaro del sarcasmo…» (V. Rino Alessi, DALL’ISONZO Al PIAVE – A. Mondadori Editore 1966, pag.
13).
Pietro Congedo